Archivi del mese: febbraio 2014

Prossimi incontri

Oggi sarà una giornata intensa, ma è ora di aggiornare un po’ la lista dei miei prossimi incontri.
Dopo questa pausa invernale, si ricomincia da marzo. Per la precisione l’8 Marzo, ore 20.00, potremo vederci all’Osservatorio Astronomico di Roma per una serata tutta su donne e stelle. Occorre la prenotazione, tutti i dettagli a questo link.
Poi, dal 21 al 24 Marzo torno in Francia, per la Fiera del Libro di Parigi. Tutti i dettagli a breve, e mi toccherà rispolverare il francese :) .
Il 25 Marzo, invece, appuntamento alla Fiera del Libro di Bologna, ore 16.30, per un incontro divulgativo assieme al Prof. Bignami. Anche qui, stay tuned per tutti gli ulteriori aggiornamenti, perché il programma è in via di definizione.
Bon, ci sono svariate altre cose, ma sono più in là e ancora in via di definizione.
A presto!

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Cosa ci fa andare avanti

Uno dei primi problemi che mi sono posta, dopo essere passata dal lato di chi le storie le inventa, è stato capire quali soddisfazioni cercare nel mio lavoro. In sintesi, in seguito a quali particolari eventi o reazioni del pubblico avrei dovuto concludere che ero soddisfatta di ciò che stavo facendo. Può sembrare una questione da poco, ma non lo è. Perché la letteratura non appartiene a quelle branche dello scibile umano in cui ci sia unanimità sui criteri che determinano la qualità, e dunque un libro che la critica trova orrendo poi magari vende tantissimo, e viceversa, e allora chi ha ragione? Inoltre, la scrittura è un mestiere sostanzialmente solitario, l’incontro col pubblico è limitato e viziato da bias a monte (a una presentazione tipicamente viene la gente che già ti ama, e anche chi ti scrive in larga maggioranza è chi ti apprezza). E allora?
Allora devi scegliere l’obiettivo. Puoi decidere che ti accontenti delle buone vendite; d’altronde, viviamo in una società capitalista, e coi soldi ci si campa, per cui riuscire a vivere del lavoro di scrittura è un grandissimo traguardo che riesce a pochi e che dovrebbe lasciare soddisfatti. Oppure c’è chi vuole il riconoscimento da parte della critica, o si sente soddisfatto quando riceve un premio. La verità è che ognuno ha le sue soddisfazioni, e nessuna di queste è assoluta: ci sarà sempre qualcuno che, nonostante gli obiettivi raggiunti, ti verrà a dire che fai schifo comunque, e contraddirlo è impossibile. Esistono dei criteri di qualità oggettivi, certo, ma contano fino ad un certo punto: il resto è nebuloso e confuso.
Io ci ho messo dieci anni a capire cosa dovessi considerare obiettivo del mio lavoro, a quali tipi di gratificazioni dovessi puntare. Non è stato un processo semplice, perché chi scrive di genere in questo paese – ma anche fuori, mi dicono – è piuttosto negletto, quindi automaticamente parte con uno svantaggio: larga fetta dell’establishment considera quel che scrivi robaccia adatta a palati poco raffinati. Inoltre, andarsi a leggere recensioni in giro per la rete non è un buon modo per capire cosa la gente pensa dei tuoi libri: avete mai fatto caso che c’è una polarizzazione in base al sito che ospita la recensione? Oppure che a fronte di un voto complessivo alto, poi ci sono tipo dieci recensioni tutte negative? E allora?
