Archivi del mese: settembre 2013

Cafés Littéraires de Montélimar

Bonjour. Pardonnez mon français, je l’ai étudié à l’école, mais il y a beaucoup de temps que je ne l’écrive et ne le parle plus, donc je suis en peu rouillée :P .
Je voudrais seulement vous dir que cette semaine je serais en France; vous pourrez me rencontrer aux Cafés Litteraires de Montélimar. Le rendez-vous est pour Samedi 5 octobre, au Salon d’Honneur de l’Hôtel de Ville, 10h00. Le médiateur il sera Julien Bétan et traduira en français Marie Pagnota. Nous parlerons de La Fille Dragon.
Je vous attends!

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Quel momento irripetibile

Come succeda coi figli, non lo so ancora esattamente. Ho vissuto la cosa dall’altra parte della barricata, ma guardare la velocità spaventosa con la quale crescono, con la quale passano dall’essere bisognosi di tutto a farsi la prima chiacchierata via telefono con un’amica, credo di aver capito un po’ come funziona. Ad un certo punto, semplicemente, ti devi arrendere. Hai fatto quel che potevi, e i tuoi figli ormai sono grandi. Non hanno più bisogno di te che gli fai da scudo contro il mondo, e sono pronti per andarsene in giro da soli, per essere adulti davvero. E non puoi chiuderli dentro casa, e far finta che sia tutto come quando gli cambiavi i pannolini. Hai fatto quel che potevi, hai cercato di dar loro tutti gli strumenti necessari per cavarsela, per viversi la loro vita. Li devi lasciare andare, anche se è doloroso, anche se hai ancora bisogno di loro, o hai paura di non aver fatto tutto quel che avresti dovuto.
Ecco. Lo so che è il paragone più trito della storia della letteratura, ma coi libri è esattamente così.
Ieri sera ho iniziato la correzione delle bozze, l’ultimo atto che prelude alla stampa, e dunque alla vita adulta del libro. E vi assicuro che fino a ieri pomeriggio dentro di me sentivo che c’era ancora un sacco di lavoro da fare, che mancava omogenieità, che quel passaggio psicologico lì andava approfondito di più, che questa scena avrei potuto descriverla meglio…E invece, mentre leggevo i primi venti capitoli di Nashira 3, improvvisamente mi sono accorta di una cosa: che ormai era un libro. Non era più una bozza, un insieme di capitoli di rivedere, una storia con delle cose ancora fuori posto. Era proprio in libro. Pronto per andare in giro per il mondo. E quando uno scrittore dice che un libro, una volta stampato, non gli appartiene più, non sta facendo allegoria di bassa lega, sta esprimendo una cosa vera, provata. Perché una volta che l’hai stampato, al libro non puoi più metterci mano. È così, è giunto alla sua forma definitiva, quella sulla quale non hai più potere. Se ne andrà per il mondo, ognuno ci leggerà quel che vorrà, ognuno lo capirà a modo suo, e tu non ci potrai più fare niente.
Hai fatto tutto quel che potevi? E chi lo sa. Ma fare altro non servirebbe più niente, se non a stuzzicare il tuo ego, a rimandare l’inevitabile: il momento in cui la tua storia sarà un libro, e dunque incontrerà il lettore.
Paranoie ne avrò ancora a non finire; del resto, sto continuando a spostare un verbo qua, togliere un aggettivo, cambiare un nome. Ma il libro ormai è grande, e se lo tengo ancora qua con me, se insisto a lavoraci su, rischio di tarpargli le ali, come quei figli che non hai il coraggio di lasciar andare via, e allora te li tieni lì stretti al petto fino a quando diventano incapaci di cavarsela da soli. Nashira 3 se ne deve andare per il mondo, non c’è niente da fare. È arrivato il momento.
Soddisfatta è una parola grossa, che credo non sarò mai in grado di usare applicata a qualsiasi prodotto della mia mente. La soddisfazione non è roba di questo mondo. Ma dentro c’è quel che volevo metterci, e mi appartiene ad un livello profondo. Parla delle mie speranze, delle persone che ammiro davvero, di cosa vorrei da questo mondo.
E allora va bene così, non dev’esserci altro. Immagino che entro fine settimana avrò finito di spostare le virgole, e il testo se ne andrà a Clés, in quel posto lì dove i files diventano libri. Da lì in poi, io non c’entretò più nulla. C’è niente di più spaventoso ed esaltante di questo?

