Archvi dell'anno: 2009

I Fratelli secondo me

Visto che Irene dorme beata (più o meno), ne approfitto per aderire all’invito di G.L. e Eleas circa i consigli di lettura. Che poi, ho sempre dato consigli di lettura, qua sopra, live durante le presentazioni, agli amici…Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Per altro, per chi non ha idee su cosa leggere, trovate un florilegio abbastanza eterogeneo nella mia biblioteca di Anobii; credo ce ne sia per tutti i gusti, sono certa che spulciando troverete qualcosa che vi piacerà.

Detto questo, io parto col botto. Nel senso che vi parlo direttamente di uno dei libri che più ho amato in vita mia. L’ho rubato alla libreria dei miei (è l’unico con cui l’ho fatto, fatta eccezione per il mitico Il Nome della Rosa che ho fregato al mio babbo, essendo incapace di leggerlo in un’edizione diversa da quella che tenni in mano per la prima volta, in vacanza con gli zii, a sedici anni o giù di lì), ogni tanto lo prendo in mano e lo rileggo, un paio di mesi fa ne ho tratto una citazione che usai per una mail piuttosto triste. Per dire che è un libro che parla, non smette mai di farlo, stimola un mare di domande e, meraviglia delle meraviglie, appassiona anche. Trattasi de I Fratelli Karamazov.
Lo so che può sembrare impossibile, assurdo e anche pretestuoso, ma è un libro che ha segnato il mio modo di scrivere. Aster è stato concepito, ancora informe grumetto di cellule, un pomeriggio di tanti anni fa, a teatro, dove andai con la scuola a vedere una riduzione di Ronconi del suddetto libro. Non amo molto le regie di Ronconi, soprattutto quando si cimenta con le riduzioni dei libri. Ricordo un Quer Pasticciaccio Brutto de Via Merulana che era indigeribile, trattandosi di mera lettura del testo sul palco. I Fratelli Karamazov da questo punto vista era più riuscito, e lo seguivo con maggior interesse, ma dire che mi stesse davvero piacendo è un po’ eccessivo. Ma a un certo punto, apparve lui: su una specie di ring, vestito di nero, imponente e severo. Davanti a lui, un Cristo vestito di bianco. Era il Grande Inquisitore, e qualcosa in me cambiò.
Se uno si attiene alla mera trama, I Fratelli Karamazov è una specie di romanzo d’appendice. Tutto gira intorno all’omicidio di Fëdor, uomo dissoluto e detestabile, padre dei fratelli da cui il titolo: Dmitrij, il maggiore, accusato dell’omicidio, poiché rivale in amore di Fëdor (entrambi sono infatti invaghiti della stessa donna), Ivan, animo tormentato, e il candido Alëša, che s’è ritirato in convento e ha uno sguardo puro sull’umanità e le sue vicende. L’azione non manca, ci sono capovolgimenti e colpi di scena. Insomma, è un libro in cui la trama conta. Un libro di intrattenimento? Io direi di sì, visto che la storia è appassionante. Ma, come in tutti i capolavori che si rispettino, la trama è anche uno (splendido) pretesto per mettere in scena una vera e propria tragedia. La famiglia Karamazov sembra in qualche modo afflitta da un male dell’anima: tranne Alëša, tutti sembrano tentati dalla perversione e dalla corruzione, una corrente sotterranea di malvagità scorre nel sangue di famiglia. Figli che si rivoltano contro i padri, padri dissoluti, amori ossessivi e distorti. I personaggi sembrano canne al vento, in balia di emozioni alle quali non riescono a resistere, scossi fin nel midollo da passioni soverchianti. C’è epos, molto, in questa tragedia di famiglia. I personaggi sono archetipici, figure per certi versi esagerate, che mi ricordano quelli del mito, della tragedia, appunto. Ognuno può rivedersi in ciascuno di essi, nella loro sete insaziabile di una verità che forse non esiste, nel loro brancolare alla ricerca di un senso, perdendosi in abissi oscuri, cercando una ribellione (Ribellione si chiama proprio uno dei capitoli più belli del libro) per certi versi senza costrutto, che li lascia più insoddisfatti di prima. Vi ripeto, è epica, come quella dell’Iliade, è tragedia, come quella di Sofocle.
E poi, ci sono questi due brani, che sono tra le cose più belle che abbia mai letto. Ventura vuole che uno sia il preferito di Giuliano, l’altro mio.
