Adesso che l’avventura è conclusa, posso dirlo senza troppe remore: il mio viaggio negli Emirati Arabi mi eccitava moltissimo, ma mi faceva anche molta paura. Mi spaventava l’idea del volo intercontinentale, perché non amo volare e ho paura a farlo, anche se non siamo proprio a livelli di fobia; mi spaventava l’idea di uscire fuori dall’Europa da sola, e di farlo andando in un paese così lontano e diverso, di cui conoscevo poco codici e cultura. Era la prima volta che andavo così lontana, era la prima volta che uscivo dall’Europa geografica, e lo facevo DA SOLA.
Ecco, adesso che sono ancora immersa in quella dolce malinconia da ritorno a casa, quella cosa lì che, se le dessi ascolto, faresti la valigia e ripartiresti subito, posso dire che è stata un’esperienza fantastica, che sono stata lieta di farla, e che lo rifarò al più presto. Per certi versi, lo considero il primo vero viaggio della mia vita: sono stata molto all’estero, ho coperto più o meno tutta l’Europa, ma fino a quando sei vicina a casa è diverso. Per quanto possiamo stare qui a menarcela con le differenze, i paesi Europei hanno molto più in comune di quanto non li differenzi, e quindi girare in questo continente significa ritrovare sempre un pezzettino di sé ovunque, e, soprattutto, non richiede quello sforzo di comprensione, di accettazione, che un viaggio in terre lontane esige. Per questo è stato un viaggio vero, inteso come dimensione dell’anima, ed è stato davvero bello .
Il post sarà molto lungo; procedo per temi, così chi vuole può leggere solo qualcosa. Le foto, invece, le trovate qua, e alla fine del post.
L’aereo
Ho iniziato a volare a quindici anni. Fino ad allora, era una cosa che mi affascinava moltissimo, e che volevo tantissimo fare. Lo feci da sola per un viaggio studio in Francia. Non so esattamente cosa accadde in quel primo volo, ma già al ritorno ero un po’ più spaventata che all’andata. Per farla breve, a me non piace volare: soffro di ansia anticipatoria, a partire a volte anche da qualche giorno prima, per un periodo ero una di quelle che al decollo si mettevano a piangere, le turbolenze mi gettano abbastanza nel panico. Ma alla fine volo: sono atterrata in un sacco di aeroporti Italiani, e sono stata nella maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale, e alcuni anche di quella orientale. Il problema è che Abu Dhabi dista sei ore di volo, e il volo più lungo che avevo mai fatto era stato quello per Mosca, quattro ore. Ed ero da sola, perché mio marito non poteva prendere le ferie e venire con me.
La somma di queste due cose ha significato PANICO. Venerdì mattina, in aeroporto, forse all’esterno potevo sembrare una persona normale, ma dentro stavo implodendo: alternavo momenti di calma assoluta a picchi di ansia allucinanti. Avevo delle fitte al petto, e un gran desiderio che qualcuno mi desse una botta in testa e mi risvegliasse ad Abu Dhabi.
All’andata ho tenuto mediamente botta. Il crollo c’è stato verso la fine, a un’ora dalla meta, quando l’aereo, per schivare una perturbazione sull’Arabia, ha iniziato a girare di qua e di là. Una turbolenza un po’ più forte mi ha beccata in bagno, e, insomma, ho fatto la solita scena: respiro corto, piantarello, giuramenti su giuramenti che non l’avrei mai più fatto in vita mia.
Ieri, per il viaggio di ritorno, niente. Niente su tutta la linea. No ansia prima, anche Grazie a Chiara Valerio che mi ha tenuta impegnata in discussioni stimolanti fino all’ingresso in aereo, no ansia a bordo, neppure alle poche turbolenze. Mi sono sparata due puntate di Sherlock (sì, sono sempre in fissa ), ho lavorato, ho sentito la musica, ho sentito un misto di gioia e tristezza all’atterraggio; ero triste di tornare, ero felice di rivedere la mia famiglia.