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Lucca & Nashira 3

Volevo farvi un pippone sul razzismo e sul femminismo, ma a salvarvi mi è giunto un messaggio FB, stamane, e quindi, niente, pippone rimandato :P .
Abbiamo le date ufficiali dei miei incontri a Lucca Comics & Games. Gli appuntamenti sono due: il primo è venerdì 1 novembre, ore 15.00, Auditorium San Girolamo. Si tratterà di una tavola rotonda sul fantasy cui parteciperanno anche Vanni Santoni, Emma Romero, Francesco Falconi e Leonardo Patrignani. Il secondo appuntamento, stavolta per parlare di Nashira 3 – Il Sacrificio è per domenica 3 novembre, ore 14.00, presso l’Auditorium San Romano. Nel mezzo, firme copie e cose così. Forse faccio un cosplay, almeno sabato. Una cosa semplice messa insieme in due minuti con la roba che trovo dentro casa. Così, perché quella dimensione della mia vita mi manca davvero da morire, sob…
Vi dico anche un’altra cosa, via: chi mi segue su Facebook già lo sa, ma esiste una data di uscita del mio libro. Dovrebbe uscire il 29 Ottobre. Preciso preciso per Lucca :) . Sappiate che ha anche una copertina davvero favolosa, che spero di potervi far vedere prossimamente.
Bon, tutto qua. Io ovviamente sono già in paranoia da libro nuovo (piacerà? Non piacerà? Perché se passa più di una settimana da quando scrivo una cosa, già vorrei riscrivere tutto da capo?) e sono piuttosto ansiosa di sapere cosa ne penserete voi. Succedono…cose…ho fatto un mezzo esperimento e son finita a trattare un tema anche un po’ controverso, via, almeno per come la vedo io. È un libro di svolta, ecco. E non sarà l’ultimo: Nashira conterà 4 libri, per cui non venite a cercarmi sotto casa coi forconi quando arriverete al finale :P .
Torno a fare l’ultima tornata di correzione di bozze :) .