E allora niente. Quando ho iniziato a scrivere, l’ho probabilmente fatto per cercare di vivere più profondamente le emozioni che mi dava la fruizione di storie. Sono sempre stata un tipo ossessivo, e salto da una fissazione all’altra quasi senza soluzione di continuità. Va da sé che le ossessioni più forti mi vengono dalle storie (o non avrei letto diciassette volte Il Nome della Rosa, per dire, né mi sarei ritrovata, a venticinque anni suonati, a sognare la notte l’isola di Lost) e ho sempre amato il modo in cui certi scrittori sono stati in grado di farmi entrare nei loro mondi, di catturarmi e non lasciarmi più andare via. Ricordo che dopo aver finito Il Signore degli Anelli mi misi a disegnare, e ne venne fuori un Legolas molto à la Pak di Berserk, e l’abbozzo di un Cavaliere Nero che poi non finii più. Dopo aver letto La Solitudine dei Numeri Primi, feci uno schizzo di Alice.
Questo lungo, lunghissimo preambolo per dire che la mia personale soddisfazione, l’ho realizzato da un po’ di tempo, è riuscire ad ossessionare chi mi legge. Voglio entrare a far parte del suo immaginario, anche per poco tempo, ma fargli credere per un’ora o due di vivere a Nashira, o nel Mondo Emerso, o nella villa del Prof sul lago Albano. ora, non so se questa cosa funzioni o no, e su che scala, ma per qualcuno funziona, e tanto mi basta. Con gli anni si diventa saggi, e io sono sempre stata una per i piccoli passi.
La prima volta che ho capito di aver quanto meno colpito qualcuno è stato coi cosplay. Certo, lì c’entra tantissimo anche l’aspetto grafico di Paolo, quindi non era certo solo merito mio, ma qualcuno stava comunque facendo il cosplay di un mio personaggio.
Poi è arrivata la fanfiction su Nihal che incontra Garrett, il fighissimo ladro protagonista di Thief, uno splendido videogioco che mi ispirò Le Guerre del Mondo Emerso. Io non ho mai scritto fanfiction, semplicemente perché non riesco a infilarmi nelle storie altrui e ne voglio di mie, ma non si contano le volte in cui, dopo aver letto/visto una storia sono stata lì a rimuginare, a immaginare finali diversi, a riempire i buchi. E l’idea che qualcuno lo facesse coi miei racconti era esaltante.
Oggi ho scoperto EFP. Ci sono fanfiction di ogni genere. E qualche centinaio riguarda il Mondo Emerso, la Ragazza Drago, e Nashira. E vederle, scorrere i titoli e le trame, vedere cosa aveva colpito di più i lettori, è stato esaltante. Non scrivi una cosa sulla storia di un altro se non sei riuscito a viverci dentro almeno solo un minuto, se per un istante quella storia non ti ha catturato. O almeno, io la vedo così. E l’idea di essere riuscita a produrre, nella mente della persona, quel minuto di rapimento al mondo è una soddisfazione vera, una cosa di quelle che ti spinge subito alla scrivania a scrivere ancora.
A me hanno colpito quelle di Nashira, perché è il figlio minore e quello che veniva dopo sette anni e nove libri di Mondo Emerso, ho sempre avuto paura che non sarebbe piaciuto, che non mi fossi spiegata bene, e via così. Ma c’è veramente di tutto, tra cui tanta roba con personaggi nuovi. Ora, non è che non sapessi che c’erano le fanfiction. È che vederle tutte insieme mi consola, mi fa piacere, mi lusinga. Se vi va, dateci un’occhiata, è un gioco divertente. Attenti perché è pieno di spoiler.

