Archivi del giorno: 19 febbraio 2014

Notizie da Scrivolandia

Con NICDAP sto spingendo al massimo. Lavoro come una forsennata, macinando battute su battute. Le mie sessioni di scrittura sono sempre state piuttosto intense, ma tutto sommato, magari proprio per questo, abbastanza brevi. Tre ore la mattina, a volte un piccolo strascico il pomeriggio. È che dopo un po’ mi esaurisco, sento di non poter andare avanti a raccontare, che quel che ho scritto deve sedimentare perché possa andare avanti. Magari è sbagliato, ma per me funziona così. Prima stesura di pancia, buttando fuori tutto quello che mi riempie la testa, e poi, solo alla fine, rilettura, editing, riscrittura, riscrittura, riscritura. Fino alla nausea. A volte riscrivo anche i 2/3 della prima stesura. Con NICDAP il momento del’esaurimento non arriva quasi mai. Parto e vado sparata come un treno, forzando le tappe. Scrivo di viaggi forsennati, senza soste e tappe intermedie, e sembra un po’ il mio viaggio in questa storia, tutto dritto senza tirare il fiato. Ed è una bella sensazione. Un po’ mi spaventa, perché non mi era mai capitato, ma è piacevole. La passione per un storia è molto simile all’innamoramento, che si tratti di qualcosa che stai raccontando tu o di qualcosa che stai leggendo. Ti gira per la testa, ti torna ossessivamente in mente, te la racconti più e più volte in mente, assaporandola a fondo. Sarà la ragione per la quale le storie che mi piace leggere/vedere poi mi fanno venire voglia di scrivere. Per me lettura e scrittura sono due piaceri strettamente legati, complementari.
Comunque, finirà che NICDAP sarà il libro che avrò scritto più in fretta nella mia carriera. Poi magari correggerò per due anni, vai sapere. Mi pare improbabile, visto che uscirà in autunno, se tutto va bene.
La storia di NICDAP è strana, perché per la prima volta se ne parlò tipo due anni fa, e l’idea in sé, non la storia, che all’epoca neppure esisteva, non mi convinceva. Poi è passato del tempo, l’idea s’è sedimentata, ho tirato fuori la storia e ho cominciato, con l’idea di prendermi semplicemente una pausa prima del gran finale di Nashira, che, già lo so, sarà un’impresa piuttosto totalizzante. E invece col cavolo che sto tirando il fiato. Ci sono dentro con tutte le scarpe, e non credevo sarebbe successo. Ho tirato fuori roba che non credevo sarebbe mai entrata nei miei libri, ossessioni che, me ne accorgo solo ora, cercavano solo un spunto, un’occasione, per venire fuori. Mah, vedremo. Io intanto procedo così, meglio divertirsi finché si può anche perché…

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…ho scoperto che le storie che racconto non sono per me. Cioè, in verità avrei sempre dovuto saperlo, ma l’ho messo a fuoco solo ieri sera. Influenzata dall’ultima puntata della seconda stagione di Sherlock (credo prima o poi ne parlerò qua, dell’unica serie che di recente è stata capace di ossessionarmi come ai bei tempi tipo di Lost), mi sono andata a rileggere un po’ di pezzi dei miei libri che parlavano, diciamo così, dello stesso argomento. Chi ha visto capirà. E niente, è stata una tragedia. Dopo la pubblicazione, dopo le infinite letture e riscritture, gli scazzi e le parolacce che inevitabilmente riverso su quel che ho scritto quando mi tocca correggerlo, le mie parole non mi dicono più niente. Zero in croce. Leggo e il mio coinvolgimento è zero. Le uniche sensazioni che provo sono riferite al “qui cambierei questo”, “meno parole, in questo cazzo di pezzo”, “no, vabbeh, questa qua è davvero patetica”. Riscriverei tutto. Non lo faccio semplicemente perché io sono una che racconta storie, e un libro finito, pubblicato e letto è semplicemente morto, per me, ha detto quel che doveva, quel che non va continuerà a non andare per sempre, avanti un altro. Ma l’emozione che mi aveva agitata quando avevo scritto, quella è svaporata tutta. Perché quando scrivo mi emoziono. Come dicevo prima, è come quando leggo: entro nella storia e ne sono coinvolta. Quelli come me – e come voi, suppongo, visto che mi leggete – leggono per vivere miliardi di altre vite, non tanto perché non gli piaccia la loro, ma perché l’esistenza è una cosa così gigantesca, e breve, che viverne una sola è un po’ un peccato. L’unico modo per guardare la vita da altri punti di vista è leggere, per me anche scrivere.
Mi sono emozionata quando ho fatto morire ognuno dei miei personaggi, anche quelli meno importanti, mi sono emozionata quando hanno trovato l’amore o l’hanno perso, e non l’ho fatto una volta sola, mentre ne scrivevo; l’ho fatto miriadi di volte, quando mi scrivevo in testa quel che avrei poi buttato su carta. E ci sono cose, tipo il destino di Saiph, o di Laio, che mi sono raccontata in testa per mesi, cambiando le virgole, spostando il punto di vista, vivendole da tutte le angolazioni. Poi finiscono su carta è improvvisamente non vivono più in me. Non mi appartengono più, non mi emozionano più. Se ne sono andate. Se ci ripenso sento l’ombra di quel che provavo quando erano ancora solo nella mia testa, se le rileggo mi danno il voltastomaco.
È che una storia scritta non appartiene più a chi l’ha inventata. È di chi la legge. Si fa il suo cammino tra i lettori, e rinnega l’autore. Forse è questa la ragione di un altro fatto strano: ogni tanto su Facebook trovo qualcuno che posta qualche citazione che mi è familiare. Sono citazioni dei miei libri, che magari avevo dimenticato. E, ogni volta, mi sembrano parecchio più belle di quanto non siano, o mi fossero sembrate quando le avevo rilette per qualche ragione. È che sono filtrate dalla sensibilità di chi le ha lette, le ha fatte proprie, vi ha proiettato la sua vita, e le ha lasciate andare diverse, modificate da quell’incontro.
In questo senso forse è vero che non si scrive per se stessi, ma per chi leggerà.

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