Tutto comincia da una discussione tra Alëša e Ivan. Quest’ultimo, presenta ad Alëša il problema esistenziale che lo assilla: egli riesce a darsi una spiegazione del dolore del mondo, e a conciliarlo con l’esistenza di un Dio buono e giusto, ma non riesce a darsi ragione del dolore dei bambini. Perché Dio permette agli innocenti di soffrire, e di soffrire terribilmente? Ivan arriva al punto di affermare che un mondo in cui la pace eterna debba essere pagata con la sofferenza anche di un solo bambino è un mondo nel quale non vale la pena vivere. È questa la Ribellione di cui dicevo prima.
Questo brano fa un po’ l’effetto di certi interludi nelle canzoni dei Muse, che dio mi perdoni il paragone :P . Arrivano inaspettati, e ti sembra non abbiano alcun legame col resto della canzone. E invece ce ne hanno, e molto. Così questa parte del libro. Apparentemente, un interludio staccato dal resto, una lunga pausa filosofica di cui non si capisce bene il senso. Eppure è la vetta del libro, il suo sunto programmatico, il disvelamento del suo senso, addirittura di molto del senso della poetica di Dostoevskij tout court.
Subito dopo questa parte, arriva il Grande Inquisitore. Ivan espone a Alëša la sua idea per un poemetto ambientato in Spagna ai tempi dell’Inquisizione. Ivan immagina che Cristo ritorni sulla terra, cammini di nuovo in mezzo al suo popolo per lenirne la sofferenza, e vanga riconosciuto dagli umili, dai malati, dai sofferenti. Ma il Grande Inquisitore lo fa imprigionare e condannare a morte. Prima dell’esecuzione della condanna, c’è un incontro tra i due: il Grande Inquisitore spiega a Cristo la sua visione della fede e dell’uomo, spiegandogli perché il suo ritorno non solo non è benedetto, ma è solo portatore di confusione e dolore. Cristo tace per tutto il tempo. La visione del Grande Inquisitore è spietata: l’uomo non vuole essere libero, ma bensì desidera che qualcuno lo sollevi dal peso insopportabile della scelta. Per questo si piega alla gerarchia della chiesa, cercando qualcuno che gli dica cosa pensare, cosa fare. Cristo ha dato agli uomini la scelta, e li ha gravati del peso del libero arbitrio, procurando loro solo sofferenza. La Chiesa ha dato di nuovo loro la pace, rendendoli schiavi di un unico pensiero.
Ma il Grande Inquisitore va oltre. Vede se stesso come un martire: in un mondo in cui nessuno vuole libertà di pensiero, per forza di cose debbono esistere uomini “superiori” che prendano su di loro il peso della scelta, e guidino il popolo a prezzo di grandi sofferenze. Il Grande Inquisitore compie il male per il bene del popolo, il Grande Inquisitore si danna per il bene dell’umanità, in mezzo a una genia di uomini che hanno scelto una schiavitù beata, è uno dei pochi che debba sopportare il peso della consapevolezza, l’insostenibile responsabilità di scegliere, per sé e per gli altri. E per questo deve uccidere il Cristo.
Una figura grandiosa, estremamente attuale, che pone problemi di non facile soluzione. Perché tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo sentito il bisogno di abdicare alla nostra facoltà di scegliere, abbiamo sentito la suprema tentazione di un fanatismo che non lasci libertà alcuna, ma ponga la nostra vita su binari prestabiliti, rassicuranti. Il Grande Inquisitore mi ossessiona da quando ne ho letto, e rivedo il suo fantasma spesso, in trasparenza alla realtà che mi circonda. E quest’idea suprema e tremenda di qualcuno che compie azioni terribili convinto di star compiendo il bene (“È inimmaginabile per chiunque la quantità di Male che bisogna accettare per ottenere il Bene” dirà Andreotti ne Il Divo di Sorrentino) mi gira nella testa da sempre, appare larvata in molte mie creature, senza che riesca a darle una compiutezza che mi soddisfi (come è giusto che sia, sono una giovane Padawan).
Insomma, un libro in cui c’è tutto: la riflessione, l’intreccio, l’approfondimento psicologico. Un libro appassionante e bellissimo. Spero di avervi incuriositi almeno un po’. Non vuole essere una recensione, non vuole essere una critica: giusto uno spunto, un consiglio da lettrice a lettori.

