Archivi del mese: dicembre 2011

Un volto nuovo

In genere non faccio bilanci di fine anno. La notte del 31 dicembre ha sempre qualcosa di magico, di speciale, ma non la associo mai ad un reale cambiamento. Per me settembre è invece il momento dei bilanci, evidentemente l’adolescenza non è tanto lontana, e sono ancora settata sui ritmi della scuola.
Qualche sera fa, però, ho dato una scorsa al mio Diario di FB, e ovviamente a tutte le foto annesse. E, niente, è successo qualcosa alla mia faccia. Anche se guardo al periodo in cui ero più magra di ora, mi accorgo con le mie guance mantenevano una certa pinguedine. Ero tonda, mentre adesso, se mi guardo allo specchio, vedo gli zigomi evidenti, la guance un po’ incavate.
«Si chiama dimagrire» mi ha detto un mio amico oggi. Ma a me è venuta invece in mente una cosa che ho scritto tante volte, quando mi è capitato di descrivere i miei personaggi più giovani:

Era un bambino bello in modo inquietante, occhi grandi, riccioli vaporosi a incorniciare un ovale quasi perfetto e appena arrotondato dalla pinguedine dei bambini,

dico ad esempio di Aster ne La Setta degli Assassini. E allora ho capito. Non sono dimagrita. Sono cresciuta. La mia faccia non ha più niente di infantile, sono una donna, con un marito e una figlia, un lavoro e una casa. Sono un’adulta. Questo sarà il volto che porterò in giro per il mondo da qui in avanti, la faccia con cui sarò ricordata da chi mi ama. La trasformazione è finita, sono io, la me definitiva.
Non so bene cosa pensare di questa cosa. Da ragazzina non volevo crescere, e probabilmente ancora oggi l’idea di definirmi adulta mi mette un vago imbarazzo, anche se il limite s’è spostato, e adesso più che altro ho paura della vecchiaia, ma non per le rughe e tutto il resto, ma per la perdita della persone care. Ma checché ne pensi ormai è successo, e non posso farci niente.
Poi però mi dico che per me valgono le parole di Nathan nell’ultima puntata della prima stagione di Misfit: “Io sono un cazzone ed ho in programma di rimanere un cazzone fino alla fine dei miei venti, forse fino all’inizio dei miei trent’anni!”. Perché continuare a non prendermi sul serio, mantenere la passione e lo stupore per la vita, sapermi divertire e non lasciare mai morire la fantasia è e sarà sempre il mio modo di essere adulta.
Benvenuta dunque questa mia nuova faccia, l’avatar degli anni a venire, e benvenuto mondo adulto. Spero di muovermici dentro con lo stesso divertito stupore che mi ha accompagnato in questi trentun anni. E a tutti voi, buona fine e buon inizio.

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Spartacus: sangue, sesso e morte

