Archivi del mese: novembre 2013

France, encore

Pardonnez encore mon français, mais si je ne l’écrive pas je ne peux pas l’amiliorer :P .
Je voudrais seulement vour rappeler que, à partir de demain, je serai au Salon du Livre et de la Presse Jeunesse de Montreuil. Samedi et dimanche vour pourrez me rencontrer au stand de ma maison d’édition Pocket Jeunesse de 14.00h à 16.00h pour les séages d’autographes; vendredi je serai là de 14.30h à 16.00h, lunedi de 10.00h à 12.00h. Samedi à 12.00h je parteciperai à la table ronde “Mosaïque Européenne”, avec les auteurs Johan Harstad, Albin Michel, Katarina Mazetti, Thierry Magnier, Carlos Salem et Anne-Laure Cognet. Vous pouvez trouver une résumé de tous les occasions de nous renconter sur ma page d’accueil, et, si il me sera possibile, je vous tiendrai informé par Twitter.
Bon, c’est tous. Je vous attende!

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La scrittura, la sofferenza, la morte

No, non vi preoccupate, il post è molto più allegro del titolo :P . Però mi andava di parlare di una vexata quaestio che è tornata in auge con – sì, ci sto tornando su, lo ammetto – Masterpiece: l’artista e la sofferenza.
Questa storia dell’artista che soffre me la sento ripetere da quando ero bambina, assieme a “chi è più sensibile soffre di più”. Come tutti i bambini, ci ho creduto moltissimo, e l’ho fatto fino a pochi anni fa, quando ho capito che “sono sensibile, per questo sto male” era diventato un alibi per sentirmi meglio degli altri e crogiolarmi in tutte le mie insicurezze senza far niente per risolverle, superarle o almeno metterle nella giusta prospettiva. Questo per inquadrare il discorso in una cornice più personale.
Credo che presso la nostra società ci sia un equivoco di fondo: quest’idea che l’artista sia un essere superiore agli altri. Siccome anni di romanticismo ci hanno insegnato che chi soffre è nobilitato, l’artista, nella percezione comune, ha da soffri’. La prima puntata di Masterpiece lo dimostra chiaramente: tra concorrenti che cercano di aderire il più possibile allo stereotipo, e giudici che cercano di cucirglielo addosso, è tutta un’esaltazione dello spirito tormentato dell’artista, fragile e disperato, che s’ammazza di cirrosi epatica prima dei quaranta, che dopo fa brutto.
Solo che io non credo sia così. Esistono sicuramente fior di studi che individuano collegamenti tra la malattia mentale e la genialità, ma si parla appunto non di spleen, ma di malattia. Perdonatemi se stento a credere che la morte per suicidio di chi soffre di depressione bipolare sia rubricabile sotto “sofferenza esistenziale”: è come morire di cancro, il tremendo esito di una malattia che ha tra i sintomi i pensieri suicidiari. Comunque, come in tutte le cose che coinvolgono la mente, non c’è un rapporto uno a uno tra malattia mentale e tendenze artistiche: non è che tutti gli artisti sono matti e viceversa.
Inoltre, la sofferenza è semplicemente un’esperienza umana, che intride in modo più o meno profondo le vite di tutti. La differenza tra l’artista e chi fa un altro lavoro sta semplicemente nella capacità del primo di esprimere questa sofferenza in forme che la rendano intellegibile, condivisibile dal pubblico. Tutto qua. È come saper cantare, saper cucinare da dio, essere bravo ad aggiustare cose. Un talento non dissimile da altri, e che per altro si sposa a volte – come è normale che sia – a personalità magari non limpidissime, a un carattere francamente di merda, magari. Da cui l’importanza di separare l’arte dalla vita dell’artista. Esempio classico, Céline che era antisemita, la Riefenstahl e il ruolo che ha giocato nell’affermazione del nazismo.
Poi, considerando che io mi ritengo sostanzialmente un artigiano della parola, forse non sono la più titolata a parlare di arte e sofferenza. A me piace raccontare storie, e lo faccio da ben prima che avessi chiaro cos’è la sofferenza spirituale. Però, secondo me, dire che l’arte nasce sempre dalla sofferenza è una generalizzazione che, al solito, riduce la molteplicità della realtà ad una serie di modelli che ci aiutano a non aver troppa paura della complessità. Sennò, se ti accorgi di avere un minimo di talento, vedi di infilarti in situazioni di grande sofferenza e sarai il prossimo Baudelaire.
Quel che credo serva per scrivere è forse uno sguardo più acuto, curioso, direi, sulla realtà, sulla vita e sulle persone. E serve saper vivere con intensità, nel bene e nel male, e quindi boh, forse i periodi down per uno scrittore sono più down del normale, ma anche i periodi up sono più up. Io personalmente, dopo anni di piagnistei, ho realizzato di essere una persona perfettamente nella media: un po’ ansiosa, con una tendenza vaga allo sbalzo d’umore che però con gli anni ho imparato a controllare, e la vita più splendidamente normale del mondo. E, vi voglio rassicurare: non dovete soffrire come cani per fare i narratori come me :P .

