Archivi del mese: gennaio 2010

Avatar

Mission con la gnocca.
Pocahontas coi puffi.
Balla coi Lupi intergalattico.
Diciamo che l’originalità della trama non è esattamente il punto di forza di Avatar. Per questa ragione non condividevo il generale entusiasmo per il film, e in partenza non sentivo tutto questo bisogno di andarlo a vedere. Poi me ne hanno lodato le meraviglie del 3D, e ho pensato che visto che andare a cinema è problematico di questi tempi, tanto valeva andarsi a vedere un film per il quale il grande schermo era indispensabile. E così ieri sono andata a vederlo.
Dicevamo, la trama. Che non è originale. Ma al mondo esistono sostanzialmente due categorie di narratori: i costruttori di personaggi, e i costruttori di mondi. È evidente che in questo film Cameron è un costruttore di mondi. Avatar è Pandora, lo stupefacente mondo alieno in cui il tutto è ambientato. La trama, i personaggi e tutto il resto sono un pretesto per immergerci nei deliri lisergici di Pandora, che in certi momenti sembra veramente il sogno di uno che s’è fatto di LSD. È un difetto questo? Assolutamente no. È solo uno dei modi in cui si può divertire il pubblico. E il pubblico si diverte. Immensamente.
Ci vuole qualche minuto per riuscire ad apprezzare completamente il 3D, che è stupefacente. L’effetto piani di cartone che si sovrappongono, tipico del 3D che fin qui avevo visto a cinema, è quasi del tutto assente. I volti hanno volume, sono davvero tridimensionali. Qualche problema di verosimiglianza c’è ancora con gli oggetti in secondo piano, ma complessivamente il 3D di Avatar è davvero un’esperienza immersiva. Finora, tutti i film 3D che avevo visto utilizzavano questo espediente tecnico come un quid tutto sommato non indispensabile: sì, era una cosa carina, ma che non aggiungeva sostanzialmente niente al 2D. Avatar in 2D è invece un film diverso. Avatar 2D probabilmente non ha molto senso vederlo. È necessaria la profondità di campo per lasciarsi davvero catturare dal film, che è prima di tutto un’esperienza sensoriale, una goduria per gli occhi. È il primo film che basa la sospensione dell’incredulità non sulla potenza della storia o sulla verosimiglianza dei personaggi, ma solo sulla potenza visiva, e sulla sua capacità di coinvolgerti con il 3D. Per dire, la prima volta che ho visto il fumo della sigaretta di Sigourney Waver alzarsi, istintivamente mi sono chiesta chi fosse il pazzo che stava fumando in sala. Ed è tutto così. Ti dimentichi di stare a cinema, e ti senti su Pandora.
L’immedesimazione, il coinvolgimento derivano entrambi dallo splendore delle immagini. Così ci si commuove con Jack la prima volta che immerge i piedi nudi nella terra di Pandora, ci si esalta con Neytiri quando vola sull’ikran (a proposito, voglio l’action figure del turuk, troppo figo), ci si sente in pace col mondo sotto l’albero delle anime.
Inutile star qui a dirsi “eh, ma è tutta apparenza, la sostanza non c’è, il cinema è altro”. Sì, il cinema è anche altro, ma è pure sense of wonder, e il film ne è pieno. Avatar è la summa di una concezione che vede nel cinema qualcosa che deve lasciarci a bocca aperta, che deve farci esperire l’inimmaginabile. Perché, d’altronde, quale altro mezzo può portarti con tanta verosimiglianza in un mondo che non esiste? Avatar è uno splendido giocattolo per grandi e piccini, qualcosa che ti trasporta in un altro universo per due ore e mezza. Poco? Per niente. Saper intrattenere ai livelli in cui lo fa Cameron è pura arte. Perché, diciamoci la verità, è un genio uno che prende la storia più frusta del mondo e con quattro personaggi in croce, tagliati con l’accetta, riesce ad appassionarti per due ore e mezza, dico due ore e mezza, senza momenti di stanca, e facendoti pure sopportare le fatiche che il 3D impone per forza di cose ai tuoi occhi. Tutte le grandi opere raccontano storie banali, ma da punti di vista inediti, in modo tale che si scopra qualcosa di nuovo, e che tutti ci si senta parte della narrazione, ci si ritrovi qualcosa di proprio.
Che poi, a dirla tutta, io pensavo peggio a livello di trama. A rifletterci è una storia davvero esile, ma Cameron la racconta con piglio deciso e grande onestà, per altro strizzando l’occhio al cinefilo che è in noi (Tsu’tey è paro paro Vento dei Capelli di Balla coi Lupi, per dire), e riesce a dare solidità e allo script e alla narrazione. Cameron sa che sta raccontando una cosa semplice, Cameron non ce la spaccia per una grande tragedia. Io penso che la consapevolezza di ciò che si sta facendo, la padronanza assoluta dei mezzi con cui si racconta una storia, faccia la differenza tra la cazzata e il capolavoro.
Certo, tutto un po’ schematico. La vera pecca credo stia nella eccessiva forzatura di certi riferimenti alla contemporaneità (Jake che dice “è così che si fa per prendersi qualcosa, si trasforma chi ce l’ha in un nemico” o giù di lì, o il cattivone che arringa i suoi prima della battaglia dicendo “risponderemo al terrore col terrore”): voglio dire, è fin troppo chiaro che ci stai mandando un messaggio antimperialista, è evidente che in trasparenza c’è l’Iraq, c’era davvero bisogno di spiattellarcelo in faccia? Ma sono due battute su 166 minuti, ci vuole pure un po’ di malizia per trovarlo fastidioso.
Per il resto, una sola cosa m’ha dato fastidio: la foresta ignifuga a intermittenza. Non è possibile che Jake nella scena notturna sventoli qua e là un fiaccolone clamoroso senza dar fuoco manco a mezzo albero, visto per altro che la foresta brucia eccome (e infatti l’albero casa piglia fuoco come uno zolfanello, parecchie scene più in là). È una stronzata, ma purtroppo il diavolo si nasconde nei dettagli.
Ora mi domando che senso avrà far uscire il DVD, a meno di dotarmi di proiettore 3D a casa, più occhialetti per la visione. È un film da cinema, stop. Fuori dalla sala perde il 90% del suo fascino.
Anyway, come avrete capito il film mi ha incantata. Pollici entrambi gioiosamente in su per il film dell’anno. Ha ragione chi diceva che è un po’ il Star Wars della nostra generazione: non ci credevo, ma Cameron ha per davvero tracciato una linea ante e post Avatar per il cinema moderno.