Mondo Emerso
Ragazza Drago
Nashira

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Sherlocked

Il post su Sherlock arriva prima del previsto.
Preparatevi, sarà lungo, perché le sette puntate viste finora mi hanno stimolato una serie di riflessioni generli sullo storytelling. Così, per fingere che non mi sto tanto divertendo a vedere un’ottima serie televisiva, ma sto lavorando :P .
Comunque. Non sono una grande esperta di Doyle, anche se ho letto tipo un racconto su Sherlock Holmes e da bambina amavo, e ho letto svariate volte, Il Mondo Perduto, ma lì c’erano i dinosauri, e all’epoca – ma pure adesso – bastava una squama a comprarmi per la vita. Mi sono quindi avvicinata al prodotto Sherlock semplicemente perché sono orfana di serie televisive da un po’. Visto che i miei amici su Facebook non facevano che parlarne, mi sono comprata i primi due cofanetti. Visione rigorosamente in lingua originale, che così faccio esercizio, e senza sottotitoli, che non sono mai stata capace di leggerli e seguire l’azione.
Diciamo che fino alla seconda puntata della prima stagione l’ho trovato gradevole. Intendiamoci, c’era già moltissimo di apprezzabile. Ma Sherlock Holmes ha trovato otto miliardi di incarnazioni differenti nei secoli, e quel tipo di dinamica – sociopatico geniale, al contempo insopportabile e adorabile, affiancato da uomo comune saldamente piantato coi piedi per terra che rappresenta un po’ il suo lato umano – ci è stata proposta in mille salse diverse, a partire dalle riduzioni cinematografiche e televisive vere e proprie dei racconti, fino a scantonare a cose evidentemenye ispirate a, tipo il Dr. House o in certa misura il rapporto Sheldon-Leonard in The Big Bang Theory. Non che nel caso di Sherlock la cosa fosse riproposta male, o in modo banale. Solo, mi sembrava di averla già vista. Mettiamoci anche che, delle sette puntate che ho visto finora, la 1×2 è la più debole. Poi è arrivato il finale di stagione. E lì, vabbeh, niente, è partito l’amore. Probabilmente è dovuto al fatto che ho una fascinazione per i cattivi sopra le righe, psicotici e interpretati da gente che pare pazza vera, e dunque con Moriarty il mio gusto per il grottesco è stato abbondantemente titillato, sarà che la trama era intricata, complessa, e che indubitabilmente “acchiappa”, sarà che al terzo episodio tutte le dinamiche, le presentazioni del caso, erano fatte, e dunque il meccanismo ben oliato era lanciato, ma, niente, ho capito che stavo diventando dipendente. Poi arriva quel gioiellino della 2×1, e lì ero ormai perduta.
Mi ci è voluto un sacco di tempo per mettere a fuoco perché Sherlock mi piaccia, e perché certe cose, certi snodi, abbiano finito per ossessionarmi. L’impressione iniziale – di cose del genere se ne sono già viste, quanto a nucleo tematico – non è cambiata. E allora? E allora ieri, mentre mi gustavo il primo episodio della terza stagione, ho avuto la mia epifania. Ho scoperto una cosa che sapevo già: non è quel che racconti, è come lo fai. E per come, nel caso di un telefilm, intendo regia, musica, attori, sceneggiatura.
L’originalità è ormai un mito inarrivabile. Cioè, certo, c’è chi la insegue, magari la consegue anche, e fa benissimo, ma la verità è che le storie che funzionano meglio sono quelle che ci siamo sentiti raccontare miliardi di volte. Le conosciamo a memoria, probabilmente a volte ci risultano anche prevedibili, ma non possiamo fare a meno di restare catturati, perché sono seminali. E Holmes, che è sulla cresta dell’onda da due secoli, è una di queste storie. Venuta meno l’originalità, resta solo la messa in scena, il modo di raccontare. E Sherlock, sotto questo punto di vista, è magistrale, in tutto. Novanta minuti di puro godimento. Funzionano gli attori, che, cosa gli vuoi di’, dal primo all’ultimo, compreso quello che compare per mezzo nanosecondo, sono tutti bravissimi, e si producono in interpretazioni che ti resta solo da alzare le mani. Funziona la regia, dinamica, curata e a volte preziosa, senza essere però troppo “fighetta”, con artifici visivi divertenti (tutte quelle scritte a schermo…deliziose). La fotografia è qualcosa di spettacolare: hai una città dove il sole non c’è mai, dove tutto è grigio? ‘Sti cazzi! Approfittiamone! Che sia tutto luccicoso di pioggia, grigio e definito come in un quadro. La sceneggiatura…e vabbeh, pure lì hai tipo venti trenta battute a episodio che ti tatueresti sulla pelle. I soggetti spesso vengono dai libri e dai racconti, e ne sono, a quanto mi dicono coloro che li hanno letti, geniali reinterpretazioni (devo dire che la rielaborazione della famigerata caduta dalle cascate di Reichenbach, in effetti, lo è), per cui funzionano alla grande. La somma di questi elementi dà un risultato impeccabile, in cui tutto funziona, e che soprattutto produce un mondo altro. Guardare Sherlock è infilarsi per novanta minuti in una dimensione parallela e autosussistente, chiusa in se stessa, come infilarsi in una camera insonorizzata e staccare dal mondo. È la capacità della