E insomma, non lo so se mi è passata. Non credo, ma me ne sono fatta una ragione. Perché per quanto tu possa essere spaventato, vale la pena gettare il cuore oltre l’ostacolo: la vita è una, il mondo enorme, non ha senso rimanere bloccati nel proprio angolino privato. E poi ho visto dall’alto l’Africa, e il Sahara, e l’incredibile nastro verde del Nilo del deserto, e le acque cristalline del Mar Rosso, e la quiete assoluta e oleosa del Golfo Persico. E anche se stavo a 10 km di distanza (in verticale ) è stato bello vedere luoghi così lontani, che pure fanno parte della nostra storia.
La fiera
Come saprete, negli Emirati ci sono andata per partecipare alla Fiera Internazionale del Libro di Abu Dhabi. Non sapevo che aspettarmi precisamente, e ho trovato Torino: esatto, il Salone del Libro. Centro fieristico super-avveniristico, collegato direttamente all’albergo, tanti stand, ma molta più calma che nella città savoiarda. Gli Emirati sono un paese giovane, nel momento di massima apertura verso l’Occidente, e quindi il mercato librario è ancora non paragonabile a quello di un paese come l’Italia. Però è stato piacevole girare tra gli stand con calma, con la gente tranquilla che parlava piano e si godeva la giornata, in un mix interetnico clamoroso, in cui la donna in abaya e niqab passeggiava accanto all’occidentale in tailleur.
Sono stata molto contenta dei miei due incontri. Il primo è stato nello spettacolare stand della famiglia reale emiratina, una specie di casetta di legno graziosissima, in cui le donne di famiglia e i loro ospiti hanno incontrato gli scrittori stranieri. L’atmosfera era rilassata, tra dolcetti e donne e ragazze avvolte in splendide abaya, le domande interessanti e interessate. Ci hanno anche chiesto della crisi dei migranti in Europa, segno che è un tema piuttosto sentito, da quelle parti.
Il secondo incontro, aperto al pubblico, è stato ugualmente stimolante, e per la persona con cui l’ho fatto, sempre Beatrice Masini, come nello stand della famiglia reale, e per le domande del pubblico. E poi non c’erano solo italiani; due emiratini in dishdasha e ghutrah si sono seguiti tutti l’incontro dall’inizio alla fine, e c’erano anche altri spettatori stranieri (portavano le cuffie per la traduzione simultanea ). Il momento più bello è stato quello in cui una ragazza, credo libanese a giudicare dai tratti e dal nome, mi ha chiesto un autografo per me e sua sorella, dicendomi che la seconda era una mia grande fan. È difficile spiegare quanto possa essere bello e soddisfacente, per uno scrittore, sapere che le sue parole sono arrivate, e sono state apprezzate, così lontano. Non me lo aspettavo, perché io non sono tradotta in arabo, ed è stato davvero bello.
Abu Dhabi, Dubai, gli Emirati
Sono stata solo due giorni, per cui non azzarderò conclusioni sociali e antropologiche. Posso solo raccontarvi quello che ho visto, e quello che mi ha colpita. Innanzitutto, quando si va così lontano, e in luoghi con una cultura davvero diversa dalla nostra, il primo problema è il punto di vista. Non starò certo qui a ricordare quando sia difficile per un Occidentale (e viceversa per un arabo) avvicinarsi con la mente sgombra dai pregiudizi al mondo arabo. Cresciamo invasi da tonnellate di informazioni sull’argomento, che però quasi sempre si riducono a due concetti: Oriente e Occidente si odiano da secoli, e le donne là sono meno che niente. È difficile togliersi di testa queste cose, e, viceversa, non occorre neppure cadere nel paradosso opposto, ossia credere che alla fine si tratti solo di propaganda, e che in Oriente vada tutto liscio e non siano poi tanto diversi da noi. Ecco, lo sforzo è quello di osservare, e basta, perché credo sia questo viaggiare: portare certo la tua sensibilità, la tua storia, e la tua cultura con te, ma al tempo stesso aprirsi all’altro, cercando per quanto possibile di considerare i suoi usi, i suoi costumi, la sua cultura, come un diverso sguardo sul mondo, che non sta a noi giudicare. Ecco, io ho cercato di guardare, di farmi attraversare da odori e colori diversi da quelli cui sono abituata. Non posso rispondervi su quanto la donna sia libera negli Emirati, non posso dirvi quanto realmente la religione permei la società; posso solo dirvi come mi sono sentita io a camminare, da Occidentale, sola, per quelle strade.