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Non posso esimermi

Ieri c’è stato il mio primo evento Apple. Cioè, ce ne sono stati altri, ma ieri è stata la prima volta che ho seguito la diretta. È che il tablet mi interessava, pensavo potesse tornarmi utile. Ok, in futuro viaggerò meno di quanto ho fatto in passato, ma mi capiterà ancora di scrivere in treno e in aereo, e mi piace stare sul divano a navigare. Una cosa ultraportatile mi stimolava.
Vabbeh, bando alla ciance, via con la recensione.
Il nome è orrendo. Giuliano fa notare che iPad fa tanto iPod tarocco made in China, Zucconi ci ricorda che pad sono gli assorbenti femminili.
L’aspetto è abbastanza così. È un iPhonone di dimensioni colossali. A prima vista pare una mega cornice per foto, di quelle elettroniche che abbiamo usato in ospedale per fare vedere Irene ai parenti che non ce l’avevano fatta ad arrivare in orario apertura nido.
Ma poi arriva la botta. 10 ore di batteria. Ora. Magari non saranno proprio dieci. Magari saranno 8, 7, tié. Ma 7 ore fanno un Roma Torino senza alta velocità. È un sacco.
Io posseggo un Air, lo sapete. E mi piace. Tutto bello sottile, tutto d’alluminio (non saprei più rinunciare all’alluminio, una volta che lo provi diventi dipendente), lo porto ovunque, non pesa. Ma ha due problemi: è un po’ lento e la batteria dura poco. Quello della batteria è un grosso handicap. Ed ecco qua che arriva l’iPad, con una durata ottimale della batteria e che sembra pure accessoriato con un processore molto reattivo, almeno a stare a certi filmati che girano.
E quindi, niente, mi sono innamorata. Già mi ci vedo, sul mio bel trenino, che ci scrivo su. Già mi ci vedo, sull’aereo per il congresso, che metto a punto la presentazione per il mio intervento. Già mi ci vedo, spaparacchiata sul divano, che ci navigo. Lo voglio.
Probabilmente ormai sono semplicemente una fangirl Apple. Oppure Steve Jobbs è davvero il più grande venditore di tappeti della storia del marketing. Ma io ‘sto iPad non vedo l’ora di vederlo in vendita all’Apple Store sotto casa mia.