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Forse è solo l’età

Non se sia solo una caratteristica dell’età, come essere appassionati quando si è adolescenti, frettolosi di crescere quando si è bambini, e via così, ma da quando ho compiuto trent’anni a torto o a ragione ho iniziato a convincermi di aver raggiunto la mia forma definitiva, fisica e spirituale. Non intendo dire che poi non mi verranno le rughe, e le esperienze di vita non mi arricchiranno più. Solo che credo di aver raggiunto quel paio di punti fissi necessari per definirsi più o meno adulti. Tra questi punti fissi, c’è la generale bonarietà del mio carattere nei confronti dei miei simili e dei miei colleghi. Intendiamoci, ci sono dei momenti in cui sono veramente insopportabile con la gente cui voglio davvero bene, e non posso dire di avere davvero un buon carattere, considerando gli scatti d’ira, le incazzature inutili e le paranoie. Solo che fingo bene di essere normale, e lo faccio da così tanti anni che credo di apparire, ad una prima conoscenza, una persona tutto sommato accomodante. Il bello è che alla fine non devo sforzarmi neppure troppo ad esserlo: la gentilezza con gli sconosciuti, l’umiltà, la cortesia, sono cose la cui pratica mi mette di buon’umore. Fino a qualche tempo fa.
È un po’ che mi sono accorta che il mio grado di tolleranza nei confronti del genere umano sta calando vertiginosamente. Per esempio, ieri sera non riuscivo a dormire per una serie di sfighe che esulano dal post, per cui mi sono alzata e mi sono messa a vagare in rete. Qualsiasi cosa leggessi su Facebook mi irritava, dal commento meramente personale, all’articolo linkato col quale non ero d’accordo, all’ennesima bufala proparlata ovunque. Mi irritano le polemiche, mi irritano le opinioni, mi irritano gli atteggiamenti della gente. Mi irrita chi muove il culo per manifestare solo quando si tratta di roba che entra nel perimetro ristretto del suo giardino, e poi se ne frega quando in gioco ci sono questioni più grandi, che magari non lo interessano direttamente. Mi irritano le inutili dispute scienza/religione, di cui abbiamo le palle veramente, ma veramente piene. Mi irrita il razzismo della gente del mio quartiere, i toni saccenti di chi si ritiene sempre superiore a tutti. Non che questo poi si traduca in qualcosa di più concreto di una vaga irritazione che mi tengo dentro, e che al massimo paleso con Giuliano, o coi miei. Continuo a sorridere, a chiedere scusa anche quando la colpa è degli altri, a mantenere la calma in pubblico, perché non ho voglia di far casino, perché la gente che s’incazza per ogni minima cosa e se la prende con chi lavora m’ha sempre dato ai nervi. Ma, dentro, sto diventando una persona astiosa, e non so se è colpa di Internet o è un preludio a quel che diventerò di qui a qualche anno: una vecchietta incazzata col mondo. O forse è una versione modificata e sviata della ghiandola del veleno, che dopo dieci anni di onorata carriera ha deciso di manifestarsi anche in me. Del resto, comincio a provar fastidio anche verso tanti discorsi che si fanno intorno ai libri e agli scrittori.
Non so esattamente come porre rimedio. L’ultimo tentativo è quello di stare di meno online. Fino a quando non c’era la rete, avevi la vaga percezione che, da qualche parte, ci fossero degli imbecilli, ma, in linea di massima, non avevi con loro alcun contatto diretto. Con la rete li vedi in faccia e ci parli ogni giorno. Forse il problema è questo. Per cui studio per il mio corso sub, leggo tantissimo, mi do alle avventure grafiche. Ma il mondo è comunque appena fuori dalla finestra, con le sue meschinità, le sue piccinerie, le sue cattiverie gratuite e tutto quanto di male sappiamo farci l’un l’altro.
Sto cercando di educarmi ad una certa tolleranza. Ma non è facile. Forse è solo l’età.