Mi rendo conto che è fatto la figura della peracottara – come si dice a Roma – nel promettervi consigli per gli acquisti che poi non vi ho dato, ma adesso che sono in vacanza ho meno tempo libero di prima. Tra questa insana passione per la pasticceria – per inciso, visto che si parla in giro di questa roba qui, io non faccio e decoro dolci perché mi sento dentro chissà quale vocazione a far la donna di casa, ma perché è un modo come un altro per esprimere la mia creatività, al pari dei libri, dei disegni, delle foto, e delle ottanta altre cose che faccio in vita mia – Irene, marito e Ragazza Drago 5 sono sempre a far qualcosa. Solo adesso, forse, ho trovato un momento per parlarvi del mio secondo consiglio per gli acquisti.
Con colpevolissimo ritardo di due anni – e dopo aver superato l’angoscia nel vedere una cosa in cui recita un attore morto da poco – ho scoperto Spartacus Blood and Sand.
Ora. Indubbiamente non è una cosa per tutti i palati, sicuramente richiede da parte dello spettatore un abbandono di cui non tutti sono capaci, ma una volta entrati nello spirito, dentro c’è veramente tutto quello che uno può volere.
La storia è quella, arcinota, di Spartaco, il gladiatore trace che fece vedere i sorci verdi alla Roma repubblicana, protagonista di una ribellione di schiavi che fu una cosa piuttosto grossa. La prima serie si concentra sulle origini: la cattura di Spartaco, la sua condanna a morte, la sua folgorante carriera da gladiatore e infine la decisione di ribellarsi.
Innanzitutto, Spartacus è un prodotto nel quale l’estetica è parte del godimento complessivo, ed è un elemento dello sviluppo al pari della sceneggiatura. Quest’estetica ha un debito fortissimo nei confronti di 300: esaltazione dei corpi nudi, principalmente maschili – e quando nudi intendo proprio nudi, ci sono un bel po’ di volatili in bella vista :P – ritratti principalmente nel gesto atletico, molto spesso in ralenty, fotografia curatissima, sangue a tonnellate e iperviolenza. La cosa interessante è che però il tutto è al completo servizio della storia. La fotografia laccata, l’ossessione per i corpi ha una sua gustificazione nell’economia della narrazione, e rimanda direttamente al tipo di società che Spartacus mette in scena: una società in cui l’apparenza e i soldi sono tutto. La Roma di Spartacus è un posto in cui tutto è immanente, gli dei sono un mero pretesto e tutto si riduce al qui ed ora, un presente che deve essere consumato in fretta e con voracità. Non conta chi realmente si sia, ma quanto si vale: ogni persona ha un prezzo, e per raggiungere i proprio scopi non c’è nulla di illecito. Un affresco che ho trovato interessante, vividissimo, e tutto sommato anche piuttosto attuale.
Di contro, c’è Spartacus, che fin dall’inizio si oppone a questa visione. Per lui ogni persona ha un valore in sé, che prescinde dal mero valore monetario, ogni esistenza è preziosa e la vita non si riduce ad una estenuante ricerca del piacere del momento, bensì si deve spendere per qualcosa di più grande. La sua ribellione dunque non è più solo mera vendetta: è la sua visione della vita che si scontra con quella dei romani.
Ottimi sceneggiatura, regia e soggetto. La regia lascia il segno, piena com’è di scelte originali e azzeccate (una su tutte: i primi piani insistiti, mentre dietro l’azione si sposta di luogo e tempo, dando l’idea del tempo che passa). I dialoghi sono curati e spesso assai belli, il ritmo viene sempre gestito in modo egregio, frenando quando necessario, accelerando quando si deve accelerare, e praticamente senza momenti di noia. I personaggi sono a tutto tondo, proprio perché calati in un contesto che alla fin fine ha tantissimo del fumetto: i combattimenti sono sempre esagerati, con elementi spesso direttamente gore, sangue e profusione e morti come se piovesse. Eppure i personaggi sono veri, intensi, si soffre e si gioisce con loro, anche per quelli più ignobili. E di ignobili ce ne sono a palate.
Su tutti, svetta il viscidissimo Battiatus, perfettamente accoppiato con la perfida moglie Lucrezia. Impossibile non tifare per la loro spudorata scalata al potere. Spartacus porta ad un nuovo livello la trama di intrigo: le congiure ordite da Battiatus sono quanto di più machiavellico visto sullo schermo, la sua capacità di cadere – quasi – sempre in piedi, di volgere a proprio favore anche le sciagure, di non fermarsi davvero davanti a niente ne fanno un personaggio indimenticabile.
Le note negative? Innanzitutto la gratuità di un buon 40% dei nudi. Sembra ci sia tipo un tetto minimo di ette e culi da far vedere a puntata, e gli autori se ne inventano di ogni per mostrare seni e piselli al vento. Va bene, la società dissoluta, i costumi liberi e quel che ti pare, ma certe volte è veramente troppo. Tipo quando Licinia deve scegliere un maschera da indossare per il suo incontro clandestino con un gladiatore, e non trova di meglio che farne provare un tot a tipo dieci schiave nude. Perché? Era necessario? Anche no. Ora, non è che mi scandalizzi per un paio di nudi, ma la pretestuosità di alcuni di essi è semplicemente irritante, così com’è irritante qualsiasi elemento di trama che sia messo lì non per effettiva necessità, ma solo per stimolare i bassi istinti dello spettatore.
Infine, ci sono alcuni snodi di trama gestiti non proprio al meglio: tutto sommato, la carriera di gladiatore di Spartaco resta un po’ ingiustificata, soprattutto dopo uno snodo di trama sul quale non mi dilungo perché è spoiler. Ma nel complesso tutto funziona come un meccanismo perfettamente oliato, tra ottimi interpreti e una trama outrée.
Resta una grande incognita per il futuro: può Spartacus sopravvivere senza Andy Whitfield e senza Battiatus (e questo qui non è un gran spoiler, ve lo dico)? Whitfield era veramente perfetto. L’attore che è stato chiamato a sostituirlo sembra non avere una caratteristica che invece mi piaceva molto nello Spartacus di Whitfield: era sì un cristone muscoloso e pompato, ma anche fisicamente spiccava sugli altri gladiatori e su Crixos in particolare: bastava guardarlo, e capivi a volo che non era solo uno che mena. McInthyre invece sembra Ken il Guerriero. Per il resto, la seconda stagione – non conto il prequel Gods of Arena – deve rifondare il prodotto dalle basi: ormai il patatrac è successo, la componente di intrigo andrà a farsi benedire, e anche l’arena per forza di cose sarà meno presente. Funzionerò tutto lo stesso? Non lo so, spero di sì, perché la prima stagione, devo confessarlo, mi ha davvero esaltata. Un bel prodotto divertente, ben fatto, appassionante. Ce ne fossero di più…