P.S.
Due aggiornamenti sui miei spostamenti: a parte la mia partecipazione al Salon du Livre e de la Presse Jeuness di questo fine settimana, di cui vi renderò conto meglio domani, ci sono due nuovi appuntamenti a Roma.

Giovedì 5 Dicembre 2013 – Roma
Libreria Mondadori
Piazza Cola di Rienzo
ore 17.30
Firma copie

Sabato 7 Dicembre 2013 – Roma
Libreria Mondadori
Centro Commerciale Roma Est
ore 17.00
Firma copie

Dai, che ne abbiamo di occasioni per vederci ;)

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Padri

L’altro giorno mi è venuta in mente una riflessione un po’ amara. Mentre il mondo dello storytelling è pieno di racconti di storie d’amore etero declinate in due miliardi di modi differenti, mettendo in luce ora un aspetto, ora un altro, la fantastica società in cui viviamo fa sì che quando si parla di una storia d’amore omo quasi sempre non si possa prescindere da tutto il corollario di sofferenza, sensi di colpa, difficile accettazione di sé e discriminazioni. Purtroppo, il racconto di una storia d’amore omo quasi sempre diventa una denuncia, e mai semplicemente la storia di due persone che si amano.
Ecco, probabilmente è anche per questo che la lettura di Sei Come Sei, di Melania G. Mazzucco, mi ha entusiasmata così tanto. Per carità, ovviamente nel racconto dell’incontro tra una ragazzina di undici anni e uno dei suoi due papà c’è sicuramente l’aspetto di denuncia di una società basata su regole assurde, ma, come dire, non è l’aspetto preponderante. Sei Come Sei è prima di tutto una bellissima storia, e quella tra Christian e Giose è soltanto una storia d’amore e niente più, in cui il fatto che si parli di due uomini piuttosto che di un uomo e una donna è del tutto irrilevante.
Vi faccio un breve riassunto della trama, prima di proseguire: Eva ha undici anni e un solo papà. L’altro, quello biologico, è morto tre anni prima. In seguito ad un evento tragico, Eva, che dopo la morte del padre è stata affidata non al suo secondo papà – nonostante la volontà del genitore morto espressa in questo senso – ma alla famiglia di sua zia, sconvolta di fronte a qualcosa più grande di lei, prende un treno e decide di andarsi a riprendere quell’amatissimo padre al quale la legge l’ha strappata.
Ecco, questa storia vuole indubbiamente mettere in luce la situazione assurda in cui le famiglie omogenitoriali si trovano in Italia, ma non è quello il vero punto. Il punto è il complesso discorso sulla paternità, la genitorialità in senso lato, l’amore, in tutte le sue forme e declinazioni.
Finalmente al centro di un racconto sulla genitorialità non c’è una madre, ma un padre. Basta con quest’idea che la madre ha una superiorità di qualche genere sul padre, che quell’amore lì non possa essere incarnato in un uomo, che tutto quanto di buono e cattivo accade a un bambino dipende solo ed esclusivamente dalla madre. Qui abbiamo un padre e una figlia legati da un amore assoluto, totalizzante, ed è una novità, una novità importante. Il rispetto per le persone e per le donne passa prima di tutto da qui, dal riconoscimento che ci sono sentimenti che non appartengono ad un genere specifico, ma all’essere umano.
E poi c’è la scrittura della Mazzucco, leggere e scarna, che passa delicata e al tempo stesso profonda, impietosa, su una storia potente, sui sentimenti dei personaggi. Ho riempito il libro di orecchiette, anche se so che non si fa, una per ogni frase che sentivo mia, per ogni verità che ho trovato in quelle pagine, proprio come mi era accaduto lo scorso anno con Limbo, della stessa autrice.
Io l’ho trovato un libro meraviglioso, e ve lo consiglio, perché scava in profondità, ci rivela a noi stessi, ci parla della nostra essenza più vera. E ci racconta una storia bellissima su cosa accade nella vita di chiunque quando all’improvviso un figlio stravolge tutte le nostre priorità.