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Finzioni

Sono diventata una spettatrice di Realtime. Non so se debba vergognarmene o meno. La tv mi serve sostanzialmente per mettere a riposo il cervello quando sono troppo stanca per fare qualsiasi altra cosa, e guardare torte monumentali e vestiti da sposa in genere è in grado di sortire l’effetto desiderato. Comunque, il punto non è questo.
Qualche settimana fa girava il promo di una nuova trasmissione. Prima ti facevano vedere uno studio televisivo, poi interrompevano la trasmissione e dicevano qualcosa: “basta con gli studi televisivi, va in onda la verità”. Il programma pubblicizzato era un qualche reality estremo americano, in cui la gente andava a raccontare segreti di famiglia e ci faceva i conti.
Come mio solito, la cosa ha indotto la mia testa a fare voli pindarici.
La tendenza si sta un po’ invertendo, ma per molti anni la tv è stata invasa dai reality di vario genere. Ha iniziato il Grande Fratello, poi se ne sono aggiunti tonnellate e tonnellate di altri, sugli argomenti più impensabili. Adesso va più il docu-reality, ma siamo sempre lì: la gente vuole la “verità”. E come si arrabbia se viene fuori, che so, che quelli di Forum sono tutti attori, e quel caso umano così commovente in realtà non è mai esistito!
Io tutta questa fissazione per la “verità” non l’ho mai capita. Diciamocelo, vivere la vita in prima persona è interessante, ma guardare dall’esterno le vite degli altri è mediamente palloso. Lo capivano quelli che avevano Mediaset Premium e si guardavano Il Grande Fratello 24/7: per lo più era noia pura, perché la vita è anche noia, poco da fare. Non credo trovereste granché interessante guardarmi adesso, mentre passo la mattinata a scrivere. Poteste stare nella mia testa, ci sarebbe da divertirsi, ma guardarmi da fuori non ha alcun interesse.
Personalmente, preferisco d gran lunga la finzione. Il che è abbastanza ovvio, considerato il lavoro che faccio. Non so, non trovo nulla di realmente interessante in un privato esibito così, senza filtri e senza alcun tipo di stimolo alla riflessione, sbattuto in tv in varie forme e con pretese di realtà che sono semplicemente ridicole. C’è sempre una telecamera, da qualche parte, e le persone in scena lo sanno; per questo non saranno mai realmente e davvero se stesse, anche se non ci fosse dietro comunque un team di autori e una sceneggiatura. La letteratura, invece, è tutto un discorso intorno alla finzione. Le storie non sono “vere”, almeno nella maggior parte dei casi, sono frutto dell’invenzione dell’autore. Spesso, anche quando il sostrato è reale, c’è di mezzo la sensibilità dell’autore che filtra, dà un’impronta piuttosto che un’altra ai fatti. Eppure, io trovo molta più verità in un libro qualsiasi che nell’ennesimo reality in cui c’è qualcuno che confessa i suoi terribili segreti.
Lo dicevo anche l’altro giorno a Pordenone. Ciò che più mi attira del fantasy – e dell’inventare storie in generale – è la possibilità di piegare il reale ai tuoi scopi. Nel fantasy questo avviene all’ennesima potenza: non sei solo padrone dei tuoi personaggi, ma anche del mondo nel quale si muovono. Sei tu che fai le regole e decidi cosa esaltare e cose invece mettere in ombra.
La realtà è multiforme, cangiante, immensa. Quando ti ci imbatti, quando la guardi senza filtri, è difficile comprenderla, perché è irriducibile in unità. Grandi tragedie sono venute fuori da interpretazioni semplicistiche della realtà. La letteratura invece è sempre un discorso sulla realtà: l’autore ne prende un pezzo, lo illumina col faro personale della propria sensibilità, della propria poetica, e te lo porge. Senza pretese di assoluto. È il suo punto di vista. Ma è comunque una riflessione. È un po’ come se i libri prendessero il meglio dalla vita, via le parti noiose, e ne distillassero solo quel che può interessare nell’ottica di una certa riflessione. È la ragione per cui un libro arricchisce la nostra esperienza di vita – se è un buon libro, certo – e un reality lascia un po’ il tempo che trova.
Ogni tanto, comunque, ficcanasare nelle vita degli altri produce un certo grado di soddisfazione. Il pettegolezzo nasce per questo. Ma è cosa meschina e di breve durata. Per questo, negli ultimi tempi, sto segando sempre più tempo a internet e a quel po’ di televisione che guardo: meglio un buon libro e una buona storia.

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Grazie Pordenone, e un paio di news

Dunque, ieri ho fatto un blitz lampo a Pordenonelegge. Non era la prima volta che andavo e sapevo già più o meno cosa aspettarmi, ma devo dire che la preparazione, la gentilezza e la capacità organizzativa stupiscono sempre in positivo, anche quando sono già attese. Sì, Pordenonelegge è proprio organizzato bene, da gente capace, simpatica e gentilissima, e partecipare è sempre un piacere. Io poi giocavo in casa, visto che durante il mio evento ero in compagnia di amici.
Per cui, nulla, questo post sta qui solo per ringraziare tutti gli organizzatori di Pordenonelegge per l’invito e la precisione, e per ringraziare tutti quelli che ieri hanno voluto partecipare al mio evento. A me è piaciuto molto, spero sia stato lo stesso anche per voi.
Incidentalmente, vi do una mezza notizia: Nashira 3 – Il Sacrificio uscirà per fine ottobre. Siamo in dirittura d’arrivo, insomma. Sarà pronto per Lucca, alla quale, ve lo confermo, parteciperò, con un evento nel fine settimana, e forse un’altro il venerdì. A breve tutti i dettagli definitivi.
Infine, vi lascio con qualcosa da guardare: il mio intervento a Anteprime 2013. La cosa è interessante perché si parla proprio del terzo libro di Nashira, che, ve lo ricordo, non sarà l’ultimo. Ne leggo anche un pezzettino…