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Uomini e no

Sessantacinque anni fa, il mondo veniva a sapere fin dove l’uomo può spingersi, in quali abissi di orrore può immergersi non solo senza impazzire, ma anche provandoci un certo gusto. Sessantacinque anni fa, il mondo scopriva Auschwitz.
Oggi è la Giornata della Memoria. Al riguardo, una riflessione. Perché ricordare. Per mantenersi vigili. Perché è vero che, come ho già avuto modo di dire qualche anno fa, l’Olocausto ha una sua unicità tra tutte le tragedia di cui è intessuta la storia dell’uomo. Ma questo non significa che quel che scatenò la Shoà non possa ripetersi. Quando si disumanizza qualcuno, quando si decide che ci siamo noi e gli altri, e questi altri sono subumani, sono bestie, ecco che tutto diventa possibile. Perché questa credo sia la lezione di Auschwitz: quando smetto di guardare il volto dell’altro, quando mi rifiuto di riconoscermi nel suo sguardo, può accadere di tutto. E purtroppo la tentazione di dividere l’umanità in uomini e untermenschen è ancora viva, vivissima. Ecco allora che il ricordo può germogliare, dare frutti. Io credo sia questo il senso di questa grigia giornata d’inverno. Del resto, neppure un mese fa Adriano Sofri ha potuto adattare senza troppi problemi la nota poesia di Primo Levi al caso di Rosarno. Ecco, riflettiamoci un attimo.

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L’attimo

Finiti i canali televisivi “normali”, che in genere fanno roba orrenda 24/7, adesso mentre allatto mi rifugio nella programmazione dei canali “insoliti”. Ieri ho scoperto Cielo. Verso le 16.00 fanno questa specie di docu-fiction che si chiama Reparto Maternità. In pratica le telecamere riprendono la vita del reparto ostetricia e ginecologia del Forlanini di Roma. Principalmente, si vedono parti.
Ora. Probabilmente dovrei aborrire una cosa del genere. Perché dare in pasto al pubblico una cosa così privata e intima come un parto? E non è solo una questione di carnazza esposta. È questione di dolore. Il dolore è una cosa privata. Che io non sarei mai in grado di mostrare a qualcuno che non conosca più che bene. E ho problemi anche con quelli che conosco a fondo. Per dire, per questioni di logistica, durante una buona parte del mio pretravaglio la mia stanza era piena di parenti e amici. E per certi versi avrei preferito essere da sola. Perché il dolore denuda come poche cose al mondo, e ci svela a noi stessi e agli altri per quello che siamo. E le persone cui posso mostrarmi così si contano su alcune dita di una sola mano. Per cui, forse, dovrei cambiare canale e borbottare contro la tv del dolore, la pornografia che intasa le nostre vite, e via così.
E invece no. Invece resto ipnotizzata da quei pancioni, da quelle donne doloranti, da tutto il corteo di mariti, ostetriche, medici e via dicendo che ora anch’io conosco. E quando il pupo infine viene fuori, mi commuovo. Sempre.
Forse non ho ancora metabolizzato del tutto il parto. Continuo ad avere nostalgia persino di quel dolore. Nella mia testa rimando avanti e indietro il filmino dei nove mesi e delle ultime ventiquattro ore della mia gravidanza. E non è che fare la mamma non mi piaccia. Mi piace nonostante le ore di sonno perse, i pianti inconsolabili della bimba e le montagne di panni da lavare. Ma forse, per dirla come gli psicologi, un parto è anche un po’ un lutto. E io non c’ho fatto i conti. Con la separazione dalla bimba, con la fine di quell’unità perfetta, con la straordinarietà di quelle ultime, convulse ore che non riuscirai mai a ricordare per bene, e che per questo vorresti rivivere, anche se fanno male, anche se fanno paura, anche se sai che dirai che mai più, no, mai più una cosa così. Solo per poter rivivere l’attimo perfetto dell’incontro, in cui i tuoi occhi incontrano quelli di quell’essere che conosci così bene, e che allo stesso tempo non conosci affatto. Per vedere la finalizzazione di ogni sofferenza, di ogni sacrificio, di ogni stilla di sudore e ogni grido. Forse il senso di alcune vite, di tante vite, sta in quell’istante in cui lei o lui viene al mondo, e tu capisci te stessa, l’universo e la vita. Per un secondo appena.
È per questo che alle quattro di questi pomeriggi sospesi, tutti a ruotare attorno alla culla, accendo la tv e mi concedo l’ombra di quell’istante, commuovendomi ogni volta.