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Cesare taccio

In questi giorni di festa, tra una poppata e l’altra, ho anche cercato di interessarmi del mondo fuori dalla mia porta (mondo che fisicamente non sto frequentando molto da un mesetto circa, devo ammetterlo). E mi sono imbattuta nella polemica delle feste: questa. So che l’impresa è improba, ma la polemica non è tanto nel post, quando nei commenti, per cui vi invito a leggerli più o meno tutti.
Ora, G. L. ha ripreso la questione più volte sul suo blog, dicendo anche che tutto sommato era il caso che noi scrittori di genere accorressimo in massa a dare il nostro contributo, quanto meno per dimostrare che non siamo microcefali come ci si dipinge. Confesso che un po’ di sensi di colpa mi sono venuti. Ma confesso pure che più leggo quella discussione, più mi rendo conto che mi sento in imbarazzo ad infilarmici dentro.
Credo che si possa affermare con un certo grado di sicurezza che i miei libri siano monnezzoni. O meglio, che ci siano schiere di persone che li definirebbero così. Ora, non è che la cosa mi indigni più di tanto. Le accuse di Cortellessa non hanno niente di nuovo né di originale. Lo sappiamo tutti cosa la critica, e, diciamocelo, anche il pubblico generalista, pensa del fantasy. Non è una posizione particolarmente coraggiosa né così straordinariamente anticonformista affermare che il fantastico sia tout court monnezza, e che appartenga a quella deprecabilissima branca della scrittura definita “di intrattenimento”. Voglio dire, ho difficoltà persino con mia madre, che non è certo una persona mentalmente chiusa, e il fantastico le va giù abbastanza a fatica. Quindi, ho trovato innanzitutto piuttosto inutili le pose da titano di Cortellessa: il mondo è pieno di gente che la pensa come lui, senza neppure essere critico letterario e senza neppure avere uno straordinario bagaglio culturale, se è per questo. Per cui, il problema non è tanto questo tipo di critica.
Il problema è che mi rendo conto che esiste una branca intera del mondo letterario col quale non c’è alcuna possibilità di discussione. Non c’è perché manca letteralmente un terreno comune sul quale costruire le basi di una discussione.
Per esempio. Cortellessa dice che non solo le librerie sono invase da libri di genere, cosa con la quale potrei anche essere parzialmente d’accordo, per quanto mi pare che la Rowling abbia un’esposizione quanto meno pari, se non minore, a libri mainstream come quelli di Vespa, della Mazzantini o di Giordano. Per cui, se proprio vogliamo parlare di sovraesposizione, non sono i libri fantasy a monopolizzare le librerie, sono libri che, sono certa, Cortellessa definirebbe “commerciali”. No. Cortellessa dice che la critica è monopolizzata dai libri fantasy. Ma dove. Me lo sono perso? Quando è successo? No, perché magari un tg può anche parlare dell’uscita dell’ultimo libro della Mayer, ma non mi pare che ci critici facciano a gara a prodursi in esegesi di Harry Potter. Per carità, ripeto, magari me lo sono perso, al che, se qualcuno di voi ne ha notizia, vi prego, indicatemi dove posso recuperare una cosa del genere. Basterebbe comunque già questo a dimostrare che noi di genere, se mi è permesso parlare per la categoria intera, e la critica si vive proprio su piani di esistenza differenti, che portano a letture del reale contrapposte. Ma c’è di peggio.