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Repetita iuvant: Napoli

Lo so che sto diventando noiosa, ma l’ultima volta, a Lucca, nonostante avessi ripetuto alla nausea gli appuntamenti, c’era comunque gente che mi chiedeva se ci sarei andata e quando, per cui, perdonatemi, ma continuo a spammare con le presentazioni di questo week end. Stasera 22 Novembre, ore 18.00, ci vediamo alla Libreria Feltrinelli di Piazza dei Martiri, a Napoli, per parlare di Nashira 3. Devo dire la verità, ogni volta che torno a Napoli sono contenta, tanto più se per una volta riesco ad andarci per una presentazione. L’ultima volta è stata nel 2007, o nel 2008, non ricordo. Comunque, come dice il mio cognome, le mie origini sono campane, nel senso che tutta la mia famiglia, da parte di padre e da parte di madre, viene da là. A Napoli i miei hanno vissuto e studiato all’università, e lo stesso dicasi per i miei zii e i miei cugini. Napoli è nel mio dna, c’è passata tanta parte della mia storia. Per questo sono sempre un po’ contenta quando vedo il profilo del Vesuvio stagliarsi davanti a me.
Se vi va di condividere un po’ di questa mia contentezza, sapete quando e dove trovarmi stasera :) .

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Una recensione riluttante (più o meno)

