Archivi del mese: aprile 2010

Pillole

Ho appena cancellato due pagine di post. Ho iniziato la mattinata con una discussione filosofica che non avrei dovuto intraprendere, visto la mia attuale tendenza all’instabilità emotiva (ma perché, ho mai avuto periodi di stabilità?), e il risultato è che adesso sono astiosa. Su tutto. Per cui la prudenza mi induce a non scrivere cose di cui domani di certo mi pentirei. È come quando uno non è capace di intendere e volere. Ecco, io ho dei momenti in cui sono convinta di volere una cosa, ma ne voglio tutta un’altra.

Ieri a tavola si parlava di Chatroulette. Ce lo stanno vendendo come la prossima evoluzione del web, una cosa poetica e fantastica: la possibilità di connettere, per un istante appena, realtà lontanissime, far toccare e collidere esistenze separate da migliaia di chilometri. Sì. Come no. I miei amici che hanno provato mi hanno detto che in sei minuti di navigazione la media è sei uomini col pipo al vento. Perché Chatroulette questo è: un modo per sollazzarsi col proprio amichetto nella speranza di beccare ogni tanto una tetta. L’incarnazione vera del web, insomma. A volte penso abbia ragione il Dr. Cox di Scrubs: se vietassero la pornografia online internet chiuderebbe, fatta eccezione per un solo sito su cui sarebbe scritta una sola cosa: “ridateci la pornografia”.

Mi imbatto stamane in questo servizio fotografico. Commento del giornalista: “senza make-up o photoshop anche le più belle perdono qualche colpo”. Quindi dovremmo tutte essere contente perché le gnocche che vediamo in giro sono di plastica? No, io trovo che molte di quelle ragazze sono bellissime. La verità è che alla bellezza non siamo più abituati. Il nostro gusto è stato standardizzato su determinati canoni inesistenti: la magrezza innaturale, il trucco di un certo tipo. Abbiamo perso il gusto per la specificità di ciascun volto, per la storia che c’è dietro, e che traspare dal taglio degli occhi, dalla rotondità delle labbra. Queste storie sono state coperte da chili di trucco, sono state annullate nella finta perfezione, nell’omologazione di ogni personalità ad un canone comune. Le belle ragazze delle sfilate sono tutte uguali. Così, non sappiamo più apprezzare la potenza di un volto che espone la propria storia, che cessa di essere un manichino e diventa una persona. È la ragione per cui mi trucco solo in certe occasioni. Perché il mio mento troppo grande, il mio naso importante, la mia pelle piena d’imperfezioni parlano di me, di chi sono, in un certo qual senso sono la mia bellezza. Per questo non guardo quelle foto per puntare il dito e dire “ecco, anche loro appena sveglie sono brutte”, ma per scovare la bellezza dell’asimmetria, di quei mille piccoli difetti che fanno di noi ciò che siamo.