Il peggio è innanzitutto il fatto che nella discussione emerga che per Cortellessa il fantasy non solo è consolatorio (e già qua avrei molto da ridire), ma è pure in qualche modo deleterio, diseducativo. L’equivalente letterario – no, scusate, non letterario, noi non siamo letteratura – l’equivalente su carta, ecco, dei cinepanettoni o del Grande Fratello. Noi anestetizziamo il cervello dei ragazzini, li rincoglioniamo, li allontaniamo dalla vera letteratura, che, per forza di cose, non diverte, è pesante e richiede al lettore uno sforzo di concentrazione sovrumana, che il povero lettore medio di fantasy proprio non è in grado di tollerare.
Ecco, questo mi fa incazzare. Perché tocca l’unica cosa sulla quale sono davvero suscettibile: la mia onestà intellettuale.
Io scrivo per divertire. Lo faccio perché sono convinta che leggere sia anche e anzi soprattutto un piacere, e per questo divertire con una storia non è consolare, è solo cercare vie più agevoli per veicolare dei messaggi. Non me ne frega una cippa di fare letteratura, né di entrare nei libri di testo a scuola fra cinquant’anni. Non mi frega neppure di insegnare qualcosa, ecco l’altro punto caldo. Cortellessa dice di voler insegnare agli altri la sua cultura, di volerli elevare al di sopra dei monnezzoni. Ecco. Io no. Perché non ho niente da insegnare. Ho da condividere, ho da imparare. Io voglio imparare coi miei lettori. Voglio con loro uno scambio, voglio gettare semi che poi ciascuno rielabori alla luce della propria esperienza di vita. E se questo non è letterario, ok, allora non faccio letteratura. Preferisco far questo. Ma non mi si venga a dire che una cosa del genere è diseducativa e spegne il cervello. C’è gente che mi scrive dicendo che ha scoperto la lettura coi miei libri, e non mi pare poco. Mi si può venire a dire, dopo averli letti – ecco altro punto dolente, Cortellessa s’è letto solo Tolkien o giù di lì, ma gli basta per bollare tutto il genere, e anche Tolkien non gli piace perché è stato cooptato in Italia dalla destra – che i miei libri non dicono niente, che mancano il bersaglio, che sono sciatti, mal scritti e quel che vuoi. Ma non puoi venirmi a dire che un intero genere è consolatorio e diseducativo, perché in quel genere c’è una costellazione di autori impossibile da ridurre all’unità. C’è un abisso di intenti, stile e riuscita tra Rowling e Le Guin, per dire. E chi dice che la Le Guin è consolatoria mente sapendo di mentire, o non l’ha mai letta. È consolatorio Dimitri, D’Andrea? È consolatorio lo Stroud de La Valle degli Eroi, che decostruisce il mito dall’interno, e con una storia assolutamente travolgente tesse un apologo attualissimo sulla libertà, sulle tradizioni che ci imprigionano, sulla fede cieca che ci ingabbia?
E anche sul fatto che la letteratura, per essere tale, deve essere impegnativa si potrebbe stare a disquisire da qui all’eternità. Io mi diverto a leggere l’Iliade, io mi diverto a leggere Dostoevskij. Un libro che non diverte, e non sto parlando della risata crassa da bambino che ripete cacca a ripetizione, ma di divertimento inteso come godimento intellettuale nel senso più lato possibile, è un libro fatto male, punto.
Insomma, alla fine i miei due cents li ho spesi. Bell’esempio di preterizione. Ma io queste cose non le dico da oggi. Le dico da quando ho iniziato a scrivere, le dico probabilmente da quando ho iniziato a riflettere sul mio essere lettrice. Ma tanto le dico a vuoto. Universi paralleli e intangibili, ecco. La sensazione finale, dopo 220 commenti sotto il post su Lipperatura, è di un gruppo di sordi che si parlano addosso. Non c’è punto di contatto possibile, quando la definizione stessa dell’argomento di discussione è diametralmente opposta.
G. L. dice che occorre insistere, che l’Accademia serve, quanto meno come muro da abbattere, come sfida da vincere. Il problema è che questa Accademia è un muro di gomma.