Innanzitutto, la natura ha una paletta di colori ridottissima. È difficile spiegare quel beige della sabbia sottile, che ti resta, come una patina impalpabile, sui sandali. Mentre mettevo a posto le infradito che ho comprato lì (le mie scarpe mi avevano graffiato i piedi ), l’ho sentita sotto le dita, e ho pensato al deserto, piatto e bigio, che si stende fuori da Abu Dhabi. Sabato c’era una specie di tempesta di sabbia, ed era tutto sospeso e scolorito. Le palme, che sono molto diverse da quelle che abbia qua, più basse e folte, sui rami bassi sono stinte dalla sabbia. È un panorama che a me piace, perché in Italia non c’è veramente niente di uguale; infatti, il mio unico rimpianto è stato quello di non essere riuscita ad andare nel deserto, come hanno fatto alcuni colleghi. Motivo in più per tornare
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Il caldo, poi, è asfissiante. Credevo di vivere in un posto molto caldo, ma non c’è paragone col sole che hanno là; quando esci dagli alberghi, la sensazione è quella di infilarsi in un forno. Qualcuno dirà che è caldo secco, ma non è sempre vero; siamo comunque sul mare, e ogni tanto l’umidità si fa alta. Il sole è a picco, caldissimo, la luce intensa. I tramonti sono brevissimi, la notte cala con una rapidità straordinaria, e piuttosto presto. È una terra bruciata, cannibalizzata dal sole, un posto aspro e difficile.
Ecco, in questo posto qui loro sono riusciti a tirar su aiuole verdissime che ancora non capisco da quale acqua siano annaffiate, e un trionfo di tecnologia. Tanto Abu Dhabi che Dubai, i due posti che ho visitato, sono una selva di grattacieli. A Dubai c’è il Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo, che conta quasi 830 mt di altezza, ma la parte moderna è tutta un trionfo di vetro e acciaio. Abu Dhabi non è da meno, anche se la modernità è meno ostentata, più misurata. Io, personalmente, la preferisco, è una città per certi versi più sobria, ma capisco che Dubai è più d’impatto, coi suoi mall smisurati, le piscine enormi, i marchi dell’extra-lusso esposti in vetrina: Armani, Dolce & Gabbana, Manolo Blahnik (la vetrina di Manolo ormai me la sogno la notte ), la Ferrari. Ecco Dubai è un posto straniante; visto il caldo, si vive tanto nei centri commerciali, che sono il trionfo del non-luogo. A parte qualche tocco arabo – splendido – qua e là, potresti essere ovunque nel mondo: per esempio, c’era un negozio di Intimissimi. La gente che ci circola viene da tutto il mondo: tantissimi turisti occidentali, ma anche expat europei, e vagonate e vagonate di immigrati Pakistani, Indiani, Filippini. È una cosa a suo modo unica al mondo, non credo esista un posto simile altrove: è un concentrato di capitalismo e globalizzazione, e per certi versi l’immagine di ciò che gli Emirati pensano sia l’Occidente, dal quale hanno preso tutti gli aspetti più esasperati: il lusso, la moda, i grattacieli.
Poi, se come noi, ti perdi , può capitarti di finire dietro le quinte, nella parte di città più povera, in cui vivono gli immigrati. Anche lì è una babele, ma di segno diverso: emiratini e occidentali un giro quasi nessuno, ma tanti altri arabi, e poi Pakistani, e Indiani, e Africani…tutti coloro che rendono possibile lo sfarzo dei mall e dei grattacieli, che li hanno materialmente costruiti e che ci lavorano, nei rami più bassi della catena sociale, però. È un posto strano, pieno di mercatini che vendono roba a buon mercato, di quella che trovi alle fiere di paese o nei negozi cinesi – che qui abbondano – interrotti qua e là dalle moschee, bellissime anche quando sono piccole, dai minareti, da qualche tocco decorativo che ti fa capire di essere nella penisola araba.