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Dolorosi ritorni

Ieri ho fatto l’ultimo passo verso il ritorno alla normalità post-partum: sono tornata a fare lezione in palestra. Detta così sembra niente, ma era più di un anno che mancavo, e a me fare total body piaceva tantissimo. Arrivavo in palestra incazzata, stanca, zompettavo e sudavo per un’ora e poi tornavo a casa contenta. Meglio che fare esercizio in sala pesi, dove dopo un po’ la cosa diventa monotona, oltre ad essere meno efficace.
Comunque. Un anno fa c’era la mia adorata istruttrice, una che ti spiezzava in due ma non faceva una lezione uguale all’altra. Speravo ci fosse ancora lei. Invece, mi avvio verso la sala, e davanti ci trovo un tot di signore in attesa e uno stangone africano che parla inglese nel telefonino. Niente Alessia. Uhm.
Colgo qualche brandello di discussione, e capisco che lo stangone è l’istruttore. Cominciamo male. Io odio gli istruttori maschi. È che se devo mostrare le trippe (e ahimé le mostro, avendo deciso in un impeto di follia di comprare un nuovo top per la palestra colorato, che però finisce proprio sotto il seno), preferisco farlo con una donna, e lo stesso dicasi per il polpaccio o l’ascella non perfettamente depilata. Voglio dire, lei capisce perché quel giorno non ce l’ho fatta a deforestarmi, e sa le tremende tentazioni della cioccolata o del cicchetto dopo cena.
Entriamo, e lo specchio mi dà un piccolo incoraggiamento: non è che sia poi così più flaccida di un anno fa. Ce la posso fare.
Iniziamo, e siamo sul soft. Scettica, mi domando se sarà tutto così. No, perché due anni fa c’era un tizio che la faceva sempre molto leggera, e non vorrei che il mio nuovo istruttore appartenga a quella scuola lì. Già penso con rimpianto ad Alessia che si parte sul serio. E lì muoio. Ma proprio letteralmente. Gambe che non mi stanno dietro, cuoricino che spompetta a tutto spiano, fiato mozzo, sudore a ruscellate. Cazzo, ma sto messa così male? Ho perso così tanto l’allenamento?
Dopo mezz’ora di cardio, mi appoggio sfinita al muro mentre ci prepariamo alla sessione di pesetti. Mi gira pura la testa…Il mio nuovo amico appartiene alla scuola dell’Alessia, allentamento spinto.
Diciamo che la parte di tonificazione va un po’ meglio. Coi pesi tengo botta, e anche con gli addominali. Crollo miseramente sui glutei. Ce ne fa fare alcuni che non avevo mai fatto, so solo che sono massacranti. Mi risulta allucinante anche la sessione di stretching. D’altronde, dopo un anno in cui ho solo nuotato e fatto un po’ di corsa e tonificazione soft, le mie giunture sono di marmo.
Quando esco sono stravolta. Saluto l’istruttore e sono soddisfatta. Sì. Ha fatto un male cane, sono distrutta, e stamattina sento solo dolore dalla vita in giù, ma mi serviva. È proprio quello di cui avevo bisogno.
Domani si replica. Sempre se recupero l’uso delle cosce.

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Don Chiosciotte

Ogni tanto, quando resto sola a cenare la sera, perché Giuliano è di là che cerca di rabbonire Irene che ha fame/sonno/le girano, inciampo in qualche programma di Papi. No, non Papi che ci governa, Papi che fa il conduttore.
Devo dire che i programmi in sé sarebbero anche godibili, e lui, lo confesso ob torto collo, quasi mi farebbe simpatia. È il contorno che è inguardabile. Per contorno, ahimé, intendo le “vallette”. Ma quell’uomo lì si sta specializzando in umiliazione della figura femminile o cosa?
Cominciò (e sta continuando) con La Pupa e il Secchione. Ora, a prima vista La Pupa e il Secchione potrebbe sembrare un programmino innocuo per farsi quattro risate. Peccato che si faccia portatore di stereotipi da troglodita, mettendo in mostra bonazze paurose che sfoggiano ignoranza abissale, compiacendosi anche di essere derise, nel più trito dei cliché della donna oggetto, e soggetti maschili che più che nerd sono sociopatici all’ultimo stadio. Ma c’è l’ironia. Eh, come no. Come nelle Velina di Striscia, nelle Letterine e in tutte le altre ine televisive, che tanto tutto fa brodo per mostrare due chiappe e un bel paio di tette.
Poi è arrivato Il Colore dei Soldi, programma che riuscivo a vedere fino a quando non compariva la valletta. In short che sarebbe più onesto chiamare mutande, scendeva da una scala, tallonata da presso dalla videocamera che si produceva in un’inquadratura ginecologica. In genere la scenetta si concludeva con lei che recitava la parte della scema.
È che una cosa così mi offende. E non vale l’ironia e non vale il prendersi in giro, qui siamo al di là e oltre. Qua c’è un gruppo di persone, davanti e dietro lo schermo, che sbava senza alcuna ironia e sogna donne succubi pronte ad accoglierti a sera in costume adamitico, dopo aver spazzato, cucinato e via così, magari anche a chiappe all’aria, così non facciamo la fatica di chinarci.
Adesso con CentoxCento il concetto è allargato. Tutte le sere che mi è capitato di vederlo, le concorrenti donne erano abbigliate in modo quanto meno disinvolto, per essere eufemistici. Balcone in esposizione, minigonna con tacco 12. Tanto per par condicio, va detto che anche le controparti maschili aderiscono allo stereotipo del figo de noantri, con camicia attillata e pelo in bella vista.
E il problema è che questa cosa qui passa del tutto inosservata. C’è qualcuno che si stupisce perché c’è una donna poco meno che nuda che mostra le terga alla telecamera alle otto di sera? No. Avessi mai visto il Moige lamentarsi per questo. Evidentemente tutte le mamme dovrebbero sognare per le proprie figlie un futuro da -ina di qualche genere, scema io che non capisco.
Non è un problema l’esposizione della bellezza. Non è un problema il tacco 12 o la minigonna. Me li metto anch’io. Il problema è la reificazione. È la trasformazione di schiere di ragazza piacenti in mera carne da macello. Ed è anche l’unico modello di donna in cui ci si imbatte facendo zapping. Del resto siamo nel paese in cui il Presidente del Consiglio è capace di rapportarsi alle donne solo buttandola sul piano fisico: o fa loro una battuta per dire quanto sono gnocche, o per insultarle dice loro che sono dei cessi. Evidentemente non esiste che una donna possa essere intelligente o scema, stronza o capace. Solo brutta o bella. Ed è infatti il modello imperante in tv: donne che si compiacciono di mostrarsi ignoranti, donne che accettano di apparire e starsene mute, o se parlano dicono solo banalità innocue. Ognuna di noi ha il diritto di vestirsi come le pare, mettere in mostra il proprio fisico, se vuole. Ma ha anche il diritto di essere considerata una persona, di mostrare il proprio intelletto e tutte le caratteristiche che ne fanno un essere umano complesso e completo, e non carne da esporre per tirare su l’audience.
A volte penso a quando Irene sarà grande. Alle lotte per farle capire cosa c’è di male in quello che vede in tv, per spiegarle perché la bellezza in sé non è un valore, è solo un accidente della bella persona che spero diventerà. Certe volte mi sembra una lotta improba, come Don Chisciotte contro i mulini a vento. Chi sono io per andare contro un intero sistema di pensiero, come posso sperare di farcela? Ma non voglio rassegnarmi a permetterle di darsi al vuoto esistenziale nascosto sotto chili di belletto che, più passa il tempo, più inizio a considerare il tratto distintivo di quest’Italia di oggi.