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Tanti Auguri!

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Nature

Continuo ad arrovellarmi su questa storia del naturale. Capitemi, Irene mi riempie parecchio le giornate, per cui uno finisce a pensare un po’ sempre a quello.
Partorire è una cosa naturale. La gravidanza è una cosa naturale. L’allattamento poi non ne parliamo. Allora perché nessuna delle tre cose m’è venuta poi così spontanea?
Voglio dire, la mia gravidanza m’è piaciuta, nonostante il diabete e le paranoie. Lo rifarei assolutamente, la pancia addirittura mi manca. Ma è una cosa piena di fastidi. Per dire, i muscoli pelvici alla fine tirano che è una cosa impressionante. Perché. Cioè, il bacino femminile, e tutti gli annessi, non dovrebbero essere fatti per sopportare sollecitazioni del genere? Anzi, in un’ottica meramente riproduttiva, non dovrebbero essere fatti soprattutto per questo?
Il parto. Ma perché deve essere doloroso, se è l’unico modo per riprodursi? A parte le pippe che sappiamo su Eva, la mela e quelle cose lì. Mentre ero in sala parto, e mi godevo la mia epidurale (oddio, godere è parola grossa, visto che ho passato due ore a non spingere, visto che Irene era in pole position ma i miei tessuti un po’ meno…), avevo questa visione: preistoria, ominide nel bel mezzo della savana intento a partorire. Dodici ore di mugolii e sofferenze più o meno accentuate. E quando sei là là…zacchete! Arriva la tigre dai denti a sciabola e ti si magna, che tanto, con le contrazioni in corso, mica puoi scappare. Questo per dire: ma che funzione evolutiva ha il dolore del parto? Ma non dovrebbe diventare sempre meno forte con l’andare delle generazioni, onde incrementare il numero di pupi pro-capite?
L’allattamento. Ecco, mi piace. È una bella sensazione. L’idea che puoi dare al tuo pargoletto tutto quel di cui ha bisogno, guardare le faccette che fa mentre poppa (e ne fa una marea) e goderti la fase lisergica post-prandiale, in cui sembra un tossico all’ultimo stadio (Irene una volta s’è guardata le mani come se le vedesse per la prima volta per mezz’ora buona, secondo me le vedeva tutte colorate con contorno di fiori e musica psichedelica). Ma non è una cosa che ti riesce proprio al primo tentativo. E prima il latte non scende. Poi scende, e ringrazi il cielo. Ma devi attaccare le pupa, che, affamata, vaga con la capoccia un po’ ovunque, iniziando a ciucciare tutto quello che capita a tiro, dalle mani alla vestaglia della mamma, mancando ovviamente sempre il capezzolo. Poi, sbaglierò qualcosa io nella tecnica, ma quando il pupo s’attacca un po’ fa male. Del resto, immaginate questa specie di idrovora affamata che vi ficca un capezzolo praticamente sottovuoto; mi riesce difficile pensare che non possa far male sempre almeno un pochino. Ecco, anche questo, perché? Una tetta è fatta per quello d’altronde (sì, ok, anche per altro, ma quell’altro è comunque finalizzato a questo, biblicamente parlando).
Non so. Sarà che noi uomini civilizzati abbiamo perso il contatto con la natura. Sarà che magari ‘sta natura è un po’ più stronza di quel che crediamo noi. Ma di sicuro ci frega ogni volta che il pargolo ride, o fa le smorfie, o anche solo dorme. E uno si dice che, capperi, ne vale veramente sempre la pena.