Qualche giorno fa mi lamentavo della caterva di pareri polarizzati su Masterpiece, il nuovo talent di Rai3. È che lunedì mattina non si leggeva altro, e tipicamente se ne leggeva male, con quella spocchia un po’ tipica della rete che su qualsiasi argomento si deve spaccare esattamente a metà: o si ama o si odia, nessuna via di mezzo.
Poi che è successo? È successo che mi sono vista il programma. E adesso, ve lo devo dire, sono veramente in imbarazzo. Perché, ecco, come dire…tocca parlarne male anche a me :P . Sarà il karma, sarà che ho parlato troppo presto, sarà che è come se facessero un talent sulla fisica (ahahahahahahahahah! No, mi ricompong….ahahahahahahahahahah! Scusate, ora smetto…), che non ne vuoi parlare? Vabbeh. Parliamone, via.
Allora, il programma, per quel nulla che ne so di linguaggio televisivo, è fatto bene. Che belle le riprese aeree di Torino, che belli regia e montaggio, mi piace un po’ meno la voce fuoricampo, ma è una mia idiosincrasia, ma…ma. Ma c’è qualcosa di programmaticamente sbagliato nei contenuti. Nel modo in cui la scrittura viene presentata.
La parola più usata dai concorrenti è “riscatto”. Ciascuno di loro – dei finalisti, intendo, perché gli altri vengono liquidati con sufficienza in meno di un minuto, senza che si capisca chi sono e, soprattutto, cosa hanno scritto – scrive per riscuotere un debito che ritiene di possedere dalla vita. Sono in cerca della loro grande occasione, del big dream, e sto usando tutte parole pronunciate in trasmissione. Ora, capisco che questa è la narrazione preferita dai talent: la corsa al successo, il riscatto, gliela faccio vedere io. Ma era così necessario applicarla pure alla scrittura?
Ormai non c’è più nessuno che balla per il piacere di ballare, che canta per il piacere di cantare: tutti devono “arrivare”. L’obiettivo è il successo, e l’ambito artistico in cui lo si persegue è sostanzialmente intercambiabile: puoi cantare, ballare, adesso anche scrivere. Ma, al centro, non c’è mai l’espressione artistica, persino artigianale, se, giustamente, non vogliamo usare paroloni: c’è sempre e solo il successo.
Questo, secondo me, è sbagliato.
È sbagliato perché – che romantica che sono – resto convinta che scrivere sia sostanzialmente raccontare storie, e pubblicare cercare di arrivare al pubblico maggiore possibile, in modo da poter dire quel che si vuol dire. Non voglio affermare che il successo non conti e non gratifichi, ma non è la molla prima, o non dovrebbe esserlo. E non voglio neppure fare un discorso etico, che anche questi probabilmente sono paroloni: è che se scrivi per farcela, per dimostrare qualcosa a qualcuno, nove volte su dieci finisce che scrivi qualcosa di cui non frega nulla a nessuno, perché troppo autoriferito, o, al contrario, troppo prono alle mode.
Lì fuori è già pieno di gente che cerca applausi, e lo fa tramite la scrittura, perché nell’interpretazione comune tutti sanno scrivere, te lo insegnano a scuola: era proprio necessario farci un talent sopra?
Per la prima ora del programma, la scrittura è un’appendice accessoria del discorso: della maggior parte dei concorrenti è impossibile capire cosa abbiano scritto. Non basta far loro leggere dieci righe, non capisci niente da dieci righe, a meno che tu non sia editor di professione. Ci si sbrodola invece tantissimo sull’esperienza di vita dei candidati: è più il tempo trascorso a discettare della galera di uno dei concorrenti che di cosa parli il suo noir, di cui non ricordo neppure il titolo, per dire, e del quale la trama non è mai stata presentata. L’idea che passa è che se non hai sofferto, se non hai avuto una vita borderline, non puoi scrivere. Uno dei concorrenti lo dice proprio: io soffro. A guardare le biografie di tanti scrittori che ci hanno lasciato pagine indimenticabili non mi pare sia una cosa così decisiva, ma sarà un limite mio. Di sicuro, lo stereotipo dello scrittore maudit, disperato a fieramente in contemplazione del suo ombelico, aveva rotto già nell’ottocento, quando poteva ancora avere un senso. Non è sempre così. La sofferenza, per altro, è esperienza inscindibile dalla vita, quindi non vedo la necessità di questa hit parade della sfiga. Per altro trovo quanto meno offensivo che sembri che la concorrente guarita dall’anoressia sia stata fatta passare solo perché, appunto, il suo libro parla della sua malattia. Ci sono miriadi di storie che val la pena di raccontare, anche quando non nascono da esperienze di vita estreme: pensiamo al racconto di un uomo comune tipo La Coscienza di Zeno. Non val la pena? Ma meglio quello di tantissime autobiografie recenti! Ma di grandissima lunga!
Vabbeh. Diciamo che poi si arriva alla parte in cui si scrive. I concorrenti vengono portati a fare “esperienza di vita” (aridaje…) in una comunità tirata su da un prete e in una balera. Dovranno poi scrivere rispettivamente la lettera di un ospite e il racconto dei loro genitori che ballano.
In teoria, la scrittura dovrebbe farla da protagonista, ora. Peccato che, al solito, la lettura di trenta righe così, fatta per di più da chi non sa – giustamente – leggere, perché non è il suo mestiere, non renda per niente. Per esempio, io non avevo colto neppure una delle sgrammaticature di uno dei concorrenti, mentre, sulla pagina scritta, mi sarebbero immediatamente saltate all’occhio. Non mi pronuncio sulla qualità degli scritti, lo fanno i giudici; non si capisce però perché siano stati accettati nella fase finale autori che poi producono testi ritenuti dai giurati stessi così scarsi. Mi dilungo invece sul profluvio di banalità con cui alcune delle esperienze sono state descritte da chi le ha vissute: se non hai niente da dire, perché una cosa non ti tocca, forse è meglio tacere, piuttosto che dire quel che dicono al riguardo i contenitori del pomeriggio di un canale5 o una rai1. Da questo punto di vista, meglio il commento del coach alla vista dei ballerini nella balera: “Forse sono così contenti perché si avvicina la morte”.
Dopo questo exploit, la scrittura torna nello scantinato: la prova successiva è cercare di convincere in un minuto una editor Bompiani che il proprio libro è il migliore. E, di nuovo, protagonista è lo scrittore col suo vissuto e la sua “presenza scenica”.
Vabbeh, comunque, scelta del vincitore, sipario, fine. Dopo un’ora e venti. Che sono decisamente troppe. Io più di una volta ho iniziato a fare altro. Questa è probabilmente l’unica pecca “tecnica” che attribuisco al programma. Il resto, ripeto, è una questione di opportunità, di mostrare il mestiere della scrittura con un minimo di verosimiglianza, e magari anche con un po’ di rispetto.
Serve tutto ciò alla lettura, alla scrittura? Aiuta ad avvicinare il pubblico alla cultura? Secondo me, banalmente, no. Reitera una serie di stereotipi abbastanza radicati presso il pubblico (lo scrittore maledetto, tutti possono farcela, la scrittura come qualcosa che ti nobilita) ma non spiega cos’è uno scrittore (che poi vallo a sape’, ce ne sono di tanti tipi diversi…) né insegna a qualcuno a scrivere, se questo è un mestiere che si può insegnare da zero. Non so, credo che ci possano essere altri modi, più rispettosi, se vogliamo, di raccontare la scrittura e gli scrittori, pur non essendo seriosi, perché la scrittura è anche un mestiere, e gli scrittori persone normali. Io invece ho trovato in Masterpiece un’ovvia spettacolarizzazione, nel senso però deteriore del termine, e anche una certa spocchia nel modo di rapportarsi a molti concorrenti.
Non lo so, a me torna in mente, per dire, l’esperimento di Xwriting che feci in quel di Pietrasanta, con due squadre di ragazzi che si scontravano scrivendo brevi brani a tema: declinare una storia in rosa, fantasy e noir, ad esempio. Era un modo divertente e carino di parlare di scrittura, persino di tecnica, senza tirare fuori per forza le esperienze esistenziali degli scrittori (per poi lamentarsi che sono troppo ombelicali, per altro…).
Resta il fatto che secondo me la scrittura non è televisiva. Quando cucini, dipingi, balli o canti c’è un effetto immediato, che tutti possono osservare, anche quando si prepara l’esibizione. Quando scrivi no. Il 99% del tempo sei tu, la pagina bianca e il silenzio (o la musica, per chi la preferisce). Una cosa di una noia mortale da mostrare. E anche il godimento dell’opera avviene in solitudine, in un rapporto uno ad uno: tu, il libro, e il silenzio (o la musica per chi la preferisce). Cosa c’è di televisivo in tutto ciò? Una gara di scrittura, invece, può magari funzionare meglio; non per un’ora e venti, ma per una mezz’ora, magari…
Insomma, io sono rimasta delusa. Non vorrei usare parole forti, ma non credo che una cosa del genere faccia bene all’editoria o alla scrittura. Non credo ce ne fosse bisogno, e faccia più male che bene.
E adesso datemi dell’ipocrita :P