P.S.
Nel video dico una cosa sbagliata; pianeti come Nashira esistono. Conoscevo quest’articolo, non so come mai non mi sia venuto in mente…

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Forze (e presentazioni)

Innanzitutto, visto che domani la presentazione è sul presto, ve la ricordo oggi: per chi vuole/è in loco, ci vediamo domani 18 settembre, ore 10.30, al Palaprovincia di Largo San Giorgio per una discussione sul fantasy assieme a Francesco Gungui e Sandrone Dazieri, il tutto nella cornice di Pordenonelegge. Vi si aspetta!

Ieri confesso di aver seguito a spizzichi e mozzichi la diretta delle operazioni di recupero della Costa Concordia. Non mi sembrava di fare un gran peccato, ma la rete non era molto d’accordo: le battute ironiche o scandalizzate si sono sprecate un po’ per tutto il giorno.
Sgombriamo il campo dagli equivoci: la spettacolarizzazione di tutto ciò che è ruotato e ruota ancora intorno all’incidente della Concordia non si può che deprecare. Sono morte delle persone, l’inseguimento ai parenti delle vittime e ai sopravvissuti per far loro domande dal profondo significato giornalistico del tipo “come si sente?” sono l’ennesima mancanza di rispetto nei confronti dell’altro che è un segno caratteristico di questi tempi. Ma.
Ma sembra che molti non abbiano compreso appieno il senso dell’operazione che, vivaddio, si è conclusa con successo ieri. Ho sentito parlare di operazione banale e cose del genere.
Lo ammetto, la fisica ti combina qualcosa al cervello, non lo so, e buona parte del mio interesse per la faccenda riguardava gli aspetti meramente tecnici e ingegneristici. Non era affatto un’operazione banale, perché le incognite erano moltissime (una nave non è fatta per star sdraiata su un fianco per 20 mesi, l’acqua di mare corrode il metallo, e le forze cui è stato soggetto lo scafo durante tutta la manovra di sicuro non erano quelle per le quali era stata progettata per resistere) e si è trattato dunque di un successo senza precedenti. Nessuno aveva mai fatto prima una cosa del genere (non con una nave di quelle dimensioni, se avete mai fatto una crociera o avete visto una di quelle navi in porto capite cosa intendo), e ci siamo riusciti.
Ed ecco il senso che dicevo, il significato simbolico di queste venti ore che, mi par di capire, agli italiani siano passate indifferenti.
Dopo il disastro della Concordia, con tutto quello che ha significato anche in termini di danno d’immagine all’estero – oltre alla tragedia umana, che viene prima, ovviamente – si trattava di riparare, di far qualcosa di grande e farlo assieme. Si trattava di restituire il Giglio ai suoi abitanti e all’Italia tutta, si trattava di mostrare che è possibile aggiustare le cose, che sappiamo farlo anche noi. Dopo tonnellate di cose abbandonate a se stesse negli anni – i terremotati di ogni luogo, e soprattutto L’Aquila, ad esempio, completamente lasciata al suo destino – finalmente ci prendevamo le nostre responsabilità agivamo e lo facevamo con successo. E non è poco. Pensate alla retorica stratificata negli anni, presso gli italiani stessi, prima ancora che presso chi ci guarda all’estero: l’italiano disorganizzato e furbo, pasticcione, il “queste cose noi non le sappiamo fare”, il “può succedere solo in Italia”. E invece abbiamo realizzato un’opera d’ingegneria assolutamente inedita, abbiamo girato il colosso, non ci sono stati ulteriori danni ambientali. E siamo i primi a farlo. Siamo orgogliosi? No. Ce ne frega pressoché nulla. Preferiamo andare avanti con le polemiche: “solo in Italia possono fare una diretta di venti ore su come girare un pezzo di ferro”, ignorando che i giornalisti accreditati al Giglio vengono da tutto il mondo.
Io non ho mai creduto al patriottismo, al senso di appartenenza alla terra e alla nazione, mi sembrano cose buone solo per tracciare un confine tra noi e loro e farci guerra. Ma credo al senso di appartenenza ad una comunità civile, che assieme lavora per un comune progresso, che abbia ricadute su tutti. E questo senso di comunità ci manca completamente. Sarà la nostra storia, saranno i campanilismi, o sarà solo l’abitudine a considerarci peggio di chiunque altro, a vedere tutto buio. Ma ieri, pur nella tragedia, nell’errore, nella morte, è successa una cosa bella. Senza isterismi, senza spettacolarizzazioni, ci sarebbe da rallegrarsi. Si può fare, insomma. Si possono fare tante cose se ognuno fa onestamente la sua parte e s’impegna.
Forse il busillis è qua. Nessuno la vuola fare, la sua parte. Fa fatica. E anche sperare è un salto nel buio: e se poi va male? E se mi sono solo illuso?
Non so, tutto questo mi fa un po’ di tristezza. Come l’immagine venuta alla luce stamattina all’alba, di quelle cabine distrutte dalla forza della pressione, in cui un tempo la gente s’è divertita, ha passato momenti di gioia, e in cui qualcuno, 20 mesi, è morto. Ma non tutte le forze sono ineluttabili, ogni tanto ce lo dovremmo ricordare.