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Due fisici e una bilancia

Tra i corsi che io e Giuliano abbiamo seguito all’università c’erano quelli di sperimentazione, per gli amici fisichetta 1, 2 e 3. Si facevano esperimenti in laboratorio, si trafficava con strumenti tipo pendoli, plotter, prismi. E bilance. Di episodi al limite del paradossale ce ne sono stati parecchi, in quel periodo. Per altro, io e Giuliano eravamo in gruppo insieme: io perché lui mi piaceva, ergo…lui, se non erro, perché ci stava in effetti facendo il pensierino e anche perché gli sembravo una tipa precisa, buona come il pane al momento di dover fare l’immancabile relazione scritta. Una volta, per dire, mi sono posta il dubbio se certe temperature che avevamo preso, dell’ordine dei 37°, fossero espresse in centigradi oppure in Kelvin (e vi dico solo che 37 gradi Kelvin sono parecchi gradi sottozero, impossibili da raggiungere con un thermos di acqua calda :P ). Per dire che, in effetti, nonostante io sia un fisico sperimentale, non è che dimostri sempre uno stratosferico acume quando pasticcio con le mani, e, soprattutto, non è che vada granché d’accordo con le unità di misura.
Ora. Quando si allatta un neonato, in genere la procedura è questa: lo si pesa prima, lo si allatta, lo si pesa dopo e si vede quanto latte ha preso facendo la differenza. Il neonatologo, quando c’ha dato il libretto di istruzioni della pupa (giuro, sembrava veramente il libretto di istruzioni: medicare il cordone tot volte al giorno, allattare tot, per tot tempo, con tot quantità, grazie per aver scelto neonata 2.0) ci ha indicato dei quantitativi di pappa che Irene deve assumere ogni giorno per mettere su ciccia: 60 gr a poppata. Inutile dire che appena arrivi a casa, questi 60 gr a poppata diventano il tuo incubo: li sta prendendo? E se non li sta prendendo? Integro col latte artificiale? Ma se poi non piglia più il mio?
Comunque, si compra la bilancia, la si pesa. 3.08. Kg, suppongo. Ok. Via. Si allatta. Con un po’ di fatica, per via del diabete all’ospedale ha preso il biberon, che è mooooolto più facile da mungere della tetta, per cui il neonato tende poi a fare il furbo e a rifiutare il seno se può. Comunque, come dio vuole Irene si nutre tra un capriccetto e l’altro. La si pesa. 3.14.
Giuliano: “Cazzo, ma solo 6 gr??”
Io: “Cioè, mezz’ora di dolore per 6 gr di latte??”.
Ed è così per le successive sei o sette pesate. 3.10, 3.12, 3.16 e via così. E noi a disperarci. E questa bilancia non mi convince, e forse dobbiamo integrare col dannato latte artificiale, oddio già faccio schifo come madre, dannate tette del cavolo.
Immagino che abbiate già notato il palese errore che i nostri due baldi fisici hanno commesso. I due baldi fisici invece ci vanno avanti per un giorno intero, disperandosi. Poi, ieri sera, ore 23.00.
Giuliano: “Ma…”
Io: “Eh?”
Giuliano: “No, riflettevo…la bilancia dice 3.10, cioé 3 kg e 100 grammi. Prima era 3.08, cioè 3 kg e 80 grammi…”
Io: “…”
Giuliano: “…”
Io: “Vabbeh. È ufficiale che siamo due deficienti”.
Giuliano: “Assolutamente”
Per la premiata serie: venti anni di educazione scolastica buttati nel cesso.

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Dicono di lei

Awilito
Fab 1 e 2
Ninna
Valberici
Paolo Barbieri
Bebeblog

Grazie a tutti di cuore per gli auguri, il supporto e l’affetto. Finalmente siamo fuori dall’ospedale, per la prima sera tutti assieme sotto il presepe fatto dal papà e l’albero fatto dalla mamma.

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Post breve e irrefrenabila

Irene ora ha esattamente 11 ore e 28 minuti. Ha gli occhi grandi grandi, una vocina sottile sottile, un sacco di capelli e quando piange le trema il labbro inferiore proprio come me.
Non so se vi racconterò il parto: appartengo al novero di donne che ne uscita abbastanza stravolta. E non perchè debba essere necessariamente una brutta esperienza, ma perchè, nonostante un’equipe di medici e ostetriche davvero straordinaria e l’epidurale, per mezz’ora ho provato roba che non augurerei al mio peggior nemico :P .
Ma del resto dio l’ha detto, partorirai con dolore, poi l’uomo per fortuna s’è inventato la santa analgesia, sempre sia benedetta :P
E insomma così, solo per darvi la lieta novella. Ora vo ad allattare, sperando che Irene inizia a capire come funge una tetta :P