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Consigli di lettura: 22/11/’63

Visto che siamo sotto le feste, e sulla carta tutti dovremmo avere più tempo per lo svago (tutti tranne me, io non ho mai tempo, per definizione), inizio una piccolissima serie di post in cui vi consiglio roba da vedere/leggere. Per la verità adesso ho in mente solo due cose, ma magari nel prosieguo ne troverò altre.
Dunque, ho finito da pochi giorni 22/11/’63, l’ultimo libro di Stephen King. Piccola premessa: non sono una fan sfegata di King. Di lui ho letto It, che mi è piaciuto mediamente, Il Gioco di Gerald, che invece avevo apprezzato di più, e Notte Buia, Niente Stelle, che mi aveva davvero catturata. Nonostante il mio giudizio su quanto di suo ho letto sia più che positivo, non sono una fan. Solo che, circa un paio di settimane fa, mi sono imbattuta appunto in 22/11/’63, e…niente, è così bello da far male, e sono sicura che, se siete lettori forti, avete capito cosa intendo.
Ci sarebbe da dirne a pacchi sull’ultima fatica del Re. Io mi concentrerò su un paio di punti che mi hanno particolarmente colpita.

Il gusto per l’affabulazione
La prima cosa che colpisce di King, è la straordinaria capacità di narrare. Le sue storie sono dotate di quella forza dirompente e irresistibile che solo i grandi narratori sono in grado di imprimere. Inizi a leggere, ed entri in un altro mondo. Si viene catturati, non si riesce letteralmente a staccare gli occhi dalla pagina. E questo indipendentemente dall’argomento che King sta trattando, perché lui saprebbe avvincerti anche con la lista della spesa. Saper raccontare è un dono, o ce l’hai o non ce l’hai, e lui ce l’ha, al massimo grado. I personaggi diventano rapidamente i tuoi migliori amici, ti interessa di loro, ti sembra di conoscerli da sempre, vivi e soffri con loro. Appena apri le pagine, non ha più alcuna importanza dove tu sia e cosa tu stia facendo: tempo un paio di parole, e sei – nel caso di 22/11/’63 – nell’America degli anni Sessanta.
Io questa capacità “artigianale” – e sapete che artigianale in questo contesto ha per me un significato estremamente positivo – io gliela invidio dal profondo. Tra l’altro, da grande qual è, King è perfettamente consapevole dei suoi strumenti, nonché di quel che sta facendo, o non direbbe quanto segue, per tramite del suo protagonista.

“Da insegnante, ho sempre insistito sulla semplicità. Che si tratti di narrativa o di saggistica, conta solo una domanda, e una risposta: «Cosa accade?» chiede il lettore. «Questo… E questo… E anche questo», risponde lo scrittore.

Ecco. Io questa cosa qui probabilmente la scriverò a caratteri cubitali sul soffitto della mia stanza da lettore. Due righe, e c’è riassunto quel che fa uno scrittore di genere. Non c’è veramente altro da aggiungere.