P.S.
Per chi è riuscito ad arrivare fino in fondo a questo papiellone, vi ricordo che da domani parte la prima porzione del tour di Nashira3. Le tappe sono

Venerdì 22 Novembre 2013 – Napoli
Libreria Feltrinelli
Piazza dei Martiri
ore 18.00
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio

Sabato 23 Novembre 2013 – Bassano del Grappa (VI)
Librearia Palazzo Roberti
ore 17.30
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio.

Domenica 24 Novembre 2013 – Milano
Bookcity
Palazzo Morando
Via Sant’Andrea 6
ore 17.00
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio

Chi vuole/può venga a vedermi, che mi fa contenta :) .

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Apologia di Peppa Pig

Sento parlare in giro (leggi, sui social network) di Peppa Pig, the new Teletubbies. I bambini ne sono pazzi, chiunque abbia un figlio tra i due e i cinque anni deve farci i conti. Ovviamente, arrivato il successo, arrivate le critiche: è molto chic al momento parlarne male. Rincoglionisce i bambini, è disegnata male, che palle, la odio. Io, francamente, la adoro. I perché sono presto detti.
Sì, Peppa Pig è disegnata male; non peggio di Spongebob o le Superchicche, comunque. Ma è disegnata esattamente come un bambino disegnerebbe una famiglia di maiali. Il disegno è proprio di quelli che possono piacere ad un bimbo: semplice e coloratissimo. Certe scelte di animazione ti fan capire che non è scarsità di cura nella produzione (per dire, i nostri arrossiscono quando sono sotto sforzo), ma una precisa scelta artistica (che paroloni, eh?).
Le storie durano cinque minuti, il tempo medio dell’attenzione di un bimbo, e riguardano sempre esperienze in cui un bambino di quell’età può riconoscersi: il raffreddore, la gita al parco giochi (Patata City, vi giuro che sono caduta dal divano quando l’ho sentita…), la vacanza, il primo giorno d’asilo, il litigio con l’amica del cuore.
Ok, sono storie semplici, ma, devo dire la verità, divertono anche me. Ci sono piccole note di autoironia che magari a un bambino sfuggono, ma che rendono il prodotto divertente anche per un adulto. Non lo so, la puntata in cui Peppa incontra la Regina che vuole premiare la persona che lavora di più in Inghilterra (per la cronaca, la signorina Coniglio, che nel mondo di Peppa Pig c’ha il monopolio di tutte le attività: c’ha il supermercato, guida il treno, fa la pompiera, guida l’elicottero di salvataggio, gestisce parchi giochi e bancarelle di vario livello e grado…) secondo me è un capolavoro di autoironia.
Ma, soprattutto, in tutte le puntate che ho visto non ho mai beccato contenuti smaccatamente sessisti, anzi. Mamma Pig lavora, e in molteplici situazioni viene mostrata come decisamente più in gamba del povero Papà Pig, che ci fa più o meno sempre la figura del pasticcione. Le femmine fanno anche lavori maschili (la su citata signorina Coniglio, per dire, ma anche Mamma Pig lavora coi pompieri), i bambini giocano tutti assieme ad esempio a basket, maschi e femmine all together. Può sembrare una cosa da poco, ma non lo è, considerando la sessualizzazione spinta delle pubblicità dei giochi (tu, femmina, bambolotti, tu, maschio, costruzioni, macchinine e soldatini). Per dire, io la leziosissima Sofia la Principessa non la reggo, ma a Irene piace, per cui non gliela vieto, che tanto non servirebbe a niente. Peppa invece è divertente, colorata, e, via, anche intelligente. Molti di quelli che l’additano come arma di rincoglionimento di massa non hanno mai visto un episodio. Poi, vabbeh, può non piacere, questo è ovvio.
Altre critiche, comunque, si appuntano su un punto più delicato: la quantità enorme di marketing legato a Peppa Pig. C’è la qualunque di Peppa Pig, tonnellate e tonnellate di roba con cui scucire i soldi ai genitori. Ok, dà fastidio anche a me, ma viviamo in un mondo capitalistico e consumistico, in cui qualsiasi cosa viene mercificata: Peppa Pig è solo un elemento di un puzzle assai più vasto. Il marketing investe qualsiasi prodotto di successo, Peppa Pig ha più prodotti in giro solo perché ha più successo. Poi, l’abbondanza di prodotti può essere una buona occasione per far capire ad un bambino che non può avere tutto quello che vuole e che non si può comprare tutto. Io, almeno, ci provo.
Insomma, io la Peppa la difendo. Ho visto infinitamente di peggio in giro.