Una cosa che ho adorato sono state le spezie; le usano tantissimo in cucina, e in numero e specie assai diverso da quelli cui siamo abituati noi, per cui nei mercati ogni tanto vieni investito da questo aroma intenso e variegato. Puoi trovare i souk seguendo il tuo naso, come ho fatto io al souk moderno di Abu Dhabi, il World Trade Center (sì, lo so, a noi occidentali fa un effetto ben strano questo nome…) costruito da Norman Foster; è una struttura non tanto grande, tutta in legno, che riesce miracolosamente a sposare la modernità con la tradizione. È difficile descriverla, vi consiglio di guardare le foto. E insomma, seguendo il naso sono finita nella parte più tradizionale, piena di spezie in bella vista, coi mercanti che cercano di attirarti al negozio quando passi, e con in esposizione vesti colorate e eleganti abaya. Per carità, una roba turistica di sicuro (anche se gli emiratini ci vanno), ma ben fatta.
Menzione a parte per i dolci: meravigliosi. Deve piacerti, come a me, la roba dolcissima, perché il miele è la base pressoché di ogni preparazione, ma io li trovo straordinari. Innanzitutto c’è grande varietà, e un ottimo uso della frutta secca. I datteri, ve lo dico, sono un’altra cosa rispetto a quelli che arrivano qua: sono molto più dolci, e ce ne sono di diverse varietà, da quelli piccolini a quelli belli grossi. Comunque, a me la cucina araba piace tantissimo, perché è molto varia, e speziatissima. A me piace l’aglio, e loro come contorno mangiano l’aglio arrosto (è buono, fidatevi); ho mangiato piatti riempiti di aglio fino allo sfinimento, e mi sono piaciuti tantissimo. E poi la roba piccante è favolosa. Infine, usano un sacco di melanzane, che io amo. Ecco, culinariamente mi sento araba d’adozione
Un’altra cosa che mi ha colpita è stata la pulizia specchiata degli ambienti comuni. Ho visitato la meravigliosa Moschea Sheikh Zayed di Abu Dhabi, e in moschea si entra senza scarpe. Io non avevo i calzini, così sono dovuta andare in giro a piedi nudi. Pensavo sarebbe stata una tragedia, e invece sul marmo avresti potuto mangiarci. Anzi era piacevole la frescura della pietra sotto le piante dei piedi, che ha reso una goduria arrivare poi sul tappeto della sala in cui si prega.
Gli uomini, le donne, l’Islam
C’è chi mi ha chiesto com’è la condizione delle donne negli Emirati. Purtroppo non posso rispondere, perché sono stata troppo poco. So che le emiratine lavorano, e lunedì mattina in aeroporto ci ha portate un’autista donna, credo Filippina. Ho letto che ci sono due ministre donna, e anche una pilota di caccia militari. Le occidentali, per quanto mi è dato di capire parlandone con le italiane che vivono là, fanno più o meno la vita che si fa in Europa. Certo, è un paese con una morale diversa dalla nostra. Nei mall di Dubai le turiste vanno vestite come vogliono, anche in minigonna o con le canottiere, e anche sulle spiagge le ragazze occidentali sono tranquillamente in bikini. Abu Dhabi è più conservatrice, e all’ingresso dei mall c’è scritto che è gradito un abbigliamento consono, ossia gonna al ginocchio e spalle coperte. Non è un gran problema, considerando che al coperto l’aria condizionata fa sì che la temperatura si aggiri sui 20-22°, e quindi un giacchetto fa comodo. In pubblico non sono tollerate effusioni, ma ho visto tranquillamente coppie emiratine tenersi per mano.