P.S.
Ecco qualcosa con cui tirarsi su…

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Ragnetti rossi

Oggi sono uscita per fare un po’ di giri, e visto che avevo lanciato un processo piuttosto time consuming per il lavoro, mi sono concessa una passeggiata al parco con Irene, con tanto di macchina fotografica al seguito. Faceva un caldo assolutamente devastante. Roba che a metà giro mi sono dovuta fermare per togliermi i calzini. In un colpo solo sono passata dalla felpa con maglietta intima alle mezze maniche senza altro sotto.
È arrivata l’estate. Sarebbe anche ora, direi. Ma non ho dovuto aspettare di farmi una passeggiata al parco per capirlo. Lo sapevo già da un paio di giorni.
Nella casa dove sono cresciuta c’era un terrazzo enorme. Ci passavo tutta l’estate, da bambina. Giocavo a tennis e pallavolo contro il muro o con papà, più grandicella prendevo il sole in costume. E sapevo sempre quando stava per arrivare la stagione del terrazzo. Perché sul balcone comparivano i ragnetti rossi. Sono gli unici insetti che non mi fanno paura, ma il cui arrivo anzi aspettavo con ansia. I ragnetti rossi segnavano il periodo dei giochi all’aperto: comparivano quando iniziava il caldo, e quando arrivava l’afa si dileguavano. Vivevano una stagione soltanto, erano più accurati delle previsioni del tempo. Ragnetto rosso = primavera. Fine ragnetto rosso = estate inoltrata. Morivano a migliaia su quel terrazzo; spiaccicati sul pallone o sulla pallina da tennis, sotto i miei sandaletti. Quando rientravo in casa sudata avevo le mani nere e rosse.
Ecco, un paio di giorni fa, aprendo il cancello di casa, li ho visti arrampicarsi sul metallo, e ho saputo che l’inverno era finito, che era tempo di estate.
Mi domando se anche Irene, che ha disposizione un terrazzo anche più grande di quello della mia infanzia, aspetterà con ansia l’arrivo dei ragnetti rossi, se anche lei saprà che l’estate è arrivata quando li vedrà andare in fretta e furia chissà dove.

