Visto che Irene dorme beata (più o meno), ne approfitto per aderire all’invito di G.L. e Eleas circa i consigli di lettura. Che poi, ho sempre dato consigli di lettura, qua sopra, live durante le presentazioni, agli amici…Insomma, niente di nuovo sotto il sole. Per altro, per chi non ha idee su cosa leggere, trovate un florilegio abbastanza eterogeneo nella mia biblioteca di Anobii; credo ce ne sia per tutti i gusti, sono certa che spulciando troverete qualcosa che vi piacerà.
Detto questo, io parto col botto. Nel senso che vi parlo direttamente di uno dei libri che più ho amato in vita mia. L’ho rubato alla libreria dei miei (è l’unico con cui l’ho fatto, fatta eccezione per il mitico Il Nome della Rosa che ho fregato al mio babbo, essendo incapace di leggerlo in un’edizione diversa da quella che tenni in mano per la prima volta, in vacanza con gli zii, a sedici anni o giù di lì), ogni tanto lo prendo in mano e lo rileggo, un paio di mesi fa ne ho tratto una citazione che usai per una mail piuttosto triste. Per dire che è un libro che parla, non smette mai di farlo, stimola un mare di domande e, meraviglia delle meraviglie, appassiona anche. Trattasi de I Fratelli Karamazov.
Lo so che può sembrare impossibile, assurdo e anche pretestuoso, ma è un libro che ha segnato il mio modo di scrivere. Aster è stato concepito, ancora informe grumetto di cellule, un pomeriggio di tanti anni fa, a teatro, dove andai con la scuola a vedere una riduzione di Ronconi del suddetto libro. Non amo molto le regie di Ronconi, soprattutto quando si cimenta con le riduzioni dei libri. Ricordo un Quer Pasticciaccio Brutto de Via Merulana che era indigeribile, trattandosi di mera lettura del testo sul palco. I Fratelli Karamazov da questo punto vista era più riuscito, e lo seguivo con maggior interesse, ma dire che mi stesse davvero piacendo è un po’ eccessivo. Ma a un certo punto, apparve lui: su una specie di ring, vestito di nero, imponente e severo. Davanti a lui, un Cristo vestito di bianco. Era il Grande Inquisitore, e qualcosa in me cambiò.
Se uno si attiene alla mera trama, I Fratelli Karamazov è una specie di romanzo d’appendice. Tutto gira intorno all’omicidio di Fëdor, uomo dissoluto e detestabile, padre dei fratelli da cui il titolo: Dmitrij, il maggiore, accusato dell’omicidio, poiché rivale in amore di Fëdor (entrambi sono infatti invaghiti della stessa donna), Ivan, animo tormentato, e il candido Alëša, che s’è ritirato in convento e ha uno sguardo puro sull’umanità e le sue vicende. L’azione non manca, ci sono capovolgimenti e colpi di scena. Insomma, è un libro in cui la trama conta. Un libro di intrattenimento? Io direi di sì, visto che la storia è appassionante. Ma, come in tutti i capolavori che si rispettino, la trama è anche uno (splendido) pretesto per mettere in scena una vera e propria tragedia. La famiglia Karamazov sembra in qualche modo afflitta da un male dell’anima: tranne Alëša, tutti sembrano tentati dalla perversione e dalla corruzione, una corrente sotterranea di malvagità scorre nel sangue di famiglia. Figli che si rivoltano contro i padri, padri dissoluti, amori ossessivi e distorti. I personaggi sembrano canne al vento, in balia di emozioni alle quali non riescono a resistere, scossi fin nel midollo da passioni soverchianti. C’è epos, molto, in questa tragedia di famiglia. I personaggi sono archetipici, figure per certi versi esagerate, che mi ricordano quelli del mito, della tragedia, appunto. Ognuno può rivedersi in ciascuno di essi, nella loro sete insaziabile di una verità che forse non esiste, nel loro brancolare alla ricerca di un senso, perdendosi in abissi oscuri, cercando una ribellione (Ribellione si chiama proprio uno dei capitoli più belli del libro) per certi versi senza costrutto, che li lascia più insoddisfatti di prima. Vi ripeto, è epica, come quella dell’Iliade, è tragedia, come quella di Sofocle.
E poi, ci sono questi due brani, che sono tra le cose più belle che abbia mai letto. Ventura vuole che uno sia il preferito di Giuliano, l’altro mio.