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Mammità secondo Licia

Sono giorni un pochino intensi, e poi, come avete visto, non è che sia presentissima qua sopra. Per questa ragione, vi comunico con un pochino di anticipo un paio di cose. In questi giorni, ho rilasciato un’intervista per Bebeblog, un blog su mammità e dintorni che ho frequentato molto in questi nove mesi. Mi ha fatto molto piacere rilasciare un’intervista che per una volta non girasse solo intorno alla mia attività di scrittrice, ma anche ad altri aspetti della mia vita. È che più passa il tempo, più mi rendo conto che la condivisione è la chiave della vita: ci aiuta ad andare avanti, ci permette di sconfiggere la paura.
L’intervista sarà in tre parti, e la prima dovreste trovarla online oggi, le altre due domani e dopodomani. Vi dico dovreste perché questo è un post in differita, lo sto scrivendo di domenica :P . Poi fatemi sapere che ne pensate.
Il sito, ve lo ripeto, è bebeblog.it.

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Cose di Casa

Occorre educarli fin da piccoli

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Il lampadario nuovo della stanza di Irene

Presepe edizione 2009

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Visto l’altezza proibitiva per le gnappette gravide come me, quest’anno è tutta opera di Giuliano

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Affettando

Giuliano: “Adesso ho capito perché la natura ha previsto che quando una partorisce non possa vedere che succede là sotto”

Finora dentro casa sono sempre stata fortunata: in tre anni di matrimonio sono riuscita a non farmi saltare falangi e falangette cucinando, nonostante la mia goffaggine sono sempre riuscita ad evitare cadute troppo rovinose e via così. Ma lo stress, di recente, sta salendo oltre i livelli di guardia, e così finisce che una si distrae.
Incazzata con l’AMA, che a quanto pare mi mette i bastoni fra le ruote per pagare la tassa sui rifiuti, preoccupata dal picco di glicemia che ho avuto ieri a pranzo, e infine incasinata tra sugo, funghi in padella, pasta che scuoce e sedano rapa ancora da tagliare, ho fatto la cazzata: mentre affettavo il suddetto sedano, ho pensato bene di affettarmi anche un dito. Non con la classica mannaia da verdura (per fortuna), no: col coltello a seghetto. Avevo la mano mezza congelata dall’acqua fredda, per cui non ho sentito pressoché nulla. Ma ho visto un lieto pezzo di pelle spenzolare dal mio dito.
Intendiamoci, niente di catastrofico: mi sono fatta la sfumatura bassa all’indice, ho staccato sostanzialmente solo pelle. Ma ho cominciato immediatamente ad urlare come un’ossessa, stile crisi di panico.
Giuliano è corso dall’altro lato di casa, dove era impegnato a fare il presepe, suppongo immaginandomi in preda a doglie da record, o con la ragazzina già partorita. E m’ha trovata col dito insanguinato che urlavo come se mi fossi staccata una falange.
Ero terrorizzata. Riuscivo solo a pensare al pezzetto di pelle penzoloni, con corredo di corsa all’ospedale, punti e altre pratiche barbariche di qualche genere. Ho fatto rosso il lavandino, questo va detto, ma del resto quando ti tagli le dita è così, il sangue esce a fiumi, e ho fatto anche le cinque dita di sangue sulla maglia, ma la situazione è rientrata abbastanza rapidamente. Solo che io non mi calmavo. Veramente, è stata una cosa ridicola. Sembrava che chissà cosa fosse successo.
Adesso non mi fa neppure poi tanto male. Ma mi sento male io al pensiero di dover vedere il taglio. Anche se sia Giuliano che mi madre si sono sperticati a dirmi che è un taglietto, non è niente. Niente. Se ci ripenso mi vien la nausea.
Al che Giuliano a commentato come da apertura, e io ho capito che mi sa che faccio veramente bene a farmi fare l’epidurale per partorire :P

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