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Aggiornamento tour

Ieri vi ho aggiornati sul racconto per l’antologia che ha per scopo la raccolta fondi per la ricostruzione della Città della Scienza e sulle prime date del tour di Nashira3. Ecco, oggi aggiungo un altro tassello: il 5 dicembre, ore 17.30, potete venire a farvi firmare libri, fogli, braccia e arti vari presso la Libreria Mondadori di Via Cola di Rienzo, qui a Roma.
Prossimamente, aggiornamenti su altre date nel centro Italia…

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Acqua e Fuoco e prossimi incontri

All’inizio di quest’estate, forse lo ricorderete, sono stata a Napoli in ricognizione. Visto che scrivo fantasy, in genere non ho bisogno di andare in giro a documentarmi su luoghi e città, e nei casi in cui devo usare posti reali (vedi Ragazza Drago) il percorso è tipicamente inverso: prima visito per altre ragioni un posto, quello mi colpisce, e dunque finisce nelle mie storie.
Questa volta, invece, mi serviva documentarmi su un luogo specifico. Questo.

Qualcuno l’avrà riconosciuto, qualcun altro no, per cui vi dico subito che è la baia di Bagnoli. Qui, il 4 marzo di quest’anno, un incendio con ogni probabilità doloso ha distrutto la Città della Scienza.
Qualche tempo dopo l’incendio, venni contatta dai ragazzi di Cavacon, la fiera dei fumetti di Cava de’ Tirreni cui ho partecipato quest’estate: mi venne spiegato che avevano in mente di pubblicare un’antologia di racconti fantasy con lo scopo di raccogliere fondi per la ricostruzione della Città della Scienza. Mi venne chiesto di partecipare, e io fui ben lieta, perché sono campana d’origine, perché ero stata alla Città della Scienza da ragazzina, e perché la scienza fa parte della mia vita, come ben sapete.
Il prossimo gennaio la raccolta uscirà; sarà presentata all’edizione invernale di Cavacon. Il mio racconto si chiama Acqua e Fuoco ed è ambientato nel mondo de La Ragazza Drago. È stata la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho rivisto Bagnoli, un posto di contraddizioni estreme, un luogo più e più volte ferito. Era proprio materia da Ragazza Drago.
Inutile dirvi che è un progetto cui tengo moltissimo, per tutte le ragioni esposte. Quindi, accattatevillo ;) .
Visto che siamo in tema, vi ripeto un po’ i prossimi incontri:

Venerdì 22 Novembre 2013 – Napoli
Libreria Feltrinelli
Piazza dei Martiri
ore 18.00
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio

Sabato 23 Novembre 2013 – Bassano del Grappa (VI)
Librearia Palazzo Roberti
ore 17.30
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio.

Domenica 24 Novembre 2013 – Milano
Bookcity
Palazzo Morando
Via Sant’Andrea 6
ore 17.00
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio

Pour tous mes supporters français: je sera en France, à Paris, du 29 de Novembre au 1 de Décémbre; je prendra part au Salon du Livre et de la presse jeunesse. Vous pourrez me rencontrer au stand de mais maison d’édition Pocket Jeunesse pour des séances d’autographes le Vendredi 29 Novémbre 14.30-16.00, le Samedi 30 Novémbre 14.00-16.00 et la Dimache 1 Décémbre 14.00-16.00.

Bon, tutto qua. Spero di vedervi nel fine settimana :) .