P.S.
Dopo l’intervista a Eddie the Head, ecco a voi quella con Mad Dog. Leggetela, perché è davvero diversa dal solito

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Commentiamo insieme il telefilm del giorno: Lost 6×13

Se i post di commento a Lost non avessero titoli standard, questo lo avrei intitolato La Sinusoide o Il Sorpasso. Vado a spiegare il perché.
La sinusoide: ormai funziona più o meno così: episodio bello, episodio a perder tempo, episodio bello, episodio a perder tempo. Questo è a perder tempo. Tutto il succo è concentrato nel prologo della puntata, nel quale non solo ci viene fornita l’unica “rivelazione” dell’episodio (per altro molto telefonata), ossia che Christian era Farlocke, ma c’è anche lo splendido confronto tra Jack e Locke. Peccato finisca a tarallucci e vino. Dopo tutto ‘sto casino, che sembrava che le tredici puntate fin qui servissero a schierare i pezzi sulla scacchiera, in modo che ciascuno si trovasse schierato con la propria fazione, va tutto a femmine di malaffare, visto che i candidati sono tutti insieme e contro Farlocke c’è rimasto solo Widmore.
Il sorpasso: sull’isola, diciamocelo, ormai è elettroencefalogramma piatto. Gente che va, gente che viene, ma in tredici puntate non è successo niente di significativo. Due cose messe lì per farci dire “Wow!” (la caverna, il faro) e poi morta lì. È dai tempi del mai dimenticato tempio che le parti sull’isola non smuovono la trama di un millimetro. Stanti così le cose, e considerato l’episodio di svolta su Desmond, ormai le parti offshore sono le più interessanti. E infatti a ‘sta botta sbuffavo sull’isola, mentre seguivo con passione gli sviluppi nella realtà alternativa. Lì c’era tensione narrativa, lì i personaggi facevano qualcosa, c’era la sensazione che da un momento all’altro ci sarebbe stata la svolta. Tipo che tutti finiscono nell’ospedale di Jack, in pratica, tipo che tutti si ricordano Locke.
Ora, capisco che questo episodio è evidentemente introduttivo al quintetto finale, tanto è vero che sarà seguito da una pausa di una settimana nelle trasmissione, ma l’impressione è che, a parte qualche luminosa eccezione, tutti gli episodi fin qui siano stati una preparazione, lunga e inutile, al finale. Eppure non sarebbe stato difficile. Anche solo a svelare un mistero a puntata ci avrebbero riempito fitti fitti tutti i diciotto episodi. Ma la strada scelta non è stata questa. Posso anche capire che fare un sesta solo di “soluzioni” potesse sembrare riduttivo, ma anche tirare in lungo in attesa del gran finale non mi sembra una grande idea. Comunque. Ormai siamo in ballo, non si può che ballare. Attenderemo queste due settimane, e poi dovrebbe essere tutto in discesa. Nella speranza che le ultime cinque puntate di Lost siano un’unica, potente cavalcata.

In sintesi: questa stagione è gestita male. L’impressione è che avessero proprio finito le cose da dire, per cui la stanno tirando in lungo fino al finale, che a questo punto spero sia degno di questo nome. Con queste tredici