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Funziona quasi tutto

Sì. In questi ultimi giorni il sito ha avuto problemi. È partito tutto da un link nei commenti (nella parte OT dei commenti, per altro…) che indirizzava ad un sito con su un malware di qualche genere. Ma quello è stato solo l’inizio.
Ora, io confesso di saper a malapena usare due codici html in croce, e di cavarmela su questo sito solo grazie a WordPress, per cui non so dirvi esattamente cosa è successo. So solo che è stato un casino. Risolto, as usual, da Lauryn, sempre sia lodata.
Come avete modo di vedere, non funge tutto. Il link al blog non funge, ad esempio. La cosa dovrebbe risolversi a breve. È stata dura, ma pare che ne stiamo uscendo. D’ora in avanti cercherò di stare più attenta, per quanto possibile.
Per il resto, uno passa quattro giorni a dirsi che se non avesse il blog down, ah, quante cose scriverebbe! Poi il blog torna su, e non ha niente da dire. Se non che il blog è di nuovo su, ovvio.
Vi lascio. Irene dorme il sonno dei giusti (leggi: l’abbiocco postprandiale), e io ne approfitto per fare una telefonata e leggere un po’. Fino alla prossima poppata, obviously.
Au revoir.

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Nuove frontiere della fisica

Il carillon delle apine come nuova unità di misura del tempo durante il puerperio umano
L. Troisi et al.

Abstract: Dopo lo straordinario studio sull’accuratezza delle previsioni della nonna sul sesso del nascituro, mi propongo di presentare una nuova ricerca che farà furore ai Premi Ignobel. Si tratta dell’introduzione di una nuova unità di misura che ritengo possa essere molto utile per le puerpere e le neomamme in generale. La nuova unità, usata per la misura del tempo, è stata da me battezzata unità apine. Misura il tempo che la mamma può trascorrere lontana dalla culla dell’infante senza che il medesimo scoppi in pianto disperato.

Definizione: un’unità apina è il tempo che ci mette il classico carillon con le apine che girano, quello col quale siamo state allevate noi tutte mamme di questa generazione (e pure i papà) a fare un giro completo e a fermarsi.

Analisi dati: è universalmente riconosciuto il potere ipnotico delle apine. Indipendentemente dall’età dell’infante, quest’ultimo rimarrà catturato dalla micidiale e infallibile azione combinata della musichetta ossessiva del carillon e del moto delle apine. Le apine garantiscono minuti di quiete totale, durante i quali la puerpera potrà dedicarsi alle più svariate attività. Ovviamente, al fermarsi del carillon, l’infante prenderà a lamentarsi veementemente, e perché l’azione ipnotica cessa ex abrupto, e perché le apine tendono ad indurre assuefazione. L’infante vorrà dunque ripetere l’esperienza ipnotica, e piangerà per richiamare la madre alla riattivazione del congegno. In questo modo, la madre avrà un certo lasso di tempo libero, corrispondente alla durata del carillon. Ad esempio, la sottoscritta ha personalmente testato che una doccia con lavaggio dei capelli equivale a due unità apine. Una sessione su internet equivale almeno a cinque o sei unità apine.