La banalità del Male…
Per quanto possa capirne, in base ovviamente al mio vissuto, a me sembra che il libro porti avanti un discorso per nulla banale sul Male. Certo, lo si può considerare un libro di fantascienza, anche se gli elementi del genere stanno tutti in apertura e in chiusura del libro, o, forse, più a ragione, una struggente storia d’amore. Ma sotto sotto, si parla di Male, come del resto in tutti gli altri libri di King che ho letto. In particolare, della banalità del Male. Male incarnato innanzitutto da Oswald. Un ometto, per come ce lo dipinge King – e per come con ogni probabilità era – compresso da una madre ossessiva, ciecamente idealista, incapace di ribellarsi davvero, vigliacco. E questo acuisce l’orrore del suo gesto. Kennedy non è morto in seguito ad un complotto, non è stato colpito da un grand’uomo. Kennedy è stato ucciso da un piccolo uomo, perché quasi sempre sono i piccoli uomini ad essere capaci di gesti tremendi. Tutto il resto della fauna del libro è popolato da un’ampia galleria di cattivi il cui tratto saliente è la meschinità: meschino è Frank Dunning, la simpatica canaglia rubacuori agli occhi del mondo, capace di sterminare l’intera famiglia a colpi di martello, meschino è un altro personaggio, di cui taccio il nome per non fare spoiler – e in un libro così il gusto per la trama fa parte del godimento complessivo, e chi sono io per rovinarlo a chicchessia? – all’apparenza un nevrotico incapace di nuocere, che invece trova la forza per vendicarsi sul mondo nel peggiore dei modi. Il Male si incarna sempre nel vicino simpatico, nell’uomo qualunque, in ultima analisi in chiunque, noi stessi compresi. E in chi compie il Male non c’è niente di eroico o grande: solo infinita piccolezza.

…e il Male ontologico
Nonostante il Male si incarni in individui qualsiasi, spesso particolarmente meschini, per King il Male esiste come forza a sé stante, che percorre la storia come un ruscello sotterraneo. Anche questo è un tema che ho ritrovato nel resto della produzione di King. Torna la Derry di It, ad esempio, come un luogo contaminato nel profondo dal Male. E Dallas stessa appare come una città corrotta da forze più antiche e potenti dell’uomo, che nell’ombra attendono per ghermirci. Perché se la responsabilità dei gesti resta comunque dell’uomo che li compie – nessuna reale pietà per Oswald o per Dunning, perché potevano comunque scegliere, e non l’hanno fatto – è questa corrente maligna che dà la spinta decisiva, quella che trasforma l’uomo qualunque in un mostro. Il monda appare così un posto in bilico, in cui alcuni individui sono sempre prossimi al punto di rottura, e in cui il Male può manifestarsi all’improvviso. King sembra volerci dire che esistono luoghi che più di altri risentono di questa corrente, posti intrisi fin nel midollo di qualcosa di oscuro. Ed è proprio questa sua visione del male a renderlo il maestro dell’orrore: King è il cantore dell’orrore del quotidiano, del male che si annida in mezzo a noi, in noi. Era così in Notte Buia, Niente Stelle, è così, se possibile con ancor più forza, in questo libro.

Il Destino
E infine, il Destino, da cui davvero non si può prescindere, in un libro che parla di viaggi nel tempo. Ripeto, la responsabilità resta sempre e totalmente del singolo, nessuno dei “cattivi” è in realtà costretto a fare quel che fa. Al contempo, però, il libro sembra suggerire che esiste un piano più grande, del quale siamo tutti chiamati ad essere attori attivi. Le cose vanno come devono andare, insomma, anche se nessuno di noi è una marionetta.
La visione dell’argomento è interessante, e anche il modo in cui il viaggio nel tempo viene presentato. All’inizio, la buca del coniglio che conduce al ’58 sembra la macchina del tempo perfetta: basta tornare indietro, e tutto si ristabilisce esattamente com’era, dunque i guai prodotti nel passato possono facilmente essere aggiustati. Inoltre, il viaggio dura nel presente sempre due minuti. E invece…e invece sta a voi scoprire come e perché le cose non sono così semplici.

In conclusione
Probabilmente è il libro dell’anno, di sicuro uno dei migliori che abbia letto negli ultimi tempi. Ho aperto il 2011 leggendo King, e sono ben lieta di chiudere l’anno con questo 22/11/’63, che è un vero capolavoro. È l’affresco di un’epoca irripetibile della storia, è una straordinaria storia d’amore, è un viaggio al centro del cuore oscuro che ogni uomo ha in sé. È un libro che insegna più di molti manuali di storia, e al tempo stesso ci dice così tanto sulla nostra natura di uomini, sul senso del nostro cammino su questa terra.
Ve lo consiglio dal profondo del cuore, e sono certa che se lo leggerete non ve ne pentirete, ma vi farete un gran regalo.