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La stagione migliore

Credo di averlo già detto parecchie volte, ma la scuola m’ha cambiata per sempre. Qundo ero studentessa (non unversitaria, l’università poi scombina tutto), per me l’anno finiva e ricominciava a settembre. I tre mesi di vacanza estiva erano una cesura netta, avevo quell’esaltante impressione che durante quel periodo succedesse di tutto, e che tutto avvenisse in una specie di sospensione del tempo. L’estate era fuori dal flusso normale delle cose, e quel che vi accadeva faceva parte di una timeline parallela. Lasciamo perdere che il massimo che succedeva era poi di andare al mare in Campania invece che in Calabria, o che m’innamorassi di uno che si chiamava Giovanni e faceva il militare piuttosto che Peppino, di professione animatore. Tutto era particolare, nella mia fantasia.
Poi, appunto, è arrivata l’università, e la mia prima estate da aspirante fisico la passai a preparare Analisi I nell’Hortus Conclusus di Benevento. L’11 settembre il mondo cambiò, e realizzai che un’epoca della mia vita era finita. L’unica cosa che non cambiava era che per me a settembre iniziava l’anno nuovo.
Sarà perché amo il freddo, sarà perché adoro l’autunno, ma settembre rimane per me il mese del ritorno alla vita. Mi piace sentire il traffico che riparte nella città, dopo gli scenari post-apocalittici dell’agosto romano. Che ha i suoi vantaggi, per carità – piacerebbe a tutti metterci 40 minuti per andare da un capo all’altro della città – ma ha un che di morte, di abbandono, che non mi piace mai davvero. Mi piace il primo acquazzone di metà agosto, mi piace quando, non appena sorge l’arcobaleno, senti chiaramente che non fa più caldo come prima della pioggia, e capisci che sei al giro di boa. Mi piace quella mattina di settembre in cui cogli per la prima volta una nota di freddo nell’aria. Nonostante la città che ricomincia a girare, c’è una nota intima e raccolta, in quel brivido mattutino. In genere lo coglievo al paese di mia madre, dove per altro arrivava prima. Sentivo quel brivido, e capivo che presto l’aria avrebbe iniziato a profumare di legna.
Il mio corpo vive meglio col freddo, la mia mente lavora più alacre, mi sembra di essere un meccanismo arruginito che riprende lentamente ad andare. È, appunto, la vita che ricomincia.
Da questo punto di vista, ieri è stata la giornata perfetta d’inizio autunno.
Mi sveglio, e stare a poltrire qualche minuto a letto, prima di andare a preparare la colazione, ha tutto un altro gusto se oltre alle lenzuola c’è la prima leggera coperta. Apro le finestre, ed entra un bel vento fresco, che mi costringe a tirare fuori dall’armadio qualcosa per coprirmi. E tra le mani mi è capitato il coprispalle che indossavo in ospedale quasi quattro anni fa, quando nacque Irene. Il cielo bigio, la pioggia fine, l’alternarsi di schiarite e scrosci. Mancavano solo le castagne. A sera, poi, i tuoni e l’acquazzone, e l’”Ooohhh” ammirato di Irene mentre le facevo vedere la pioggia sotto il lampione, mentre il cielo s’illuminava di lampi.
Non starò a cercare di difendere la pioggia, che a tanta gente non piace per molte ragioni comprensibilissime. Non cercherò di convincere nessuno della bellezza dei colori dell’autunno e del rigore dell’inverno. Per me sono le stagioni migliori. E sono contenta che, lentamente, stiano arrivando.