Discussione dati: le apine hanno i loro limiti. Innanzitutto, il fatto che vadano continuamente ricaricate. Certo, il progresso tecnologico ci viene in soccorso, grazie ai nuovi carillon motorizzati, che non hanno bisogno di ricarica. La sottoscritta ha però personalmente verificato che il potere ipnotico delle apine è superiore a quello di altri carillon, che risultano dunque indubbiamente più comodi, ma meno efficaci.
Inoltre, la durata dell’effetto ipnotico è limitata. Nel giro di una mezzora circa, l’infante si scoccia di guardare le apine, si distrae e inizia a piangere.
Inoltre, l’apina non può essere usata in eterno. P. et al. hanno dimostrato che quando l’infante possiede la giusta coordinazione motoria inizia a dare la caccia alle apine, e a prenderle con la mano, interrompendo il moto del carillon. Questo momento segna la fine della fase apine, e dunque l’unità di misura potrà essere usata solo per i primi mesi di vita dell’infante.

Ringraziamenti: si ringrazia Irene che ha fattivamente collaborato alla realizzazione di questo studio, e Giuliano che ha montato personalmente le apine usate per questo lavoro.

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Libera uscita – Quella notte alla Diaz

Ieri sono andata a cinema. Ho fatto un conto. Non ci andavo da qualcosa come tre mesi. Ultimo film visto, District 9 (consigliato). Ne avevo bisogno. Gli ultimi tre mesi di gravidanza li ho fatti praticamente da reclusa, e da quando c’è Irene al massimo vado a passeggiare al parco, a fare la spesa, o in giro per medici. E invece, un po’ d’aria ci vuole. Yep, anche per fare bene la mamma.
Ma per andare a cinema ho dovuto affrontare una dura prova: la separazione dalla prole appena sfornata. Ok, Irene stava coi miei. Ok, si trattava solo di tre ore. Ma vuoi mettere i sensi di colpa?
Oddio, la sto abbandonando per – udite udite – fare non una cosa necessaria, ma una cosa semplicemente dilettevole!!!
E poi l’ho fatta pure poppare prima per andare – udite udite – a divertirmi!!!
E se piange tutta la sera?
E se c’ha fame?
Sono uscita sentendomi un po’ una madre snaturata. Poi, vabbeh, mi sono divertita. Ma uno resta mamma dentro, per cui ogni volta che il volume a cinema si alzava mi veniva spontaneo pensare “E se darà fastidio a Irene?”, benché Irene non fosse presente, né nella panza né accanto a me. Potenza del rincoglionimento da puerpera.
Comunque.
Tornata a casa sapete qual è stato il risultato? Usciti noi, Irene s’è addormentata nel giro di mezzora, e ha dormito di filato fino alle 3.00. No capricci, no fame, no pianti. I nostri figli sono sempre meglio di noi.