grande narrazione di genere, creare mondi, salotti all’interno dei quali il lettore è invitato ad entrare e ad ammobiliare fino a sentirsene parte. Guardi un episodio, e, non so come dire, sei a casa. Creare mondi non è solo inventarsi il pianeta X con le regole Y; è costruire ambienti che catturino il lettore/spettatore e non lo lascino andare. Sherlock è una macchina per produrre questo. E, ça va sans dir, non è tanto la storia del “caso dell’episodio”, o soltanto di uno che, armato di sola logica, mette ordine nel caos del mondo, per quanto, ovviamente, sia anche questo. È una storia di evoluzione di personaggi, dei rapporti che tessono, delle reazioni che hanno di fronte a ciò cui la vita li mette davanti. Sono i personaggi che funzionano, e quelli che appassionano. Anche questa è una banalità, eppure nella mia carriera di lettrice spesso mi sono imbattuta in libri in cui leggevo le gesta dei protagonisti e non mi interessava davvero nulla di loro o di quel che sarebbe accaduto. La gente si limitava a fare cose e vedere gente (cit.) senza produrre mai un vero coinvolgimento col lettore. A quel punto puoi anche ammazzarmeli tutti, se non sono entrata nella loro testa nessuna di quelle morti, per quanto egregiamente scritta, sarà un picco emotivo. Ecco, in Sherlock ti frega di tutti, ma proprio tutti. Nell’arco di soli sei episodi, sono diventati tutti amici miei per i quali spasimo. E non è facile.
E poi c’è questa storia del primo episodio della terza stagione, quella che davvero mi ha fatta riflettere. Da qui in giù sarò spoilerosa per chi non conosce un po’ le vicende dell’Holmes letterario, e un po’ anche con chi non è ancora arrivato a questo punto della serie. Niente di che, comunque. E insomma, la seconda stagione terminava col finto suicidio di Holmes, e lasciava alla terza l’improbo compito di spiegare come aveva fatto Sherlock, in tre secondi netti in cui Watson non guardava, a fingere di spiaccicarsi per terra ma in realtà a sopravvivere. Mi dicono che i due anni trascorsi tra seconda e terza stagione sono stati impiegati da molti fan a cercare di spiegare come questa cosa sia stata possibile. Ci troviamo insomma in una situazione à la Lost: mettere insieme gli indizi per cercare di spiegare una cosa inspiegabile. Lost se l’è cavata sparando nel misticismo. Sherlock è ancora più paraculo: nemmeno ci prova a darti una spiegazione. Ne inanella quattro o cinque nell’episodio, tutte sostanzialmente implausibili per una ragione o per l’altra (ma tutte che strizzano in qualche modo l’occhio al fandom che s’è scervellato) e conclude senza darne nessuna. La reazione dello spettatore dovrebbe essere di frustrazione e rabbia. E invece no. Al netto delle varie opinioni, non gliene frega niente a nessuno. A me non è fregato niente su tutta la linea. Ma zero proprio. E perché? Perché è tutto “a magic trick”, un gioco di prestigio. Il narratore agita le mani, e se le muove bene, a te non interesserà sapere da dove è uscito il coniglio: ti godrai la magia, sarai tornato bambino per un attimo, e il trucco sarà irrilevante. Così con le narrazioni fatte per bene. Chi sa narrare, chi lo sa fare per davvero, è in grado di far passare il lettore sopra a molte incongruenze e implausibilità. Non sto dicendo che si debba fare, non sto dicendo che la maggioranza lo fa: dico solo che quando una storia ti prende per davvero, certe cose semplicemente smettono di avere importanza. E perché? Perché, semplicemente, non sono quelle il punto. Non era importante, ai fini della trama, dello sviluppo dei personaggi, persino della loro caratterizzazione, sapere come Sherlock sia sopravvissuto. Non è il fulcro della narrazione (lo era invece, per inciso, in Lost, che ci aveva fondato su tutta la sua mitologia). Siamo tutti Watson, quando Sherlock inizia a cercare di spiegare come ha fatto a portare a casa la pellaccia. Non ci interessa sapere come ha fatto, ma perché. Tutto qua.
Ammetto che il trucchetto mi ha lasciata ammirata. È stata una scelta coraggiosa, ma assolutamente vincente: è la potenza della storia, della narrazione, che vince su tutto. Ma devi essere bravo, un sacco bravo, fuori scala.
Comunque. Come avrete capito, io in quel salotto sono entrata e mi ci sono fermata, ritagliandomi il mio bell’angolino. E ho lasciato che l’illusionista facesse su di me tutti i trucchi che voleva. Ci sono dentro. L’unico, vero problema è l’estrema brevità del tutto: ogni serie conta tre puntate, che durano 90 minuti, certo, ma fanno comunque sei episodi di una serie televisiva normale, di quelle da 26 episodi a stagione. Poco. Già oggi mi sono rifiutata di vedere la 3×02 perché poi ne manca una sola (in tutto, al momento, sono tre stagioni), poi mi tocca aspettare, che palle…Ma il marito non è stato ancora catechizzato, per cui conto almeno su una visione ulteriore. E poi, poi si aspetta. Sperando che pure questa non faccia la fine di Misfits, una delle più grandi delusioni di questi anni di serie televisive. Ma voglio essere ottimista, via :) .