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Auguri!

P.S.
Il midi della “colonna sonora” è preso da qui.

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Cose delicate

In teoria, l’ho fatta per la sera della Vigilia, che trascorrerò a casa di mia suocera. Per altro, gli stampi per realizzarla me li ha regalati lei per il mio compleanno.
Il problema è che al 24 mancano tre giorni, che mia suocera vive a 60 km da casa mia, e che questa casetta è molto, molto delicata. Così, faccio un uso privatistico del blog, e posto le foto a futura memoria. È che temo che la casetta non arriverà intera a casa di mia suocera, e allora voglio ricordarla così, com’era. Mi rendo conto che non è bella neppure la metà di quelle che si vedono in giro, fatte da gente brava, ma il pan di zenzero non è venuto male, via.
Domani il sospirato post su Spartacus che voglio scrivere da tipo tre giorni.

P.S.
“Christmas” Egg :P : un’intervista un po’ diversa dal solito.

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Il demone della perfezione

Quando diedi il mio ultimo esame di laurea, nel lontano 2003 – fisica stellare, per la cronaca – dopo che avevo risposto bene a tutto, il professore mi fece uscire, poi, dopo qualche minuto mi richiamò dentro.
«Le facciamo un’altra domanda» mi disse sorridente. «Lei sa perché, vero?».
Lo sapevo. Ero a tanto così dalla lode, che non avevo mai preso. Avevo preso 30, se non sbaglio a tutti gli esami di indirizzo, ma mai la lode. Tra me e quella parolina di quattro lettere, solo quell’unica domanda.
«Mi parli delle variabili RR Lyrae».
Non era una cosa difficile, era un argomento che conoscevo. Si dividevano in due gruppi.
«Dunque, le RR Lyrae si possono classificare in due gruppi: le ab, a periodo più corto, e…».
Il professore cambiò faccia.Perché le avevo invertite: le ab hanno periodo più lungo, le C più breve. Mi sorrise lo stesso, mi disse che non avrei avuto la lode, e mi mise 30. Così finiva la mia avventura in facoltà.
Questa scena, negli anni, si è ripetuta un’altra decina di volte. Dal prodotto tra vettori n dimensionali che secondo me aveva un corrispettivo fisico, alla domanda a piacere di Esperimentazioni di fisica 3, cui risposi parlando dell’unico argomento che non avevo capito del tutto. Probabilmente non reggo la tensione, oppure non lo so, sono ancor meno brava di quanto pensi, ma sempre, sempre mi capita, quando si tratta di mostrare di che pasta sono fatta, di sbagliare una piccola cosa, di non riuscire a dare il meglio. Passo poi i giorni successivi a rimproverarmi, a vergognarmi di quella cazzata che sarà uscita da chissà dove.
Il 10 novembre, quando ho discusso la tesi davanti alla commissione interna, per qualche minuto mi è sembrato di aver superato quella sindrome: è andato tutto bene, la commissione piacevolmente impressionata, nessuna sbavatura, nessuna domanda cui ho risposto balbettando. Tutto liscio, tutto bene. E per un istante ho pensato che me lo meritavo, che era la giusta ricompensa per il duro lavoro di quei tre anni, per i salti mortali dell’ultimo, per le riduzioni dati fatte tra una poppata e l’altra, le serate in università, le arrabbiature e le lacrime. E c’ho creduto, probabilmente è stato questo l’errore. Che ero al di là della china, e che il 19 avrei replicato.
Ieri è andata bene. Me l’ha detto il mio professore, me l’hanno detto tutti quelli che mi hanno sentita, me l’ha detto anche chi era presente alla discussione della commissione. Con l’inglese è andata liscia, sono andata spedita, non ho esitato, ho spiegato tutto chiaramente. Ma. Ma su due delle tre domande che mi hanno fatto ho esitato e nicchiato. Non ricordavo un valore usato nei modelli applicati nel mio lavoro – non li avevo calcolati personalmente io, ma un teorico – e ho mostrato incertezza sulla stima di un certo errore. Non è stato un problema, non per la commissione, almeno. Per me sì. Perché a tanto così da quel che desideravo per questo dottorato, al solito non ho dato il meglio. Mi sono fermata ad un nulla dal traguardo. Avrei voluto finire in bellezza, soddisfacendo prima di tutto me. E invece no, come del resto è stato in tutti questi otto anni di studio. Al rush finale arrivo sempre in affanno, e qualcosa mi frega.
Peccato. Sentivo di meritarmi qualcosa di più. Forse semplicemente non si possono fare tutte le cose che faccio, non bene almeno, forse è quello il mio meglio, e dovrei farmelo bastare. Ma il demone della perfezione è quel che mi ha portato dove sono.
Ecco com’è essere come me. Ecco cosa c’è dietro qualsiasi cosa abbia mai ottenuto in vita mia. La spasmodica ricerca di un risultato che non soddisfa mai. Perché sono fatta così. Perché forse è così che ti devi sentire se vuoi migliorare, è il prezzo da pagare per la possibilità di ottenere quel che vuoi.
Ieri sera ad un certo punto avrei voluto bermi una birra. Ma era già tardi, e da quando ho partorito sono diventata praticamente astemia, per cui alla fine ho rinunciato. Ma magari un sorso stasera me lo faccio. Comunque sia, è finita, e considerando le condizioni in cui ho lavorato, non era neppure una cosa scontata. E forse ad un certo punto uno deve anche accettare i propri limiti, e accontentarsi di quel che si ottiene.