Tutto comincia da una discussione tra Alëša e Ivan. Quest’ultimo, presenta ad Alëša il problema esistenziale che lo assilla: egli riesce a darsi una spiegazione del dolore del mondo, e a conciliarlo con l’esistenza di un Dio buono e giusto, ma non riesce a darsi ragione del dolore dei bambini. Perché Dio permette agli innocenti di soffrire, e di soffrire terribilmente? Ivan arriva al punto di affermare che un mondo in cui la pace eterna debba essere pagata con la sofferenza anche di un solo bambino è un mondo nel quale non vale la pena vivere. È questa la Ribellione di cui dicevo prima.
Questo brano fa un po’ l’effetto di certi interludi nelle canzoni dei Muse, che dio mi perdoni il paragone
. Arrivano inaspettati, e ti sembra non abbiano alcun legame col resto della canzone. E invece ce ne hanno, e molto. Così questa parte del libro. Apparentemente, un interludio staccato dal resto, una lunga pausa filosofica di cui non si capisce bene il senso. Eppure è la vetta del libro, il suo sunto programmatico, il disvelamento del suo senso, addirittura di molto del senso della poetica di Dostoevskij tout court.
Subito dopo questa parte, arriva il Grande Inquisitore. Ivan espone a Alëša la sua idea per un poemetto ambientato in Spagna ai tempi dell’Inquisizione. Ivan immagina che Cristo ritorni sulla terra, cammini di nuovo in mezzo al suo popolo per lenirne la sofferenza, e vanga riconosciuto dagli umili, dai malati, dai sofferenti. Ma il Grande Inquisitore lo fa imprigionare e condannare a morte. Prima dell’esecuzione della condanna, c’è un incontro tra i due: il Grande Inquisitore spiega a Cristo la sua visione della fede e dell’uomo, spiegandogli perché il suo ritorno non solo non è benedetto, ma è solo portatore di confusione e dolore. Cristo tace per tutto il tempo. La visione del Grande Inquisitore è spietata: l’uomo non vuole essere libero, ma bensì desidera che qualcuno lo sollevi dal peso insopportabile della scelta. Per questo si piega alla gerarchia della chiesa, cercando qualcuno che gli dica cosa pensare, cosa fare. Cristo ha dato agli uomini la scelta, e li ha gravati del peso del libero arbitrio, procurando loro solo sofferenza. La Chiesa ha dato di nuovo loro la pace, rendendoli schiavi di un unico pensiero.
Ma il Grande Inquisitore va oltre. Vede se stesso come un martire: in un mondo in cui nessuno vuole libertà di pensiero, per forza di cose debbono esistere uomini “superiori” che prendano su di loro il peso della scelta, e guidino il popolo a prezzo di grandi sofferenze. Il Grande Inquisitore compie il male per il bene del popolo, il Grande Inquisitore si danna per il bene dell’umanità, in mezzo a una genia di uomini che hanno scelto una schiavitù beata, è uno dei pochi che debba sopportare il peso della consapevolezza, l’insostenibile responsabilità di scegliere, per sé e per gli altri. E per questo deve uccidere il Cristo.
Una figura grandiosa, estremamente attuale, che pone problemi di non facile soluzione. Perché tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo sentito il bisogno di abdicare alla nostra facoltà di scegliere, abbiamo sentito la suprema tentazione di un fanatismo che non lasci libertà alcuna, ma ponga la nostra vita su binari prestabiliti, rassicuranti. Il Grande Inquisitore mi ossessiona da quando ne ho letto, e rivedo il suo fantasma spesso, in trasparenza alla realtà che mi circonda. E quest’idea suprema e tremenda di qualcuno che compie azioni terribili convinto di star compiendo il bene (“È inimmaginabile per chiunque la quantità di Male che bisogna accettare per ottenere il Bene” dirà Andreotti ne Il Divo di Sorrentino) mi gira nella testa da sempre, appare larvata in molte mie creature, senza che riesca a darle una compiutezza che mi soddisfi (come è giusto che sia, sono una giovane Padawan).
Insomma, un libro in cui c’è tutto: la riflessione, l’intreccio, l’approfondimento psicologico. Un libro appassionante e bellissimo. Spero di avervi incuriositi almeno un po’. Non vuole essere una recensione, non vuole essere una critica: giusto uno spunto, un consiglio da lettrice a lettori.