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Inutile tritolo

Si sa che io sono facile all’ossessione. Quando mi piace una cosa spesso entro in trip. Ne parlo ovunque, mi esalto, me la godo da tutte le angolazioni. Soprattutto ne fruisco ripetutamente. Tipo le dodici letture de Il Nome della Rosa, o gli innumerevoli ascolti di tutto quanto sia stato partorito dai Muse. Stavolta però inizio a preoccuparmi anch’io.
Ho comprato Storia di un Impiegato qualcosa come una, due settimane fa, sulla scorta di un’ossessione per una canzone del disco, Il Bombarolo. Non so spiegare perché, ma mi piaceva moltissimo, insieme a Canzone del Maggio, che viene dallo stesso lavoro. Ecco, Canzone del Maggio è già più comprensibile. Il Bombarolo meno. Comunque, ho preso il disco a 7 euro da iTunes. Ora, potrei partire con un elogio di tre pagine sulla musica su iTunes, su questa validissima alternativa alla pirateria musicale e via così, e probabilmente un giorno lo farò, ma cercherò di stare sul pezzo e continuare a parlarvi della mia ossessione.
Dopo il primo ascolto di Storia di un Impiegato, commentai su Facebook: “Incredibile quanta bellezza e verità vada via a sette euro”. E puffete! Ero stata catturata.
Non so quante volte abbia sentito il disco da allora. Più o meno una volta al giorno. Canticchio le sue canzoni in ogni dove. Ce le ho in testa, piantate tra l’aorta e l’intenzione, tanto per parafrasare. E ho iniziato a chiedermi perché. Perché questo disco e non altri. Perché non La Buona Novella, Non all’Amore, Né al Denaro, Né al Cielo, che pure mi piacciono tanto. Perché questo, e perché ora.
Scopro che all’epoca dell’uscita, la critica non apprezzò. Non mi stupisco. Faber era uno che andava sempre in direzione ostinata e contraria, lontano dalle facili verità, e sempre un passo in anticipo sui tempi. La sua sete di verità, e il modo onesto e spietato con cui la cantava lo rendeva inviso a chiunque fosse preda del dogma, e ce n’erano, negli anni ’70 (come ce ne sono adesso, d’altronde). Il suo impiegato, che finisce bombarolo, non poteva certo piacere alla borghesia dell’epoca, quelli che si sentivano assolti perché il fuoco aveva risparmiato le loro 1100. E non poteva piacere neppure a chi la rivoluzione l’aveva fatta, visto che i metodi di quella rivoluzione metteva in dubbio, in una spietata analisi di come certe forme di ribellione finiscano per essere più conservatrici di quanto si pensi.
A me invece piace. È intriso di una disperata ribellione, è la storia di una ricerca, e credo che tutte le vite siano questo: una ricerca senza fine e senza requie. E allora forse inizio a capire perché mi piace tanto. Giunta alle soglie dell’età della ragione, qualcosa in me (per fortuna) non si arrende. E spera in una ribellione che faccia saltare le maschere del potere. Una ribellione solitaria, proprio come quella dell’impiegato. Costruisco le mie inutili bombe davanti alla mia scrivania, alla fioca luce della lampada, nella speranza che possano servire a qualcosa, ma nella consapevolezza un po’ triste che tutto sommato io e il mio tritolo siamo davvero innocui. Dentro so perfettamente di essere anch’io un meccanismo del potere. Tutti ci siamo dentro, hanno ragione i Wu Ming. Però quel canto finale, Nella mia Ora di Libertà, mi fa sperare. Che un giorno si decida tutti di imprigionare i secondini nella nostra ora d’aria, che si decida, insieme, che è tempo di cambiare. E in fondo so che non rinuncerò mai a questo desiderio di cambiare, forse un po’ sterile, ma che ci rende eternamente giovani.