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Notizie da Scrivolandia

Con NICDAP sto spingendo al massimo. Lavoro come una forsennata, macinando battute su battute. Le mie sessioni di scrittura sono sempre state piuttosto intense, ma tutto sommato, magari proprio per questo, abbastanza brevi. Tre ore la mattina, a volte un piccolo strascico il pomeriggio. È che dopo un po’ mi esaurisco, sento di non poter andare avanti a raccontare, che quel che ho scritto deve sedimentare perché possa andare avanti. Magari è sbagliato, ma per me funziona così. Prima stesura di pancia, buttando fuori tutto quello che mi riempie la testa, e poi, solo alla fine, rilettura, editing, riscrittura, riscrittura, riscritura. Fino alla nausea. A volte riscrivo anche i 2/3 della prima stesura. Con NICDAP il momento del’esaurimento non arriva quasi mai. Parto e vado sparata come un treno, forzando le tappe. Scrivo di viaggi forsennati, senza soste e tappe intermedie, e sembra un po’ il mio viaggio in questa storia, tutto dritto senza tirare il fiato. Ed è una bella sensazione. Un po’ mi spaventa, perché non mi era mai capitato, ma è piacevole. La passione per un storia è molto simile all’innamoramento, che si tratti di qualcosa che stai raccontando tu o di qualcosa che stai leggendo. Ti gira per la testa, ti torna ossessivamente in mente, te la racconti più e più volte in mente, assaporandola a fondo. Sarà la ragione per la quale le storie che mi piace leggere/vedere poi mi fanno venire voglia di scrivere. Per me lettura e scrittura sono due piaceri strettamente legati, complementari.
Comunque, finirà che NICDAP sarà il libro che avrò scritto più in fretta nella mia carriera. Poi magari correggerò per due anni, vai sapere. Mi pare improbabile, visto che uscirà in autunno, se tutto va bene.
La storia di NICDAP è strana, perché per la prima volta se ne parlò tipo due anni fa, e l’idea in sé, non la storia, che all’epoca neppure esisteva, non mi convinceva. Poi è passato del tempo, l’idea s’è sedimentata, ho tirato fuori la storia e ho cominciato, con l’idea di prendermi semplicemente una pausa prima del gran finale di Nashira, che, già lo so, sarà un’impresa piuttosto totalizzante. E invece col cavolo che sto tirando il fiato. Ci sono dentro con tutte le scarpe, e non credevo sarebbe successo. Ho tirato fuori roba che non credevo sarebbe mai entrata nei miei libri, ossessioni che, me ne accorgo solo ora, cercavano solo un spunto, un’occasione, per venire fuori. Mah, vedremo. Io intanto procedo così, meglio divertirsi finché si può anche perché…

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…ho scoperto che le storie che racconto non sono per me. Cioè, in verità avrei sempre dovuto saperlo, ma l’ho messo a fuoco solo ieri sera. Influenzata dall’ultima puntata della seconda stagione di Sherlock (credo prima o poi ne parlerò qua, dell’unica serie che di recente è stata capace di ossessionarmi come ai bei tempi tipo di Lost), mi sono andata a rileggere un po’ di pezzi dei miei libri che parlavano, diciamo così, dello stesso argomento. Chi ha visto capirà. E niente, è stata una tragedia. Dopo la pubblicazione, dopo le infinite letture e riscritture, gli scazzi e le parolacce che inevitabilmente riverso su quel che ho scritto quando mi tocca correggerlo, le mie parole non mi dicono più niente. Zero in croce. Leggo e il mio coinvolgimento è zero. Le uniche sensazioni che provo sono riferite al “qui cambierei questo”, “meno parole, in questo cazzo di pezzo”, “no, vabbeh, questa qua è davvero patetica”. Riscriverei tutto. Non lo faccio semplicemente perché io sono una che racconta storie, e un libro finito, pubblicato e letto è semplicemente morto, per me, ha detto quel che doveva, quel che non va continuerà a non andare per sempre, avanti un altro. Ma l’emozione che mi aveva agitata quando avevo scritto, quella è svaporata tutta. Perché quando scrivo mi emoziono. Come dicevo prima, è come quando leggo: entro nella storia e ne sono coinvolta. Quelli come me – e come voi, suppongo, visto che mi leggete – leggono per vivere miliardi di altre vite, non tanto perché non gli piaccia la loro, ma perché l’esistenza è una cosa così gigantesca, e breve, che viverne una sola è un po’ un peccato. L’unico modo per guardare la vita da altri punti di vista è leggere, per me anche scrivere.
Mi sono emozionata quando ho fatto morire ognuno dei miei personaggi, anche quelli meno importanti, mi sono emozionata quando hanno trovato l’amore o l’hanno perso, e non l’ho fatto una volta sola, mentre ne scrivevo; l’ho fatto miriadi di volte, quando mi scrivevo in testa quel che avrei poi buttato su carta. E ci sono cose, tipo il destino di Saiph, o di Laio, che mi sono raccontata in testa per mesi, cambiando le virgole, spostando il punto di vista, vivendole da tutte le angolazioni. Poi finiscono su carta è improvvisamente non vivono più in me. Non mi appartengono più, non mi emozionano più. Se ne sono andate. Se ci ripenso sento l’ombra di quel che provavo quando erano ancora solo nella mia testa, se le rileggo mi danno il voltastomaco.
È che una storia scritta non appartiene più a chi l’ha inventata. È di chi la legge. Si fa il suo cammino tra i lettori, e rinnega l’autore. Forse è questa la ragione di un altro fatto strano: ogni tanto su Facebook trovo qualcuno che posta qualche citazione che mi è familiare. Sono citazioni dei miei libri, che magari avevo dimenticato. E, ogni volta, mi sembrano parecchio più belle di quanto non siano, o mi fossero sembrate quando le avevo rilette per qualche ragione. È che sono filtrate dalla sensibilità di chi le ha lette, le ha fatte proprie, vi ha proiettato la sua vita, e le ha lasciate andare diverse, modificate da quell’incontro.
In questo senso forse è vero che non si scrive per se stessi, ma per chi leggerà.

