Il carcere di Rebibbia è la più grande fabbrica d’attesa d’Europa. Corpi dentro che aspettano di uscire. Corpi fuori che aspettano un cenno, un braccio dalle sbarre, un marito, una moglie, un figlio, uscire dal cancello. Attese di mesi. Anni. Vite.
Venerdì mi è arrivato Dodici, il nuovo libro di Zerocalcare. Non vi tedio con la mia fangirlaggine, di Zerocalcare sono gran fan, sono andata a rompergli le palle fino a Torino per una foto insieme e gli ho estorto un autografo (bellissimo) mandando avanti Rossella e nascondendomi abilmente dietro di lei (che poi non so com’è possibile, visto che lei è la metà di me, ma ci sono riuscita). Ah, e ho i quattro libri che ha fatto uscire fin qui.
Ma veniamo a Dodici, il libro in questione. Breve riassunto della trama, ma breve davvero, perché non voglio essere dominata dal demone dello spoiler (cit.): a Roma c’è l’Apocalisse zombie (che tra l’altro sembra essere partita dalle mie parti…dovrò stare attenta ai segnali premonitori, d’ora in avanti…), Zero, Secco e Cinghiale – gli amici storici – più la new entry Katja, sono bloccati a Rebibbia e devono cercare di sopravvivere. E mi fermo, sennò vi tolgo il gusto della scoperta.
Dunque, che dire? Me lo sono bevuto, e questo è un primo fatto. Dodici è approdato a casa mia alle 16.00 circa e alle 17.30 già mi bullavo in rete che l’avevo letto tutto. Perché scorre, perché è pieno di tutto quanto il pubblico ha imparato ad apprezzare di Zerocalcare: i riferimenti alla cultura pop che ha formato noi trentenni nerdici, i personaggi di tale cultura usati come personificazioni, il Secco, Cinghiale, le battute…tutto. Solo che poi arrivi alla fine e ti rendi conto che hai bosogno di rileggere. Perché sotto la patina cazzara Dodici non è un fumetto per niente facile. Innanzitutto già la struttura stessa della narrazione richiede un certo impegno al lettore: ci sono tre piani temporali differenti che s’intrecciano, e se è vero che il diverso codice di colore associato ad ognuno aiuta ad orientarsi, è pur vero che le fila vengono tirate solo proprio alla fine, e dunque ci vuole un po’ di concentrazione e attenzione per capire il senso reale della storia. Contemporaneamente, anche la storia è stratificata, multilivello.
Al primo piano, c’è tutto il mondo di Zerocalcare, quello del blog, per intenderci, e chi vuole si può semplicemente godere le battute e morta lì. Al secondo livello, c’è un atto d’amore per un intero quartiere. Perché, alla fine, più ancora di Secco come John Locke, di Katja e gli altri, protagonista è Rebibbia e il rapporto che Zero ha col quartiere. Per i non romani, vi faccio un breve riassunto della situazione: Roma è una città dal territorio vastissimo, una scelta fatta da Mussolini durante il fascismo. La divisione in quartieri è piuttosto netta, e passare da quartiere all’altro significa cambiare mondo: c’è un abisso tra Monti e Tor Bella Monaca, tra Prati e Tor Pignattara. Cambiano architettura e urbanistica, tanto che se è difficile credere che EUR e, che so, Roma Est facciano parte della stessa città, ma cambiano anche i codici di comportamento, spesso anche le ideologie e la politica. Rebibbia è una quartiere periferico (non ultra-periferico, però; lì si scantona nella borgata, posto dove sono nata e cresciuta io) noto al resto della città per due cose: per quelli come me, che vivono oltre il Grande Raccordo Anulare, lontani da qualsiasi mezzo di trasporto pubblico, per la fermata della metro, porta per accedere al regno proibito della città vera, per quelli che nel GRA ci vivono per il carcere. Ed è proprio il carcere a dare, secondo Zerocalcare, un carattere unico, distintivo, al quartiere. Così le avventure dei nostri diventano un modo per parlare del rapporto di ciascuno con Rebibbia, di cosa sia per Zero questo luogo che tanta parte ha giocato nella sua formazione. Devo dire che invidio la sua capacità di provare un così profondo senso di appartenenza per il luogo in cui è nato e vissuto. Io Torre Angela l’ho sempre vista come un corpo estraneo, una cosa dalla quale fuggire perché cercava di fagocitarmi, un posto che mi teneva in ostaggio, e cui non appartenevo. E, anche oggi, non sento di appartenere al quartiere in cui vivo; anche qui mi seno estranea, diversa, altra. Le mie radici le sento lontane, in Campania, probabilmente, un posto che, per contro, a ragione non può considerarmi sua figlia. E invece Zero appariene a Rebibbia, e riesce a descrivercelo con estrema franchezza, e al tempo stesso con grande profondità, parlandoci di periferia come raramente è stato fatto. Del resto, posti come Rebibbia tornano agli onori della cronaca solo quando si trasformano, come detto anche in Dodici, in luoghi fighetti. Allora compaiono nell’orizzonte del turista medio, e escono da quello di chi ci abita. Forse quella di Roma è una lunga storia di espropriazione della città. Ma questo è un delirio che devo ancora mettere a fuoco per bene
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Infine, c’è un discorso più filosofico, sul senso della vita, se vogliamo, ed è quello che viaggia più sottotraccia, che richiede maggior attenzione per essere colto. Paradossalmente, è proprio lui però a chiudere la trama. Se non lo cogli, e alla prima lettura ti può benissimo sfuggire, non capirai perché la trama comincia in un certo modo e finisce in un altro. Ti sembrerà una storia aperta, senza finale. Comunque, questa non è una novità: tutti i fumetti di Zero hanno sempre parlato di temi importanti. Ricordo che ne La Profezia dell’Armadillo mi commossi, c’è una tavola di una potenza straordinaria che ha parlato al mio cuore, e che parla al cuore di noi tutti che ci siamo salvati, e non capiamo perché qualcun altro, invece, non ce l’ha fatta ed è annegato. Comunque. Sulla parte filosofica non mi dilungo, perché ognuno ci vedrà quel che vuole. I romanzi sono macchine per la produzione di interpretazioni, diceva Eco, e questo vale anche per la letteratura a fumetti. Io l’ho trovata dolentemente pessimista, e tutto sommato è giusto così. E la cosa colpisce, perché uno non se lo aspetterebbe dal tono generale del fumetto. Per questo, forse, fa riflettere anche di più.
Anyway, l’avrete capito, il giudizio finale è molto buono. Ok, forse il fatto che non sia proprio accessibile a primo impatto, come vi dicevo, lo penalizza, ma io mi sono divertita, ho riflettuto e l’ho letto due volte. Ed era esattamente quello di cui avevo bisogno. Per cui, andate in libreria e prendetevelo. Non ve ne pentirete.
Extra
Quando ho chiuso il fumetto, mi è venuta immediatamente in mente una foto che ho condiviso su Twitter qualche giorno fa. Non vi avevo detto dove l’avevo scattata. Beh, è la fermata della metro Rebibbia, che, per motivi di localizzazione geografica di casa mia, bazzico parecchio. Ecco, questa cosa qua che vi incollo qua sotto purtroppo nel mio quartiere non potrebbe mai succedere. Ma succede a Rebibbia. E allora forse è vero che Rebibbia Regna
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