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Ieri vi ho parlato di due mie letture, promettendovi aggiornamenti a breve. Ecco quelli per la graphic novel.
Il libro è questo. Già, si parla del G8 di Genova. E se parla ancora a distanza di nove anni dal fatto perché il silenzio, l’assenza di indignazione che ha accompagnato quel fatto gravissimo è qualcosa che non si può tollerare.
Christian era alla Diaz quella notte. Insieme a tanti altri ragazzi pensava di essere al sicuro, si stava preparando per la notte, pensava di trovarsi in uno stato di diritto, dove certe cose non succedono. E invece suo malgrado si è ritrovato in mezzo ad una “macelleria messicana”, come è stata definita da uno dei protagonisti della storia. Il suo fumetto racconta questo: la storia di un ragazzo normale che si ritrova catapultato in una storia assurda, e ne esce con sei giorni di prognosi e nella testa immagini e sensazioni che non potrà mai dimenticare. Ma Christian ha dalla sua la capacità di raccontare, e il disegno. Due doni che mette al servizio della sua storia assurda, e di tutti quelli che hanno subito il suo stesso trattamento. E crea un’opera incisiva, secca, e terribile. Un’opera necessaria ad un paese che non sa più indignarsi, che ha spostato sempre più in là la soglia della tolleranza del sopruso.
“Quella notte alla Diaz” è un bel fumetto, ed è un fumetto terribile: è bello per la sua potenza, per la sua capacità di coinvolgere e far sentire sulla nostra pelle quel che accadde quella notte, ed è terribile per gli abissi che racconta, per gli orrori che evoca, orrori che non immaginavamo potessero appartenerci.
Uscirà a febbraio. Consigliatissimo.

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Nel frattempo…

Oggi giornata intensa. Oppure semplicemente non mi ero preparata nulla da dire. Scegliete un po’ voi.
Per cui.
Sto leggendo un libro che uscirà a breve. E mi sta pigliando un sacco, devo dire. Mi metto a pulire, e penso intanto Caio, Sempronio e Tizio cosa faranno nel prossimo capitolo. Questo in genere è proprio un buon segno. Ve ne parlerò quando saprò la data di uscita.
Un annetto fa, ho letto anche una graphic novel. All’epoca non sapevo quando e se sarebbe uscita. Verrà pubblicata il mese prossimo, e la cosa mi fa un sacco felice, e perché conosco l’autore, e perché merita, merita veramente molto. Un fumetto necessario, direi. Stay tuned, avrete notizie anche su questo libro.
Nel frattempo, mentre io mi districo tra manoscritti, pannolini, poppate e pediatri, vi segnalo una mia intervista. Questa. Sì, è uscita da qualche giorno, sono in ritardo. Ma vi ricordo i pannolini, le poppate e i pediatri.
So, enjoy e alla prossima!