E, come dicevo settimana scorsa, autunno, è tempo di presentare. Quest’anno parteciperò a Pordenonelegge, in quel di, appunto, Pordenone. L’appuntamento è mercoledì 18 settembre alle 10.30, al Palaprovincia di Largo San Giorgio: saremo io, Francesco Gungui e Sandrone Dazieri a discettare di fantasy. Se passate da quelle parti, fateci un salto.

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Domani

Rapidissimo pot solo per ricordarvi che domani 14 settembre, ore 17.00, parteciperò ad un panel per i Delos Days, che si terranno a Milano nella Casa dei Giochi UESM, in Via S. Uguzzone 8. Non sarò fisicamente lì, ma la cosa avverrà via Skype. A domani per chi vorrà!

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Consoliamoci

Dovrei inaugurare una nuova rubrica: cose che non dovrei dire. Ci dovrei mettere dentro tutti quei post come questi, che non hanno tanto un contenuto particolarmente schietto o orginale, ma sono ad altissimo tasso di polemica. E siccome per me la rete ha principalmente un aspetto ludico, non ho voglia di farmi il fegato grosso. Ma, evidentemente la mia lingua è più rapida del mio fegato, e quindi nulla, vi beccate una riflessione polemica.
Ieri è partita una lunga discussione sul mio profilo Facebook. Si parlava di critica letteraria. E io ho detto una cosa che mi stava sul groppone da qualche settimana, da quando ho letto di una polemica abbastanza inutile circa un premio letterario.
Non parlerò di critica accademica, perché è un ambiente che non conosco a sufficienza, e che mi sembra anche giocare in un altro campionato rispetto all’argomento della discussione. Parlo di blog, perché li conosco decisamente meglio. Di letteratura, in rete, si parla tantissimo. I blog letterari sono anche un po’ la moda del momento. Anch’io faccio critica sul blog, anche se mi esercito più che altro coi telefilm e i film.
All’interno dei blog letterari ce ne sono però alcuni che condividono una certa impostazione di base e una similitudine nei contenuti. Fino a qualche tempo fa credevo che tale sottogruppo provenisse direttamente dai ranghi degli appassionati di letteratura di genere, ma non è così. Le loro recensioni riguardano un po’ tutto. E i recensori non sono solo ragazzi giovani, ma anche gente che scrve su qualche testata. Ho dato un nome al genere letterario di questa corrente: recensione consolatoria.
Passo indietro. Per lungo tempo s’è parlato, e si parla ancora, di romanzo consolatorio, ove per esso s’intende una tipologia di narrazione che piuttosto che indurre il lettore alla riflessione, ad un approccio problematico nei confronti della materia trattata, preferisce semplificare tutto e, in ultime analisi, dare al grosso pubblico ciò che – si suppone – il grosso pubblico ama. Quindi una visione estremamente semplificata dell’esistenza, dei rapporti tra bene e male, una visione tutto sommato rassicurante della vita, in cui tutto è netto e in cui l’etica è cristallina. Chi legge il libro ne esce consolato, appunto, ma di una consolazione effimera e fittizia, perché quel che legge non è un’analisi della realtà, ma l’equivalente cartaceo della pacca sulla spalla quando ti confidi con un amico, dell’”andrà tutto bene” quando invece le cose stanno andando malissimo.