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Muto sono

La parole di Berlusconi ho avuto il dispiacere di sentirle dalla sua viva voce alla radio, mentre tornavo dalla palestra. Mi sono domandata quanto in basso quest’uomo può far scendere la mia considerazione per lui: quando pensi che il fondo sia stato toccato, prende una pala e inizia a scavare.
Non che siano cose nuove. Fa parte del suo pensiero l’idea che la mafia sia Cosa Nostra, che i panni sporchi si lavino in casa e che Saviano & co. siano dei rompicoglioni. Questo non vuol dire che la cosa debba smettere di indignarci. In fin dei conti il gioco è questo: ripetere una cosa all’infinito, finché anche la falsità diventa verità e finché chi può indignarsi si stanca di farlo, e archivia la sparata del giorno nel cassetto apposito. Ecco. Direi che noi non si smette di indignarci, neppure alla milionesima ripetizione. E la nostra indignazione dobbiamo continuare a mostrarla.
Ora, che Gomorra è una pubblicità per la mafia fa già ribrezzo sentirlo dire da uno al bar sport di Casal di Principe, figurarsi dalla bocca del presidente del consiglio. E, mi spiace, non si tratta proprio di diritto di critica. Critica è entrare nel merito del libro, del suo stile, non bollarne la denuncia di cui si fa portatore come “dannosa”. E comunque non è che una cazzata, siccome è uscita dalla bocca del presidente, diventa improvvisamente articolo di fede. Ma che razza di discorso è? All’improvviso il problema non è più che in Italia ci sia la mafia, che abbia un giro d’affari enorme, che letteralmente possegga larghe fette del paese, dove ha bellamente sostituito lo stato, ma che se ne parli. Visto che si ride per non piangere, non posso che linkare questo geniale post di Don Zauker.
Ma d’altronde, i sepolcri imbiancati sono al potere, abbiamo poco di cui stupirci. In un paese che vorrebbe far tornare illegale l’aborto, così chi ha i soldi si paga nel silenzio l’operazione, e chi i soldi non ce li ha muore in mano alle mammane, ma sempre senza fare scandalo, sempre nell’ombra, in cui è ritenuto giusto che uno sposato vada a mignotte, basta che lo faccia con discrezione, e che soprattutto la moglie non si azzardi a lamentarsi, mi sembra la naturale conseguenza che il problema non sia la mafia, ma che se ne parli. E altrettanto logico è dunque che molta gente non si indigni per quest’uscita del presidente, che qualcuno dica anche “ma sì, ha ragione”, che tanto ormai dare addosso a Saviano è sport nazionale, sei un po’ out se dici che il libro t’è piaciuto, che lo trovi necessario e che ne vorresti a grappoli in libreria, di libri come Gomorra.
Il problema ha smesso di essere Berlusconi da parecchi anni. Il problema è il sonno delle coscienza, il coma profondo in cui è sprofondata la società civile italiana, che ha perso persino il senso di certe parole. Ci sono cose che non si capiscono più, tipo perché quella affermata da Berlusconi non è una legittima opinione, ma uno sputo in faccia alle vittime della mafia, a chi ha dato e dà la vita per combatterla.
Forse il problema è che chi s’arrabbia fa poco rumore. Forse dovremmo essere un po’ più casinisti.

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Un anno

Ero appena sveglia, e mi tremavano le mani. Forse perché sotto sotto già sapevo. Il primo test l’avevo fatto due giorni prima, ed era dubbio. I test di gravidanza lo sono sempre, a seconda delle interpretazioni. La linea è troppo debole, o appare dopo i fatidici cinque minuti, o chissà che altro. A volte è spezzata. Come quella mattina. Un pezzetto in alto, uno in basso e niente in mezzo. Tanto bastava per andare a fare il prelievo del sangue.
Nessuna signorina sorridente e compiaciuta ai prelievi, come la prima volta che avevo fatto il test, qualche mese prima di sposarmi. Allora tutte mi facevano gli auguri, anche se il test era un formalità e sapevo che il problema era lo stress di quei giorni e la dieta. Stavolta nessuno mi sorrise o mi fece gli auguri.
Il risultato lo andai a prendere un minuto dopo l’ora in cui mi avevano detto di passare. Non aprii subito il referto. Mi concessi dieci passi di incertezza, quelli che mi separavano dalla macchina. Il cuore a mille, e la risposta stretta in mano, sotto il sigillo fragile di un pezzetto di scotch.
Quando lessi, mi misi a piangere. Era una cosa così grande e bella, che mi soverchiava a tal punto che non potevo che arrendermi alla potenza della vita. Capita ogni giorno a tante donne, da milioni di anni. Quando capita a te è sempre qualcosa di unico, di irripetibile, di esclusivo.
Era un anno fa esatto. Ed esattamente otto mesi dopo, nasceva Irene.

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Commentiamo insieme il telefilm del giorno: Lost 6×12