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(A)licia in Ireneland

Oltre ad essere giovane Padawan nel mio lavoro come astrofisica e come scrittrice, adesso sono anche una Padawan mamma. Nonostante il libretto di istruzioni che ti danno quando esci dall’ospedale, l’allevamento della prole è un compito decisamente improbo, per cui non mancano i tragicomici inconvenienti.
L’altro giorno.
L’altro giorno Irene aveva appena mangiato. Io ero in fase contemplazione estatica, lei in fase lisergica da post abbuffata. Io la guardavo sognante, lei diciamo che più o meno ricambiava, ma un po’ meno sognante di me. Nel bel mezzo di questo idilliaco quadretto da Madonna col Bambino (escludendo i risvolti blasfemi del paragone), l’incrocio di sguardi viene interrotto da gorgoglii intestinali della picina. Sono questi i momenti in cui penso che Guillermo Del Toro, per i suoi vampiri, deve essersi ispirato ai neonati. Io, ancora intenerita, incoraggio la pargola nell’espletamento delle sue funzioni corporali.
“Dai, falla tutta che poi mamma ti cambia”.
E la suddetta Padawan mamma aspetta che la pargola effettivamente l’abbia fatta tutta. Quindi si alza, e conduce la prole al fasciatoio, in un tripudio di “andiamo a cambiare il pannolozzo! Dai che ti metto la musichina delle apine che ti piace tanto!”.
Giunti al fasciatoio, e liberata Irene dalla parte inferiore della tutina, si spalanca la bocca dell’Ade. Azz. Non ho mai gestito l’emergenza “un sacco di cacca che macchia body e tutina, più varie altre parti del corpo” da sola, c’era sempre il papà a coadiuvarmi.
“E che vuoi che sia, mo mamma fa tutto da sola”.
La Padawan mamma apre il pannolino e cerca di non svenire per l’atmosfera un po’ pesante, poi realizza che c’è cacca veramente, ma veramente ovunque. Il pannolino non ha resistito, per cui il contenuto è uscito un po’ da ogni buco libero: gambe, pancia…Le salviettine umidificate non bastano. Tocca usare il lavandino.
“Adesso mamma ti lava in bagno, ok?”, dice la Padawan mamma ostentando una sicurezza che non ha.
Cazzo, l’ultima volta che l’ho lavata nel lavandino per poco non le facevo dare una capocciata epocale contro lo stipite delle porta…e poi come si tenevano le gambe? Aiuto…
Si avanza verso il bagno. La Padawan mamma ha la brillante idea di stringersi la pargola nuda al petto. Peccato che la pargola ancora non sia pulita, per cui la tuta della mamma si sporca. E vabbeh.
Giunte al lavandino, la Padawan mamma fa esibire Irene in una serie di complicate figure contorsionistiche. Piede su…no, anche l’altro su…no, aspetta, e il braccio? Giro di qua…no, con questa mano tengo il piedino, con questa mano tengo il culetto, con questa mano…no, aspetta, io ho due mani, non tre…
Irene, comprensibilmente perplessa, decide che è il caso di decorare ulteriormente la tuta della mamma, e fa pipì. E un po’ ci mancava, diciamocelo. A questo punto, la Padawan mamma ci rinuncia. Probabilmente producendo una mano ulteriore per gemmazione, o forse usando un piede libero per ventura, riesce a pulire il culetto della prole. Quindi ritorna di là, allegramente zozza, e come dio vuole riesce a
1. spalmare l’orrida pastina Fissan sul culetto della prole. Credo che sia mastice a presa rapida, non so, ma debellarla dalle mani è un’impresa titanica
2. mettere come dio vuole il pannolino, che, nonostante sia la misura più piccola esistente, a Irene entra più o meno due volte
3. infilare il body, mentre Irene comprensibilmente inizia a urlare come una iena, in un pianto che dice inequivocabilmente “hai veramente rotto, smettila di smanacciarmi ovunque e dammi la tetta, piuttosto!”
4. infilare la tutina, cercando al contempo di calmare la prole a parole, col succhiotto, infine anche con le minacce.
A fine operazione, condotta a termine in una comoda mezzora, la Padawan mamma, esausta, si contempla allo specchio, mentre Irene ha trovato la pace dei sensi nella culla sulle note del carillon di Totoro. Farebbe prima a ficcarsi sana sana in lavatrice. Sarà forse la legge di conservazione della pulizia: a culetto pulito della bimba equivale mamma completamente zozza.
Ah, le meraviglie della fisica mammifera…