Ecco, secondo me non esiste solo il romanzo consolatorio – che, va da sé, quasi sempre è identificato col libro di successo, che, per carità, è vero spesso, ma non sempre e non automaticamente – ma anche la critica consolatoria, ossia la critica che ti conferma nel pregiudizio che già hai su un libro. Una critica del genere tipicamente non è interessata a dare un reale parere al lettore; serve piuttosto a riconoscersi tra simili, a marcare il territorio. “Anche a me ha fatto schifo Cinquanta Sfumature di Grigio, proprio come a te, e ti dirò di più, noi che non lo apprezziamo siamo meglio dei altri, perché siamo più colti/intelligenti”. La consolazione sta tutta qua: la recensione permette di sentire di appartenere ad una sorta di élite, ci conferma nella nostra autostima, ci esalta perché ci dice che non siamo come “gli altri”, siamo meglio. In qualche modo, esattamente come il romanzo consolatorio, anche la recensione consolatoria dà al lettore ciò che il lettore cerca. Tipicamente, chi legge queste recensioni lo fa per essere confermato nella sua opinione, anche se spesso quest’opinione è un preconcetto, perché il libro non lo si è neppure letto.
La recensione consolatoria è ormai un vero e proprio genere letterario, con tutta una serie di topoi da rispettare. Innanzitutto, il tono sprezzante e di evidente superiorità del recensore nei confronti della materia recensita. Tale tono viene ottenuto soprattutto tramite l’ironia e la presa in giro dell’opera e dello scrittore. Non devono mancare le citazioni dal testo, a volte presentate senza alcun commento – perché si suppone che i loro difetti parlano da soli – a volte accompagnate da una disamina che fa ampio riferimento ai manuali di scrittura creativa. Molto spesso le frasi sono completamente avulse dal contesto e citate un po’ a caso. Quasi sempre, i pezzi sono satirici, ironici, e inducono alla risata.
A questo punto, confessione: eoni fa, ne ho scritte anch’io di recensioni così. Ok, non ho mai offeso lo scrittore o i suoi lettori, ma qualche stroncatura ridacchiante l’ho fatta. È divertente, e in linea di massima sono cose che attirano i lettori, ti portano valanghe di like e applausi scroscianti del pubblico. Se ci fate caso, il vizio non mi è del tutto passato, perché alcune recensioni di film e serie televisive che faccio stanno proprio sull’orlo tra la recensione consolatoria e la recensione e basta. Solo che poi, non lo so, m’ha stufato? Mi sono sentita chiamata in causa perché sono passata dall’altra parte della barricata? Non lo so. Ne avrà scritte due, poi ho smesso.
Ovviamente, non sto dando un giudizio di merito. Ve l’ho detto, queste recensioni sono divertenti da scrivere e garantiscono molti commenti, e molti apprezzamenti. Che poi, secondo me, è la ragione per cui vengono redatte. Ognuno si diverte come preferisce, e non sarò io a imporre paletti. Certo, la maleducazione, l’insulto e la mancaza di rispetto per le persone non mi piacciono, ma finché non si scantona nello stalking telematico e nella persecuzione, direi che si tratta solo di chiacchiere, come del resto il 90% delle cose che si dicono online, che non smuovono di una virgola l’opinione preconcetta di nessuno. Basta solo essere onesti, e sapere cosa si sta facendo: non si sta davvero recensendo un libro, si stanno facendo quattro risate alle spalle di un autore e delle persone che lo seguono.
Per tutti quelli che se la prendono, scatenando flame che fanno la gioia dei recensori: ripeto, sono chiacchiere. La maggior parte delle discussioni online non hanno realmente lo scopo di indurre al confronto. L’ho detto molte volte, e lo ripeto: i blog – questo compreso, probabilmente – sono l’equivalente dello Speaker’s Corner di Hyde Park. Uno vuole solo predicare e farsi applaudire. Stop.

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