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Tanti auguri, Irene!

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Ennesima comunicazione di servizio

Mi dispiace molto rifarmi viva solo per una comunicazione di servizio, ma per me è appena iniziata la tre giorni di fuoco. Domani Irene fa due anni, e il programma prevede torta al grano saraceno (fatta, ma manca la farcitura), decorazione della stessa con marzapane e pasta di zucchero (e stavolta mi do alle cose complicate, infatti speriamo bene…), festicciola con tutti i numerosi nonni & parenti, poi domenica gitarella fuori porta e lunedì, a cavallo del pranzo, difesa della tesi in inglese. L’ho già ripetuta un miliardo di volte, onde ottenere due effetti: essere il più fluente possibile con l’inglese, MA non fare l’impressione di una che s’è imparata tutto a memoria e se la fermi è perduta. Non è facile, ve lo assicuro. In tutto questo c’è anche il Natale di mezzo, per cui, nulla come al solito sto facendo un sacco di cose e non mi fermo un attimo. A volte vorrei avere un cervello che non lavorasse sempre a due miliardi di giri al secondo, ma tant’è, ognuno fa quel che può con quel che si ritrova.
Comunicazione di servizio, si diceva. Stasera, a meno delle solite catastrofi e/o cadute di governo e/o morti di ulteriori personaggi famosi dovrebbe andare in onda la mia intervista per il TG2, durante l’edizione delle 20.30. L’extended version, tipo Il Signore degli Anelli, andrà in onda in Mizar sabato notte, sempre su Rai2. Tutto qua. Buon week end, non vi dico ci sentiamo lunedì, perché quel giorno lì tutte le mie risorse saranno impegnate a non intrecciarmi la lingua mentre pronuncio “RR Lyra stars”. Ci si vede prossimamente!