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Consigli di lettura

NICDAP chiama (il nuovo progetto top secret, ricordate?), ma due minuti per altrettanti consigli di lettura voglio ritagliarmeli. Sono due libri piuttosto diversi, ma li ho letti in successione, e mi hanno stimolato riflessioni differenti, ma accomunate da uno stesso segno: la capacità di fare entrare nelle vite degli altri.
Il primo è Yellow Birds, di Kevin Power, che, lo si può dire senza tema di smentita, è un capolavoro fatto e finito. Parla della guerra in Iraq, ed è sostanzialmente la storia di due ragazzi, poco più che bambini, in quella guerra impegnati. Uno dei due ce la farà, l’altro morirà, lasciando il primo preda del senso di colpa e dello sgomento per non essere stato in grado di salvarlo. La trama, comunque, è del tutto secondaria, perché ciò che rende Yellow Birds quel capolavoro che è, e, al contempo, un libro necessario e che resterà a lungo, è la capacità di far vivere la guerra. Roth disse che dopo Se Questo è un Uomo nessuno poteva più affermare di non essere stato ad Auschwitz; la stessa cosa vale per Yellow Birds. Leggerlo è un’esperienza di vita, ti spalanca un mondo di orrori e sistematica decostruzione dell’essere umano che spiega in modo terribilmente palpabile, vero, cosa sia in fondo la guerra. E te la fa vivere, perché non si limita a mostrarti la vicenda di Murphy e Bartle, ma ti mette letteralmente nei loro panni e nella loro testa. Nei giorni in cui lo leggi – sempre troppo pochi – vivi nella testa di un soldato, e la guerra è con te in ogni istante della tua giornata. Inutile che vi dica quanto abbiamo bisogno di un libro del genere. Per fortuna, l’ultima guerra dista dalla mia generazione quasi settant’anni. Una fortuna, certo, ma al tempo stesso stiamo dimenticando cosa sia davvero la guerra, perché anche chi poteva raccontarcelo sta morendo. Quando avremo del tutto dimenticato, saremo pronti a rivivere. Ma Yellow Birds ce lo ricorda, ce lo mostra. Non potremo più dire di non sapere. Tralascio ogni ulteriore discorso sullo stile asciutto e straordinario, perché, ancora, è subordinato alla potenza che un libro del genere è in grado di esprimere.
Il secondo è Non Dirmi che hai Paura, di Giuseppe Catozzella. È la storia di Samia Yusuf Omar, atleta somala che partecipò alle Olimpiadi di Pechino nel 2008. Samia è morta nel 2012 cercando di raggiungere il nostro paese, annegata nelle acque del Mediterrano come tanti, troppi suoi connazionali. Samia era salita agli onori delle cronache per un breve periodo proprio nel 2008: proveniva da un paese in guerra, arrivò ultima alla sua batteria, ma divenne presto un simbolo di chi lotta per i propri sogni nonostante la guerra, le avversità, l’integralismo che stava mangiando dall’interno il suo paese. Poi, scivolò nel dimenticatoio, fino alla fine della sua storia, in mezzo al mare.
Un’altra cosa che abbiamo perso, in questi anni, è la capacità di metterci nei panni degli altri, quegli altri che, fino al secolo scorso, eravamo noi. Anche noi siamo morti in mezzo al mare o sotto terra, disprezzati dai paesi in cui andavamo, disperatamente alla ricerca di un domani meno cupo, se non per noi, per i nostri figli. Ce lo siamo dimenticato, e adesso guardiamo ai migranti come ad una scocciatura, a gente che viene qui a rubarci il lavoro e che deve stare a casa propria. Dimenticando i drammi di cui ciascuna di quelle vite è portatrice. Catozzella ci fa vivere con Samia per tredici anni della sua vita, mostrandoci quale immenso spreco di vite, di sogni, di possibilità si consumi a qualche migliaio di chilometri da casa nostra, e poi direttamente nei nostri mari, sulle nostre coste. Cosa avrebbe potuto diventrare Samia se fosse riuscita ad arrivare in Italia? Cosa avrebbe potuto dare allo sport se avesse avuto un allenatore vero, avesse potuto mangiare regolarmente, fosse vissuta in un paese in pace? Nessuno può dirlo. La sua storia si è interrotta a ventun’anni, mentre cercava di scoprirlo. E accade così per migliaia di altre persone, che potrebbero dare molto alla collettività, e vivere vite felici, vite normali, e muoiono prima di poter fare alcunché. Qualche giorno fa una delle pagine più intelligenti presenti su Facebook ha postato questa foto. È una cosa che pensavo spesso da ragazzina, quando riflettevo sulla mortalità infantile nei paesi poveri. Continuo a pensarlo anche adesso. Forse è una domanda che dovremmo farci tutti più spesso.