O. Mio. Dio.
Non pensavo che sarebbe mai giunto questo giorno. In effetti ho peccato di mancanza di fede, ma non mi sento di biasimarmi. Voglio dire, i presupposti c’erano tutti, erano tipo due stagioni, forse pure tre che i sussurri non si sentivano, per cui…io…
Ok. Today is the day. Per la prima volta da quando l’ho scritta, depenno una cosa dalla lista dei misteri di Lost che vorrei veder svelati pena l’andare a dar fuoco all’ufficio degli sceneggiatori (mi sento molto Jacob, lo ammetto :P ). Si tratta del mistero numero 2, cosa sono i sussurri. Ora lo sappiamo (più o meno). E confesso che io non me lo immaginavo. Torna prepotentemente a galla l’ipotesi purgatorio, allora. O no. Boh. Certo, la rivelazione è buttata un po’ là, senza tanto pathos, ma è peccato veniale.
Per quel che riguarda la puntata nella sua interezza, si conferma che lo scorso episodio ha segnato un punto di svolta. Finalmente i flashsideways hanno un senso, e uno se li gode anche di più. Quello di Hugo è stato particolarmente gustoso, perché attraversato da una vena sottilmente inquietante dovuta anche alla presenza di Libby, che a me ha fatto sempre un po’ angoscia. Il richiamarsi alla realtà “vera”, la curiosità di sapere se Hugo avrebbe ricordato, l’oscura presenza di Desmond, che ormai pare veramente aver capito tutto, e il finale col botto (metaforico e figurato) hanno reso la storia della reltà alternativa godibile, a suo modo tesa, senza essere al cardiopalma. Sull’isola, continua il via vai un po’ senza costrutto dei nostri, anche se siamo arrivati pure qua ad una svolta: i candidati sono arrivati da Farlocke, adesso vediamo che succederà.
Nota di demerito per la morte di Ilana. Artz lo potevano anche far esplodere così, senza ragione, perché in fin dei conti era un personaggio ultra-secondario, ma Ilana no, e che cavolo. Sembrava che avesse delle cose da dire, invece fa la morte più idiota della storia ed esce dallo show incompiuta. Posso anche capire che ha fatto il suo tempo e non ci serve più, ma, dio mio, un’uscita di scena un po’ più significativa? Comunque, Lost ce l’ha un po’ questo vizio di ammazzare la gente così, a uffa (vedi il mai dimenticato Dogen). Valgono come non mai le parole di Ben al riguardo
“There she was – handpicked by Jacob, trained to come and protect you candidates, no sooner does she tell you who you are, then she blows up. The Island was done with her. Makes me wonder what’s gonna happen when it’s done with us.”
Per il resto, Terry O’Quinn si conferma troppo un grande. Gli sguardi che regala a Farlocke sono impagabili: sembra davvero che sia un’altra persona. A proposito del nostro MIB, due domande: perché il fanciullo nella foresta lo terrorizza così tanto? Vabbeh, sì, poi ci sarebbe anche chi è il fanciullo nella foresta, ma tralasciamo. Due, com’è che si guarda così storto con Jack, ricambiato per altro, al momento del loro incontro. Che sia vero che Jack è il prossimo Jacob? Per altro, ho l’impressione che il personaggio Jack abbiamo compiuto la propria parabola. Basta con ‘sta passione del fix a tutti i costi, ormai si è affidato del tutto all’isola. E così ci piace anche di più.
Resta il punto di domanda Des. E non parlo solo del suo doppio carpiato ritornato coefficiente di difficoltà 3.5 nel pozzo, ma proprio di cosa gli abbia tolto la paura, per rimanere alle sue parole. È evidente che lui sa, che è evidentemente convinto che neppure la morte lo può fermare. Sarà perché nella realtà alternativa ha iniziato il suo sporco lavoro? Chissà.
Si conferma infine che la costante è l’amore. Tutti ricordano il passato rivedendo la persona amata. Tutti tranne la significativa eccezione di Locke, che deve fare un volo. La chiusura dell’episodio sul suo volto insanguinato che pare acceso da una nuova consapevolezza spalanca abissi di interrogativi per il prossimo episodio. Sento che quando Locke ricorderà la timeline originaria per Farlocke saranno cavoli amari. Vedremo se avrò ragione.
Comunque, episodio davvero molto godibile, che ho seguito con gran piacere.

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Yawn…

Ieri è stata proprio una bella serata. Ma un po’ totalizzante. Sono uscita alle 16.30 da casa mia e sono rientrata alle 23.30, felice quanto vuoi (e anche un po’ brilla, come non mi capitava da un sacco di tempo, visto che è un anno circa che non bevo), ma distrutta. Per altro, provate voi a camminare coi tacchi a spillo sui sanpietrini di Frascati. E che io avevo timore della camminata al centro di Roma per raggiungere Galleria Sordi. Ma vabbeh. Alla fine, sono semplicemente assonnata. Per cui mi limito a linkare un articolo che ho letto stamattina. Una di quelle cose che ti fanno sentire meno solo. Che ti fanno sperare che le cose possano cambiare.

Hans Küng su Ratzinger

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