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Game of Thrones

Finalmente, eccomi a parlare con un po’ di calma di Game of Thrones. Chi ha visto la mia intervista di martedì, già sa la versione breve del tutto. I tempi televisivi però non mi hanno permesso di approfondire il giudizio, che, ve lo anticipo, è un po’ più complesso.
È innegabile che Game of Thrones sia un prodotto che rasenta la perfezione. La fotografia è qualcosa di straordinario, per dire. Ottima la regia, solida e ben scritta la sceneggiatura. Sulle interpretazioni, abbiamo in realtà un po’ di alti e bassi, ma i bassi non sono poi così bassi e gli alti sono vette assolute. Tyrion è il mio personaggio preferito della saga – io ho letto solo il primo libro, dove per primo intendo in realtà i primi due dell’edizione italiana – evidentemente ho una predilezione per i nani :P (vedi alla voce Ido…), è Peter Dinklage è assolutamente straordinario, lui è Tyrion, anima e corpo. Già solo la sua voce mi ha dato i brividi la prima volta che l’ho sentita, e Sean Bean è Sean Bean, pure lui è un Ned perfetto. Bravissima anche Emilia Clarke, una Dany convincente, forte e fragile al tempo stesso, così come Harry Lloyd, un Viserys magistrale. Mi cascano un po’ invece Cersei (perché quella perenne aria da mal di pancia?) e soprattutto Jon Snow; spiace dirlo, ma Kit Harigton è tipo l’uomo meno espressivo della storia. Il casting, comunque, è in generale di alto livello, anche se Sansa è brava, ma poco bambolina di porcellana e Catelyn ha troppo l’aria da operaia. Menzione di merito alla sigla, una delle cose più belle viste di recente, e per la musica, fantastica, e per l’animazione, meravigliosa. Per altro l’idea di far vedere la mappa del mondo durante la sigla è veramente una genialata.
Tutto perfetto, quindi? M’è piaciuto un sacco e morta là? No. Perché, nonostante l’altissimo livello del tutto e la considerazione che evidentemente non si poteva trasporre A Song of Ice and Fire in modo migliore, la serie non mi ha appassionata davvero. In un paio di episodi mi sono trovata lì a sbadigliare, e comunque il grado di coinvolgimento che ho provato per i vari personaggi non è stato particolarmente elevato. Intendiamoci: mi è piaciuta, ma non mi ha entusiasmata. Il motivo è presto detto: non sono una grande estimatrice dei libri. Non è un caso che mi sia fermata a Game of Thrones e non abbia proseguito. Anche qui: riconosco il genio di Martin, la capacità di creare personaggi credibili, un mondo coerente, ma quel genere lì che fa lui non mi appassiona. L’impressione generale che ho avuto dalla lettura è stata di un’enorme digressione che non arrivava mai al punto. Uno legge il prologo oltre la Barriera e si esalta, pensando che a breve si scatenerà l’inferno. Invece no. Invece l’azione si sposta sugli intrighi intorno al Trono di Spade. Idem con patate per l’Inverno: “winter is coming” ma tutto sommato non arriva mai. Ora, io capisco che le pedine vadano disposte sul campo, e che ci voglia del tempo. I pezzi però, per i miei gusti, si muovo a lentezza straziante. Tutto molto bello, per carità, ma lento. Senza contare che Martin segue da vicino una decina o forse più di personaggi, alcuni dei quali, almeno fin dove sono arrivata io, possono risultare poco interessanti al lettore. Il risultato era che ogni tot pagine dovevo sopportare punti di vista ai quali ero pochissimo interessata. L’altra cosa che non mi piaceva particolarmente era il fatto che l’azione fosse relegata off screen: esempio classico, il primo scontro tra Rob e l’esercito dei Lannister. Ora, che nella serie televisiva la battaglia venga omessa lo posso anche capire: le scene di massa costano, quindi mi sembra ragionevole che per risparmiare le si salti. Ma nel libro francamente non capisco bene perché per una volta non possa vedere eserciti che si picchiano, tanto più che c’è un discreto climax intorno alla suddetta battaglia. Preciso, è probabilmente una questione di gusti personali, non sto parlando di difetti assoluti, ma di “difetti rispetto al mio gusto”, ecco.
Ora, la serie televisiva ricalca in modo incredibilmente fedele il libro di Martin, e dunque ai miei occhi soffre degli stessi problemi. Non succede granché, per dire, alla Barriera, e gli eventi sono diluiti su un lungo arco narrativo. Al contempo, snodi che erano trattati egregiamente nel libro nella serie sono un po’ poco riusciti: non è del tutto chiaro perché Dany si trasformi da vittima del fratello in regina consapevole e forte. Nel libro la cosa era evidente, qui sembra che il punto di svolta sia la scoperta di una nuova posizione del Kamasutra col marito.
Comunque. La bellezza della confezione alla fine la vince, e seguirò sicuramente anche la serie successiva. Però non è una di quelle cose per le quali il mio hype sia particolarmente alto. L’unica cosa positiva è che A Clash of Kings io non l’ho letto, quindi quanto meno la trama sarà nuova, per me.
Perfetto, è tutto. Adesso linciatemi pure :P

P.S.
In coda vi segnalo anche una simpatica intervista che ho fatto con la Testa e il Corpo di Chiara Gamberale, per il programma di Radio2 Io, Chiara e L’Oscuro. La trovate qua.