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Guilty Pleasure

Lo confesso con discreta vergogna, ma per due giorni di seguito ho visto Ghost Hunters. Ebbene sì. No, è che la pubblicità mi aveva incuriosita, per cui…Lo devo confessare: mi sono divertita. Ma non perché ci sono i fantasmi e roba del genere. Mi sono divertita perché è praticamente la fiera della prova inoppugnabile dell’esistenza del paranormale.
Vi contestualizzo un po’ la cosa. Due idraulici nel tempo libero fanno gli acchiappafantasmi. Eh sì. La gente li chiama perché crede di avere la casa/l’hotel/la barca(!) infestata. Loro arrivano e cercano “prove”. Si vantano di avere attrezzatura molto sofisticata. Cioè torcette, videocamere a raggi infrarossi e registratori video e audio. Roba all’ultimo grido, insomma.
Entrano nella casa/hotel/barca(!) rigorosamente di notte (perché? Voglio dire, c’è gente che dice di aver visto i fantasmi di giorno…), spegono le luci (ancora, perché? I fantasmi c’hanno la fotofobia?) e restano lì tutta la notte a provocare i fantasmi.
Scena tipia: tizio1 e tizio2 al buio, con torcia, entrano in una stanza.
Tizio1: «Sei qui?».
Silenzio.
Tizio2: «Perché non batti un colpo per farci sapere che sei qui?».
Silenzio.
Tizio1: «Anvedi che bel sopramm…hai sentito!».
Tizio2: «Sì! Mi è sembrato di sentire un rumore che veniva da destra!».
Tizio1: «Lì! Esatto!».
Inutile dire che lo spettatore non ha sentito una mazza.
È tutto un: «Mi è sembrato di vedere un’ombra!», «Mi è sembrato di sentire uno che camminava al piano di sopra, ma quando siamo saliti non c’era nessuno!», «Mi è semblato…» ah no, scusate, quello è un’altra cosa. Ma la cosa migliore è quando uno se ne esce «C’ho la nausea, devono essere le forti presenze paranormali». O la peperonata della sera prima…anche quella ritorna…
Le prove audio e video sono più o meno dello stesso livello.
Tizio1: «Guarda! Qui si vedono due gambe!».
Inquadratura all’infrarosso di tre pixel rossi che sono probabilmente un difetto della camera.
Tizio2: «È vero!».
Sul video di una barca:
Tizio1: «E qui si vede chiaramente il cancello aprirsi da solo».
Inquadratura di un cancello che sembra muoversi vagamente, probabilmente perché, sai, sei su una barca, ok che è alla rada, ma me l’hai detto pure te che dondola…
Tizio2: «È una cosa inspiegabile».
Comunque, nell’episodio di ieri arriva quella grossa. Tizio1 e Tizio2 sentono (loro, perché dall’audio lo spettatore non sente niente) un rumore, tipo qualcosa che viene trascinato. Salgono al piano di sopra e si rendono conto che è il rumore di un passeggino giocattolo che struscia contro il muro.
Tizio1: «La videocamera lo riprende?».
Tizio2: «No».
Ah, ‘sta minchia! Avete gli strumenti più putenti dell’universo, ma riprendere una camera infestata da una sola angolazione. Grande. Vabbeh, Tizio1 prende il passeggino e lo mette a favore di camera, vicino al letto.
Passa la notte, i nostri riguardano le riprese. E, meraviglia, il passeggino si muove: ma non si muove di poco, si muove parecchio, nel senso che la cosa è chiaramente percepibile a occhio nudo. E uno dice: ammazza, finalmente qualcosa di concreto! Solo che il passeggino non è inquadrato interamente: ci manca un pezzo. Nello specifico, il passeggino si trova nel margine in basso dell’inquadratura, tagliato a metà, proprio la metà verso la quale il passeggio ruota. Non si vede neppure il manico, per dire. Potrebbe esserci l’abominevole uomo delle nevi che lo spinge, o Tizio1, o, cosa che mi pare più probabile, un topo, visto che per tutto il tempo gli acchiappafantasmi si lamentano di sentire un grattare nelle pareti e squittii («è una bimba che ride!»; se, lallero). Ma no. È il fantasma.
Ora, tutto ciò potrebbe essere molto divertente, e lo è. Mettersi a cercare la spiegazione più probabile per quelle quattro cose in croce cun po’ più esotiche che accadono nello show è divertente. Il problema è che la gente guarda Ghost Hunters e crede che un’indagine scientifica si faccia così. Adducendo come prova che uno c’ha la nausea, quello con la coda dell’occhio ha visto forse qualcosa che si muoveva, quell’altro sente un rumore in una casa vuota (a casa mia allora c’è una legione di spiriti; dovreste sentire quando tira vento, la prima volta che è successo eravamo convinti ci fosse qualcuno che stava morendo sul balcone). Non è che quando facevo fotometria se vedevo una lucina strana sull’immagine dicevo subito che era un ufo: prima di saltare alle spiegazioni sconvolgenti si eliminano prima quelle banali, che, grazie Occam per il tuo rasoio, in genere sono le più probabili. Una luce strana è spesso un pixel caldo, un difetto del rivelatore. Come le gambe di qualche puntata fa.
Ora, se programmi del genere fossero sparuti e isolati, potrebbe anche andar bene. A tutti piace divertirsi in modo un po’ sciocco, non c’è niente di male. Ma la scienza, in TV, è sempre presentata così: a parte i bastioni di Rai3 e i prodi Angela, tutti gli altri ammanniscono cazzate apocalittico-complottistiche come “scienza”, e presentano esempi di metodo scientifico che sono completamente campati in aria. E questo, spiace dirlo, fa male, perché allontana ulteriormente la gente dalla scienza. E forse val la pena ricordare come si stava quando il metodo scientifico non esisteva e la vita media era trent’anni o giù di lì.
Per cui, nulla, probabilmente smetto. Non ho particolare antipatia per la gente di Ghist Hunters, tutto sommato ho visto di peggio, in giro, ma fanno del male, magari non tanto a chi li chiama, che si ritrova un mucchio di clienti perché c’ha l’hotel infestato, “è certificato da quelli di Ghost Hunters”, ma per tutti gli altri, quelli che guardano questa roba e poi si curano il cancro con l’aloe.
Lo so, sono monotematica, di recente, ma credo che questa siano cose pericolose, e che siamo su una brutta china.