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Il ritorno del Mondo Emerso

Ad Aprile faranno dieci anni dalla pubblicazione di Nihal della Terra del Vento. Sono dieci anni che faccio questo lavoro. Da un lato mi sembrano tantissimi, dall’altro mi pare siano volati. Scrivere, e pubblicare, ormai fanno parte del modo in cui definisco me stessa, e non so immaginarmi a fare altro se non raccontare storie. D’altra parte, mi sembra ieri che, con quindici chili più di adesso addosso, varcavo le porte del Lingotto assieme ai miei, a Sandrone, Massimo Turchetta e Marco Giusti, per la prima presentazione della mia vita. Ne sono successe di cose, da allora.
A partire dal 20 Febbraio, sarà disponibile la ristampa dei tre volumi del Mondo Emerso; visto che mi sa che alcuni di voi all’epoca della prima uscita non sapeva leggere – urgh, la vecchiaia… – vi ricordo i titoli: Nihal della Terra del Vento, La Missione di Sennar, Il Talismano del Potere.
Voi direte, vabbeh, una ristampa, e capirai. No, perché c’è un elemento di novità, un grosso elemento di novità, che potete vedere qua sotto.

L’autore delle illustrazioni di copertina si chiama Corrado Vanelli. Mi rendo conto che si tratta di un grosso cambiamento, che siete abituati a vedere il Mondo Emerso in un modo completamente diverso; io però ho amato queste illustrazioni fin dal primo momento in cui me le hanno mostrate. Mi piace soprattutto Nihal, perché l’artista ha colto di lei elementi che secondo me fin qui non erano stati mostrati, ma che erano presenti nel personaggio fin da principio. È questa la cosa bella del passaggio della cretività da un medium all’altro, da un artista all’altro: che ognuno aggiunge un pezzetto, mette in luce un aspetto diverso del progetto iniziale. Io sono stata fortunata, e in tutte le incarnazioni che il Mondo Emerso ha avuto negli anni, c’è stato sempre un arricchimento. Le illustrazioni di Paolo hanno innegabilmente modificato il modo nel quale percepivo il Mondo Emerso, influenzando anche le mie storie. Il Mondo Emerso, l’ho sempre detto, continua a essere vivo in me, anche se negli anni ho parlato d’altro e ho sterzato verso nuovi lidi; non può essere altrimenti, visto che è grazie a lui che sono stata in grado di intraprendere questa carriera. Per cui, chissà se in futuro non sarò influenzata anche da questo nuovo modo di vedere i miei personaggi. Per ora me li godo in questa nuova incarnazione, e spero ve li godiate anche voi.

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Aggiornamento: Pandora, NICDAP, Nashira 4

Ho fatto caso che qua sopra parlo tantissimo di un sacco di roba, e pochissimo della ragione per cui questo posto è nato, ossia la mia attività di scrittrice. Sì, qualche riflessione sui massimi sistemi, ma niente rispetto a quello che sto scrivendo adesso, o quel che ho in progetto. Per cui, oggi, aggiornamento:
come saprete, il prossimo progetto in canna è Pandora, che è un fantasy ambientato, almeno per il primo libro, a Roma. Ho finito prima e seconda stesura, adesso si sta procedendo di labor limae. Posso dirvi che i protagonisti sono due, un ragazzo e una ragazza. La ragazza, l’avrete capito, è Pandora. Su Twitter ho postato un paio di indizi, due immagini prese dalla rete che, in un modo o nell’altro, hanno a che fare col libro. Ve le reincollo qua sotto.