Io sono andata in giro anche da sola, e non ho notato alcune differenza di comportamento tra la gente di qua e quella di là. Forse mi guardavano anche meno di quanto la gente non faccia qua in Italia…alla moschea, quando ho ritirato l’abaya (ecco, in Moschea il codice di abbigliamento è molto rigido: no braccia scoperte, no pantaloni attillati, no gonna corta, e testa coperta; ci sono poi accessi diversi per uomini e donne, ma per il resto, ti fanno visitare tutto quel che vuoi, compresa la sala della preghiera, che nella Moschea di Parigi, ad esempio, è off limits), la ragazza velata che li distribuiva ha scherzato sui miei capelli corti, dicendo che le piacevano, e al souk di Abu Dhabi i commercianti mi davano corda chiedendomi da dove venissi. Insomma, io mi sono sentita a mio agio. Ho cercato di vestirmi sobriamente perché tutto sommato mi sentivo a casa loro, e volevo, per quanto possibile, non avere comportamenti che potessero urtarli, ma non ero camuffata da emiratina: ero pur sempre un’occidentale, vestita da occidentale, e seguivo il mio solito stile, che, lo sapete, è un po’ appariscente . Ed è andata bene così, non ho vissuto alcun episodio spiacevole.
Le emiratine indossano tutta l’abaya, il lungo camicione nero tipico. Non bisogna immaginare una roba troppo punitiva (non ho loro fotografie perché è considerato maleducato fotografare le donne, figurarsi metterle su internet…); l’abaya è leggera e frusciante, spesso stretta in vita, a volte persino trasparente. In fiera ho visto una ragazza che sotto portava degli audaci leggings neri che si vedevano benissimo in controluce. Inoltre, non c’è un’abaya uguale all’altra: sono quasi tutti nere, ma a volte hanno inserti colorati, ricami, perline, a volte sono direttamente grigie o beige…se volete avere un’idea, ne ho comprata una, e potete vederla qua. Sotto, con le scarpe le emiratine si sbizzarriscono: tacchi vertiginosi, sneakers, roba raso terra…di tutto. Io, per scrupolo, mi ero portata solo roba castigatissima, perché non sapevo che ruolo giocano i piedi in quella cultura, e sono rimasta fregata
La maggior parte delle donne porta il velo sul capo, a coprire i capelli, che, mi dicono, sono considerati un elemento di seduzione, e per questo coperti. Il velo lascia il volto scoperto, e in genere è in tono con l’abaya. Credo ci sia un trucco Jedi di qualche tipo per indossarlo, perché a me, nella moschea, cadeva di continuo e dava terribilmente fastidio; a loro non si muove di una virgola, e ci fanno di tutto. Una certa percentuale di donne, poi, porta anche il niqab, ossia il velo che copre naso e bocca e lascia scoperti solo gli occhi, anch’esso nero. Pochissime, perché mi pare di capire sia un elemento molto tradizionale e segno di distinzione e nobiltà, indossa una mascherina metallica su naso e bocca, che credo si chiami burqa; io ho visto di striscio una donna con questo capo, ma sono davvero pochissime. Questo tipo di abbigliamento, però, è tipico delle emiratine. Le altre donne musulmane seguono le tradizioni dei loro paesi d’origine, per cui si vedono anche veli e vestiti colorati.
Le donne quindi sono più o meno una diversa dall’altra; gli uomini emiratini, invece, sono davvero tutti uguali. Portano un lungo camice bianco, detto dishdasha, immacolato, e non so come fanno a mantenerlo tale, e in testa la ghutrah, in genere bianca, ma a volte anche rossa e bianca, quella che io ho sempre chiamato kefiah.
Per quel che riguarda me occidentale, non ero tenuta a portare il velo, e, a parte la decenza di cui ho già detto, ho vestito come volevo. Sono anche stata in piscina, con un tankini, ma altre occidentali erano invece in bikini e nessuno ci trovava nulla da ridire. A Dubai il bikini si vede tranquillamente anche sulla spiaggia pubblica. Le donne islamiche preferiscono coprirsi di più: in genere hanno una muta leggera; io ho visto una ragazza con una maglietta a mezze maniche o giù di lì.