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L’ovvio che ovvio non è

Fa specie dover ripetere per l’ennesima volta l’ovvio. Che poi forse appare ovvio solo a me. O forse, non so, è necessario continuare a dire quel che ho già detto così tante volte…perché, cavoli, la situazione sta peggiorando, invece di migliorare, e sembra che le parole spese cadano nel vuoto.
Non ci possiamo permettere il lusso di considerare Casseri un folle isolato. Non voglio negare che alla base di un gesto come il suo debba esserci una componente patologica, ma ce n’è anche una sociologica, ed è su quella che dobbiamo interrogarci. Perché Casseri poteva esprimere il suo disagio prendendo ad accettate il vicino di casa, e per noi in quanto società avrebbe significato una cosa, o sparandosi e basta. Invece ha ammazzato delle persone del Senegal. Non sua mamma, non il suo vicino di casa. Due persone che ai suoi occhi erano altre e nemiche.
L’ho già detto nel caso di Breivik, e la cosa tremenda è quel che dissi allora si può ripetere parola per parola anche nel caso di Casseri. Non possiamo dire che il clima d’odio che è stato coltivato in questi anni non c’entri. Non possiamo dire che far sedere in parlamento gente che il giorno prima dava fuoco alle baracche dei rom non abbia alcun collegamento con questi ripetuti fatti di cronaca. La soglia del tollerabile nel dibattito pubblico s’è spostata sempre più in là, e cose che dieci anni fa erano indicibili, se non volevi che la gente ti tirasse giustamente i pomodori, adesso sono oggetto di campagna politica dei partiti.
Si pone l’accento sul fatto che Casseri fosse uno scrittore appassionato di fantastico. E si dice che tanta destra s’è indebitamente appropriata del fantastico per nutrire la propria simbologia. Che è vero. Ma qui secondo me il problema è l’appropriazione indebita, appunto: il fantastico non ha in sé alcunché di “ontologicamente” di destra. L’ambientazione in un passato mitico, l’importanza dell’azione del singolo, l’esaltazione di certo eroismo non sono altro che contenitori, che ogni autore riempie dei contenuti che gli appartengono. Anch’io un bel giorno mi sono chiesta, dopo un’intervista, se parlare di eroi che salvano il mondo non sia fascista. E la risposta che mi sono data è no. O quanto meno non sempre. Dipende dai tuoi eroi, dallo sguardo che hanno sul mondo. Una lettura fascista del fantastico è una lettura superficiale ed estremamente parziale, fatta da un’occhio che sa già dove guardare e cosa cercare. E al fianco di questi elementi che possono sembrare “di destra”, ce ne sono altri che fanno molto più “sinistra”: l’ambientalismo, la convivenza tra diverse razze, la diversità. La continua tirata anti-razzista (i Mezzosangue, l’ossessione per la purezza del sangue di mago di Voldemort) della Rowling vi sembrano di destra? Ma anche il povero Tolkien, tirato in mezzo sempre la giacchetta in queste storie, decide di prendere a modello di eroe non un arianissimo stangone che mena come un’ossesso, ma un panzuto mezz’uomo, che praticamente non impugna mai la spada in 1200 pagine di libro, accompagnato dal fido…giardiniere. E persino i cattivi hanno qualcosa di buono (vedi alla voce Gollum).
Poi, mi rendo conto che fa molto più figo dire che Casseri ha fatto quel che ha fatto perché il fantastico aliena la gente dalla realtà, e via di banalità in banalità (tra l’altro qualcuno lo definisce depresso, un altro immancabile topos della narrativa giornalistica contemporanea: i depressi non sono quelli che vivono un inferno quotidiano in cui le uniche vittime sono loro stessi, è gente che va in giro ad ammazzare altri). Dirci invece onestamente che è roba come questo manifesto che dà una giustificazione a molte mani armate, e che nessuno di noi è assolto è molto meno divertente e fa più male.
Eccomi qua, vittima del mio stesso personaggio. Oggi avrei voluto dirvi finalmente in modo più diffuso la mia opinione su Games of Thrones, dopo l’accenno che qualcuno di voi ha sentito ieri a Buongiorno Cielo. Invece sono ancora qua, a parlare di gente che ammazza altra gente perché diversa. E il cerchio si sta stringendo, non vale pensare “non sono negro, non sono musulmano, non sono omosessuale”. I diversi, i nemici, siamo ormai tutti, e presto verranno coi forconi anche sotto casa nostra.

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