Ne aggiungo anche una terza, via: eccola. Vi assicuro che, nonostante le immagini un po’ cupe, è un libro divertente, sullo humor nero, direi.
Uscirà in primavera, credo lo presenterò alla Fiera di Torino, ma restate sintonizzati per ulteriori informazioni.

Oltre che con l’editing di Pandora, in questo periodo sono impegnata con un altro progetto, di cui ho parlato di recente su Twitter. Sono a buon punto, più o meno a metà. Di questo non posso dirvi molto, è più o meno top secret. Ha un titolo di lavoro che, con le iniziali, suona più o meno NICDAP. È un fantasy, ma, rispetto alla mia produzione recente, è un outsider. È una cosa nuova, ma con legami nel passato, ecco. Ieri ho buttato là che incidentalmente è una cosa che parla anche di famiglia. Bon, basta, che sennò spoilero. NICDAP, se mai si intitolerà davvero così, uscirà in autunno.

Infine, in molti mi chiedono quando uscirà il quarto libro di Nashira. Premetto che sarà l’ultimo della serie dei Regni. Dovrebbe essere pubblicato a inizio 2015, ma, per la verità, una data proprio precisa ancora non c’è. Ho raccolto un po’ di idee che si sono andate a sommare all’intelaiatura della trama, che già conoscevo fin da quattro anni fa, quando ho progettato la saga, ma ancora non ho iniziato a scrivere. Mi ci voglio mettere su per bene, è la conclusione, è importante, vengono fuori temi abbastanza massicci, voglio prendermi il mio tempo.

Bon, tutto qua. Ho anche in programma alcune presentazione, ma ve ne parlerò prossimamente :) .

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Le storie non tradiscono

Mi ero riproposta di scrivere qualcosa, oggi. Avevo anche più o meno in testa l’argomento. Solo che sono in overdose da parole. Il mio umore è una sinusoide, ne ho già parlato tante volte, e adesso siamo nella parte discendente della curva, e forse il problema è anche questo. Ma non solo. Non sono certo in overdose da storie: continuo a raccontarne a un ritmo molto sostenuto: da questo punto di vista, questo è un periodo piuttosto felice. Sono in overdose da opinioni. Non ne posso più. Sono stanca persino di esprimere la mia.
C’era un tempo in cui la riflessione era uno spazio privato: si discuteva pubblicamente, per carità di Dio, ma c’era pure il momento in cui, nel segreto della tua stanza e della tua coscienza, ti formavi la tua opinione, plasmandola sulle tue letture, sulle tue fruizioni culturali, anche sul confronto con le esperienze di vita altrui, certo. Adesso no. Adesso si nasce con un’opinione già bella cucita addosso, pronta per essere lanciata sul prossimo a mo’ di proiettile. Adesso tutti ti devono dire come la pensano su ogni cosa, trascinandoti in infinite discussioni che non hanno alcuno scopo, se non riempire in qualche modo la pausa caffé. Tutti ti devono convincere della bontà delle loro convinzioni, perché, ehi, sei tu che non hai capito, adesso ti illumino io. In tutto ciò, lo spazio per la riflessione è zero spaccato. Non ne avanza, con tutto quello che ci prende cercare di esprimere il nostro pensiero – formatosi dove? quando? – urbi et orbi.
Ho vissuto così, esprimendo quel che pensavo ad ogni piè sospinto, per un sacco di tempo. Ho espresso la mia sui forum, sul blog, su Twitter, su Facebook. Contuinuo a farlo. Solo che improvvisamente vedo l’immensa vacuità del tutto. In un mare di parole come quello della rete, la mia quanto vale? Meno di zero? E discutere quando lo spazio per il confronto manca, visto che la discussione rapidamente degenera nelle frasi fatte e negli insulti, a che serve?
Invece le storie non mi tradiscono mai. Le storie non mi stancano. Perché le storie non ti vogliono catechizzare, non vengono lì a convincerti di qualcosa, né vengono a insultarti, a dirti che non hai capito. Le storie sono punti interrogativi. Sono domande lasciate da qualcuno, cui forse qualcun’altro risponderà, ma tutto sommato non è necessario: è il dubbio che ci forma, ci plasma, ci fa cambiare idea.
Ecco, forse, visto il mio lavoro, dovrei piantarla di esprimere la mia opinione, e raccontare invece le mie storie. Che siano per divertire, per far riflettere, per far ridere o per far piangere. Che vadano e facciano il loro cammino, che si scavino la strada che preferiscono nei cuori di chi legge. Non è più costruttivo e piacevole?

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