Su quanto l’Islam – che è comunque religione di stato, anche se c’è libertà di professare altre confessioni, ma senza fare proselitismo, che è vietato – influisca sulla cultura generale, al solito, non so rispondere. Credo che l’abbigliamento, prima ancora che un fatto religioso, sia una questione culturale precedente, ma il confine è sottile. Tante cose della cultura italiana sono precedenti al cattolicesimo e poi sono state assimilate, ma ci sono anche elementi che vengono mutuati dalla religione e poi hanno perso la connotazione cattolica. Insomma, è complesso.
Una cosa che mi ha davvero colpita è stata l’adhan, il richiamo alla preghiera del muezzin. Non essendo mai stata in un paese islamico, non mi era mai capitato di ascoltarla: viene recitata cinque volte al giorno, diffusa con microfoni dal minareto. In linea di massima, per la gente del luogo è una cosa normale, e non ho visto nessuno fermarsi a pregare al richiamo del muezzin (ma le moschee sono ben frequentate, almeno per quanto ho visto a Dubai). Per me è stato diverso. La prima volta ho sentito l’adhan alla fiera, durante il – bellissimo, per altro – incontro di Michela Murgia, che si è interrotta e ha atteso che l’adhan finisse. Ecco, in quella cantilena quasi triste, che riempiva lo spazio vuoto della fiera, chiara e armoniosa, ho sentito un richiamo che non mi era affatto estraneo, e che faceva risuonare in me cose che conoscevo. È il senso del sacro, che, nel bene e nel male, appartiene all’uomo da sempre, e probabilmente lo accompagnerà per sempre. Mi sono sentita come certe volte quando entro in Chiesa, ed è stato un momento intenso in cui, dentro di me, sembrava d’un tratto che Oriente e Occidente si toccassero, dimostrandosi meno alieni di quel che si possa credere.
L’ho sentito poi molte altre volte, e ho visto in albergo, e sul volo del ritorno, le indicazioni della direzione de La Mecca, perché il fedele possa orientarsi nella preghiera, ma alla fine mi ci ero abituata, e mi sembrava un po’ come il suono delle campane: un modo per scandire il tempo, tanto sacro che profano.
Tirando le somme
Avrete capito che è stata un’avventura, e un’esperienza di vita. Ho avuto modo di mettermi alla prova, di confrontarmi con alcune mie paure, e vedere da vicino una cultura verso la quale spesso ci accostiamo con grande diffidenza. Andare lontano, vedere usi e costumi diversi, mi ha aperto la mente; è stato un esercizio di tolleranza e di apertura al prossimo, una cosa della quale avremmo un gran bisogno. Inizio a credere che due cose ci possano salvare: la cultura, e il viaggio. Le cose non sono mai come te le raccontano, e devi vederle in prima persona, per averne la tua personale interpretazione; che poi non sarà quella giusta, o quella vera, ma tutto sommato nulla lo è mai. È tutta una questione di orizzonti, e di punti di vista.
Bellissimo diario! Viaggiare è un po’ come leggere… ti fa vivere e conoscere posti, uomini e tradizioni nuove… eppure in fondo tanto familiari, come l’adhan-campane!!! Ti fanno scoprire qualcosa in più di te stesso, anche se a volte lo capisci solo a distanza di anni…
Un abbraccio ad una delle mie scrittrici preferite
P.s. Il nome corretto dell’architetto è Norman Foster
Grazie mille, corretto. A me Beautiful mi ha evidentemente segnata in negativo
… E’stato bello leggere del tuo viaggio. Un po’come leggere un tuo romanzo che parla di quella parte del mondo dove i beige e i gialli dominano. Una parte del mondo dove ci si sente stranieri più che altrove ma dove la curiosità del vero viaggiatore viene stimolata ad ogni passo. Mi dispiace tu non abbia visto il deserto … il guardarlo negli occhi cambia il modo di guardare a mio avviso … ma hai già deciso che tornerai!
Grazie! Il deserto è un’esperienza che prima o poi devo assolutamente fare
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