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È tutto così

L’altro giorno Giuliano mi ha raccontato di una discussione sulla rappresentazione del femminile sui media che ha avuto a lavoro. Non si stava parlando di un episodio particolarmente eclatante, di uno di quegli episodi cui ormai siamo abituati: che so, l’uomo di potere e la donna che fa la graziosa assistente, roba del genere. La cosa interessante era la polarizzazione della discussione: di qua le donne, che hanno fatto notare la natura sostanzialmente sessista della rappresentazione, di là gli uomini che minimizzavano. E allora mi è venuta in mente una riflessione: per un uomo capire tutti questi discorsi sulla rappresentazione dei generi dev’essere davvero complicato. In fin dei conti, un uomo vive fin da piccolo in un mondo in cui gli viene spiegato e mostrato con abbondanza di esempi che da grande potrà essere tutto quel che vuole. Gioca con camion, razzi, costruzioni, tutto ciò che desidera. Quando gli chiedono cosa farà da grande ha a sua disposizione un ampio ventaglio di risposte, nessuno gli dice cosa deve fare e l’unico limite è astenersi da tutto quanto sia troppo “femminile”: no alle bambole, no a cose come “voglio fare il ballerino”, no ai vestiti da femminuccia. Si tratta comunque di poche regole, di pochi ambiti preclusi. Il resto, è tutto a disposizione. Per lui è assolutamente naturale vedersi rappresentato in posizione di potere, protagonista di avventure e situazioni divertenti, perché i cartoni animati pullulano di personaggi maschili che fanno qualsiasi cosa.
E una donna? La bambina si guarda in giro e tutti i personaggi dei cartoni animati che fanno cose fighe e avventurose sono maschi. I personaggi femminili sono quasi tutti leziosi e fanno cose da femmina: il massimo della sperimentazione (e, beninteso, sono lietissima che ci sia almeno questo) è la dottoressa che cura i giocattoli. I giocattoli “da femmine” contemplano sempre il colore rosa e coinvolgono sempre cose che hanno a che fare con la bellezza (la bambola da acconciare e vestire, ad esempio) o la cura (il bambolotto per far la mamma). Razzi, macchinine e cose del genere vengono tipicamente associate ai maschi. Gli viene sottilmente inculcata l’idea che per una femmina è importante essere bella e ammirata, e tutti inteneriscono se, alla domanda “cosa vuoi essere da grande?”, risponde “la ballerina” o “la principessa”.
Del resto, anche quando sarà più grande cosa vedrà in giro, nelle pubblicità, ad esempio, o in televisione? Donne che fanno gli accessori estetici. Nelle pubblicità delle macchine, ad esempio, tutte fallocentriche, concentrate nel mostrare le doti prettamente “maschili” del prodotto, tipo quella pubblicità orrenda del tizio che andava a prendere la morosa davanti all’asilo, con tutti gli altri padri con la prode in collo che lo guardavano invidiosi. E, del resto, alle fiere automobilistiche non manca mai la modella con la coscia al vento accanto al prodotto. Ma per vendere qualsiasi cosa è necessaria la gnocca, fateci caso. Vendi il prosciutto, e metti un culo di donna. Vendi un giornale, altra chiappa in bella vista. Tutto così, affinché il messaggio sia chiaro.
Quindi, il problema non è l’esempio di sessismo mild; non ci sarebbe alcun problema a mostrare un uomo in una situazione di potere e una donna che fa da contorno (entro certi limiti, ovviamente, e mi par di capire che il caso in discussione che ci stesse dentro assai ampiamente). È che quello è l’unico modello. Dove ti giri e ti volti è tutto così. Il problema è la pervasività della cosa, penetrata così a fondo nella nostra mentalità che ci sembra ormai normale.
Stamattina, ad esempio, leggevo questo. E mi sono resa conto che, per il solo fatto che a parlare fosse un uomo, la frase “ero vestito in un certo modo e allora me la sono cercata” assumeva ai miei occhi un aspetto grottesco che in bocca ad una donna non mi avrebbe fatto. E io sono stata cresciuta in un ambiente il più possibile attento alla parità di genere.
Io capisco che è difficile andar contro tutto quello che ci viene insegnato fin da quando siamo in fasce. Ma occorre fare uno sforzo, e andare oltre il “vabbeh, stai esagerando”, perché dietro c’è un quadro assai più ampio.

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