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Brutti pensieri

Come è ovvio che sia, non c’è niente che io senta di poter dire circa il terremoto di Haiti. Sono cose di cui non ha neppure molto senso parlare, perché sono avvenimenti nei quali è impossibile appunto trovarlo, un senso. Ma ieri guardavo il tg2 (lo so, non dovrei indulgere a certe perversioni, ma da quando sono in maternità guardo la tv mentre allatto, giuro che a breve troverò un passatempo meno deleterio), e c’era questo servizio sul boom di richieste di adozioni di bimbi haitiani. Successe anche con lo tsunami del 2004. Del resto, i media anche questa volta hanno spinto tantissimo sul dramma dei bambini: foto, racconti, tutto quanto possa commuoverci. E cosa ci commuove di più della sofferenza dei piccoli? E infatti tanta gente si commuove, si indigna.
Ora. Il servizio mi ha generato tutta una serie di spiacevolissimi pensieri che un po’ controvoglia condivido con voi. Ammetto che di Haiti non sapevo niente prima del fatto, a malapena lo collocavo sulla cartina geografica. Ma a quanto pare non ci voleva il terremoto per renderlo un posto invivibile. Ad Haiti i bambini morivano, erano orfani prima del terremoto, e lo saranno dopo. Ma, per qualche ragione, la povertà normale, il degrado, non ci commuovono abbastanza. Le immagini di bambini africani che muoiono di fame che giravano nei tg quando ero bambina (da qualche anno sono scomparse, suppongo per non rovinarci la cena intorno al desco familiare) non generavano ondate di sdegno, né aumenti nel numero di adozioni.
A volte penso che siamo un società della lacrima a comando. I media decidono su cosa e per cosa dobbiamo commuoverci. Terremoto, tsunami. Quelle sono tragedie che possiamo capire, un po’ perché l’Italia è zona sismica e tragedie del genere ne ha viste infinite nella sua storia, un po’ perché l’idea della natura matrigna fa sempre presa. Nonostante la tecnologia, siamo ancora in balia delle forze di Gaia, bla bla bla. La povertà invece no. Quella non è una catastrofe. Quella è la normalità della vita, è lo status quo. Meglio piuttosto distogliere lo sguardo e far finta di niente, per non dover ammettere che il sistema economico è fatto in modo tale che è necessario che qualcuno muoia di fame. E infatti i tg non ne parlano, e di conseguenza nessuno si commuove. O, se se ne parla, la gente è assuefatta: l’Africa è così, lì mancano le risorse (cosa assolutamente falsa, per altro), ci sono i dittatori, e poi, suvvia, quelli sono tutti selvaggi.
Ma poi la mia testolina va anche oltre. E si ricorda le immagini di Rosarno. Ok, non si tratta di bambini. Ma si tratta di gente che vive nel degrado più totale, uomini trattati come animali, spremuti finché producono, e gettati via quando non sono più in grado di farlo. Schiavi, a tutti gli effetti, che conducono vite miserabili sotto gli occhi di tutti. Voglio dire, non stanno sotto terra. Ognuno di noi vede le condizioni in cui sono costretti a vivere coloro che rendono possibile la sopravvivenza del nostro sistema economico, ma che non ne godono i frutti. Le conosciamo le loro baracche, li vediamo pulire i nostri vetri, costruire le nostre case, accudire i nostri anziani. Ma anche questo non ci commuove. Peggio, ci fa schifo. Invece di domandarci come sia possibile che vivano in mezzo a noi in quelle condizioni, invece di domandarci chi li riduce in quello stato, li consideriamo subumani. “Se vivono così, vuol dire che sono bestie”, ci diciamo. È il discorso che si applica ad esempio ai rom. Vivono nelle baracche, sono sporchi, vuol dire che sono meno uomini di me. Senza star lì a domandarsi se sono contenti di vivere così, se non preferirebbero vivere altrimenti.
Ecco. Un paio di giorni fa ho letto un post di Zucconi proprio su questi argomenti. Ed è proprio vero. È facile amare il prossimo quando vive a migliaia di chilometri da noi. È facile commuoversi davanti al televisore, che non ti trasmette la puzza del degrado, il fetore della povertà. Che soffrano pure, i nostri fratelli, ma lontano dai nostri occhi. Ci potremo commuovere, quando ci diranno di farlo, certo, ma che non vengano a contaminarci con la loro povertà. Perché nel nostro modo di vedere le cose, essere poveri è ancora una colpa.

P.S.
Non occorre dirlo, ma con tutto questo non sto ovviamente deprecando un atto d’amore come l’adozione, che per altro conosco perché ho dei parenti adottati. Il servizio del tg2 è stato solo il pretesto per le riflessioni che ho fatto. Ben venga l’adozione sull’onda dell’emozione, sempre, ovviamente, se chi la fa è consapevole di tutte le responsabilità che diventare genitore comporta, e non sta solo rispondendo ad un impulso “de panza”. Ma questo vale per chiunque desideri un figlio.
Aggiungo anche un consiglio di lettura: Bloody Mary, se qualcuno davvero non sa la frutta e la verdura che consumiamo ogni giorno da dove vengono. E finisco dicendo che probabilmente ho mancato il bersaglio, ma I Dannati di Malva di questo parlava: non si trattava solo di rifiuti in senso materiale, ma anche di tutte quelle persone che il nostro sistema economico trasforma in scorie, reificandole e gettandole via come rifiuti.

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