Dovrei inaugurare una nuova rubrica: cose che non dovrei dire. Ci dovrei mettere dentro tutti quei post come questi, che non hanno tanto un contenuto particolarmente schietto o orginale, ma sono ad altissimo tasso di polemica. E siccome per me la rete ha principalmente un aspetto ludico, non ho voglia di farmi il fegato grosso. Ma, evidentemente la mia lingua è più rapida del mio fegato, e quindi nulla, vi beccate una riflessione polemica.
Ieri è partita una lunga discussione sul mio profilo Facebook. Si parlava di critica letteraria. E io ho detto una cosa che mi stava sul groppone da qualche settimana, da quando ho letto di una polemica abbastanza inutile circa un premio letterario.
Non parlerò di critica accademica, perché è un ambiente che non conosco a sufficienza, e che mi sembra anche giocare in un altro campionato rispetto all’argomento della discussione. Parlo di blog, perché li conosco decisamente meglio. Di letteratura, in rete, si parla tantissimo. I blog letterari sono anche un po’ la moda del momento. Anch’io faccio critica sul blog, anche se mi esercito più che altro coi telefilm e i film.
All’interno dei blog letterari ce ne sono però alcuni che condividono una certa impostazione di base e una similitudine nei contenuti. Fino a qualche tempo fa credevo che tale sottogruppo provenisse direttamente dai ranghi degli appassionati di letteratura di genere, ma non è così. Le loro recensioni riguardano un po’ tutto. E i recensori non sono solo ragazzi giovani, ma anche gente che scrve su qualche testata. Ho dato un nome al genere letterario di questa corrente: recensione consolatoria.
Passo indietro. Per lungo tempo s’è parlato, e si parla ancora, di romanzo consolatorio, ove per esso s’intende una tipologia di narrazione che piuttosto che indurre il lettore alla riflessione, ad un approccio problematico nei confronti della materia trattata, preferisce semplificare tutto e, in ultime analisi, dare al grosso pubblico ciò che – si suppone – il grosso pubblico ama. Quindi una visione estremamente semplificata dell’esistenza, dei rapporti tra bene e male, una visione tutto sommato rassicurante della vita, in cui tutto è netto e in cui l’etica è cristallina. Chi legge il libro ne esce consolato, appunto, ma di una consolazione effimera e fittizia, perché quel che legge non è un’analisi della realtà, ma l’equivalente cartaceo della pacca sulla spalla quando ti confidi con un amico, dell’”andrà tutto bene” quando invece le cose stanno andando malissimo.
Ecco, secondo me non esiste solo il romanzo consolatorio – che, va da sé, quasi sempre è identificato col libro di successo, che, per carità, è vero spesso, ma non sempre e non automaticamente – ma anche la critica consolatoria, ossia la critica che ti conferma nel pregiudizio che già hai su un libro. Una critica del genere tipicamente non è interessata a dare un reale parere al lettore; serve piuttosto a riconoscersi tra simili, a marcare il territorio. “Anche a me ha fatto schifo Cinquanta Sfumature di Grigio, proprio come a te, e ti dirò di più, noi che non lo apprezziamo siamo meglio dei altri, perché siamo più colti/intelligenti”. La consolazione sta tutta qua: la recensione permette di sentire di appartenere ad una sorta di élite, ci conferma nella nostra autostima, ci esalta perché ci dice che non siamo come “gli altri”, siamo meglio. In qualche modo, esattamente come il romanzo consolatorio, anche la recensione consolatoria dà al lettore ciò che il lettore cerca. Tipicamente, chi legge queste recensioni lo fa per essere confermato nella sua opinione, anche se spesso quest’opinione è un preconcetto, perché il libro non lo si è neppure letto.
La recensione consolatoria è ormai un vero e proprio genere letterario, con tutta una serie di topoi da rispettare. Innanzitutto, il tono sprezzante e di evidente superiorità del recensore nei confronti della materia recensita. Tale tono viene ottenuto soprattutto tramite l’ironia e la presa in giro dell’opera e dello scrittore. Non devono mancare le citazioni dal testo, a volte presentate senza alcun commento – perché si suppone che i loro difetti parlano da soli – a volte accompagnate da una disamina che fa ampio riferimento ai manuali di scrittura creativa. Molto spesso le frasi sono completamente avulse dal contesto e citate un po’ a caso. Quasi sempre, i pezzi sono satirici, ironici, e inducono alla risata.
A questo punto, confessione: eoni fa, ne ho scritte anch’io di recensioni così. Ok, non ho mai offeso lo scrittore o i suoi lettori, ma qualche stroncatura ridacchiante l’ho fatta. È divertente, e in linea di massima sono cose che attirano i lettori, ti portano valanghe di like e applausi scroscianti del pubblico. Se ci fate caso, il vizio non mi è del tutto passato, perché alcune recensioni di film e serie televisive che faccio stanno proprio sull’orlo tra la recensione consolatoria e la recensione e basta. Solo che poi, non lo so, m’ha stufato? Mi sono sentita chiamata in causa perché sono passata dall’altra parte della barricata? Non lo so. Ne avrà scritte due, poi ho smesso.
Ovviamente, non sto dando un giudizio di merito. Ve l’ho detto, queste recensioni sono divertenti da scrivere e garantiscono molti commenti, e molti apprezzamenti. Che poi, secondo me, è la ragione per cui vengono redatte. Ognuno si diverte come preferisce, e non sarò io a imporre paletti. Certo, la maleducazione, l’insulto e la mancaza di rispetto per le persone non mi piacciono, ma finché non si scantona nello stalking telematico e nella persecuzione, direi che si tratta solo di chiacchiere, come del resto il 90% delle cose che si dicono online, che non smuovono di una virgola l’opinione preconcetta di nessuno. Basta solo essere onesti, e sapere cosa si sta facendo: non si sta davvero recensendo un libro, si stanno facendo quattro risate alle spalle di un autore e delle persone che lo seguono.
Per tutti quelli che se la prendono, scatenando flame che fanno la gioia dei recensori: ripeto, sono chiacchiere. La maggior parte delle discussioni online non hanno realmente lo scopo di indurre al confronto. L’ho detto molte volte, e lo ripeto: i blog – questo compreso, probabilmente – sono l’equivalente dello Speaker’s Corner di Hyde Park. Uno vuole solo predicare e farsi applaudire. Stop.