Archivi del mese: giugno 2019

Il mio viaggio in Cile, spiegato (Il Post cit.)

Il 2004 è stato un anno fondamentale della mia vita. Più io meno tutto quello che sono e faccio oggi, è nato allora. Nel 2004 è uscito Nihal della Terra del Vento, il mio primo libro, nel 2004 ho fatto la mia prima presentazione in assoluto, al Salone del Libro di Torino, nel 2004 mi sono laureata. E, nel 2004, il mio fidanzato di allora, marito adesso, andò per tre mesi in Cile.
Stavamo facendo entrambi la tesi di laurea, entrambi su argomenti della fisica stellare, e gli venne proposta l’opportunità di andare a fare una parte del lavoro a Santiago, ove c’è uno dei due quartier generali dell’ESO (European Southern Observatory), l’ente che gestisce i telescopi europei che si trovano nell’emisfero sud. Infatti, in Cile c’è uno dei deserti più secchi al mondo, il deserto di Atacama. È uno dei posti migliori per le osservazioni astronomiche, e per l’assenza di luci artificiali, e per il fatto che non ci piove praticamente mai, quindi in un anno le notti buone per fare osservazione sono tantissime. Per questa ragione, ad Atacama ci sono due siti osservativi: La Silla e Paranal. E insomma, Giuliano sarebbe andato a Santiago e ci sarebbe rimasto tre mesi.
Io ho paura di volare. Non so come è cominciata. Da ragazzina, prima di prendere il mio primo aereo, non vedevo l’ora di volare. Gli aerei mi affascinavano, volevo viaggiare, sognavo di prenderne prima o poi uno. Solo che già al primo volo iniziai a impanicarmi, e da lì in poi sono sempre stata sulle montagne russe: a volte volare non mi dà particolare problemi, altre inizio a star male da giorni, a volte mesi prima, piango al decollo, sono piena d’ansia. E spesso questa paura è transitiva. Ricordo che mi angosciava tantissimo l’idea che Giuliano dovesse sorvolare l’oceano, e mentre lui era in viaggio io contavo le ore, sentendomi una canzone che stava in un album che gli avevo regalato prima di partire, la splendida Cristoforo Colombo di Guccini.
Ma quel che era peggio, ovviamente, era stare lontani, per di più con sei ore di fuso di mezzo. Alla prima videochiamata piansi tutto il tempo. Ricordo che molti mi dicevano di raggiungerlo là una quindicina di giorni prima del suo ritorno, e vederci un po’ del Cile assieme. Ma io avevo problemi a volare un paio d’ore in compagnia, figurarsi quattordici, e tutte da sola.
Non fu un bel periodo, insomma. Successero cose: io andai al Salone del Libro, lui a La Silla. Mi telefonò mentre lì era notte, il giorno del nostro anniversario (per inciso, mi regalò una spada, una vera), e mi raccontò meraviglie di quel luogo incredibilmente buio, in cui il cielo era qualcosa di completamente diverso da quel che è qua in Europa, e la Via Lattea proiettava ombra nelle notti senza luna.
Il Cile, per quindici anni, per me è stato questo: quel luogo lontanissimo che si era mangiato Giuliano per tre mesi, in cui erano più frequenti i terremoti che le piogge, e in cui c’era il cielo notturno più bello del mondo.
Poi, più o meno un anno fa, scopriamo che in Cile nel 2019 ci sarà un eclissi di Sole, e che si vedrà proprio da La Silla (le eclissi di Sole si vedono solo in piccole porzioni del globo, perché sono causati dal frapporsi della Luna tra la Terra e la nostra stella, e l’ombra del nostro satellite è piccola). Organizzeranno un evento all’osservatorio. E decidiamo di andarci. Salto di un anno, domani parto.
Vi ho raccontato tutta questa lunga pippa per cercare di spiegare perché questa per me non è una vacanza, ma un viaggio dal portato simbolico fortissimo. Ho messo piede fuori dall’Europa una volta sola, quando andai da sola per un paio di giorni negli Emirati Arabi. Anche quella fu un’avventura vera, tanto che a lungo ho conservato la targhetta d’imbarco del mio bagaglio. Non ho mai volato così a lungo, non ho mai visto un’eclissi totale di Sole, non ho mai visto quel cielo, in cui la Via Lattea proietta ombra e si vedono a occhio nudo le Nubi di Magellano, due galassie satelliti della nostra.
Ho passato otto mesi a chiedermi se ce l’avrei fatta. Se sarei riuscita a volare così a lungo, se il jet lag avrebbe fatto sbarellare il mio precario equilibrio mentale facendomi uscire definitamente di brocca, a cercare di immaginare un posto così lontano in cui non credevo sarei mai stata, della sui esistenza, persino, una parte di me dubita. Guardavo il mappamondo e mi domandavo come fosse possibile che io potessi arrivare fin là, a quella striscia di terra inchiodata tra le Ande e l’Oceano Pacifico. La terra di Alliende e di Neruda, che conoscevo solo dai romanzi, e dai racconti degli amici astronomi che c’erano stati.
Adesso, a un po’ più di 24 ore dalla partenza, tutto questo non ha più senso né importanza. Sono una persona così piena di paure, che ho dovuto imparare a forzare sempre e comunque i miei limiti, per fare quel che agli altri sembra normale, e per me è sempre gigantesco. Ma se non avessi questa testa, forse non vivrei così a mille, riuscendo a farmi devastare di continuo dalle emozioni, in modo che ogni cosa, anche la più banale, diventa per me fantastica, meravigliosa, enorme. Voglio riprendermi questo Cile, che d’ora in avanti non sarà più quel lembo di terra infinitamente distante legato a ricordi tristi, ma il primo passo verso un mondo più ampio. Perché di qui a breve, spero un anno, voglio andare in Giappone, e poi chissà dove, magari in Africa, magari in Nuova Zelanda.
Credo ci si leggerà, non so se qui o solo altrove; ho in progetto un articolo sulla cosa, che se tutto va bene leggerete tra una settimana. Andremo a Santiago, e poi i dintorni de La Serena, La Silla, e Paranal. Poi, qualche giorno a Valparaiso, e si torna indietro. Un viaggio per lo più astronomico, ma con l’aggiunta della realizzazione di un mio sogno di bambina: ho sempre voluto vedere il deserto. Nelle mie fantasie era il Sahara, ma sarà Atacama, uno dei posti più desolati al mondo. È in questi luoghi dove l’uomo è ospite sgradito, dove alla fine persino la vita fatica tantissimo a trovare una via, che io mi ricarico dalle brutture del mondo.
Le valige sono pronte, io, più pronta di così, lo so, non lo sarò mai. Non resta che partire.

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Stavolta ve tocca: Fenomenologia di Liberato

Questo post, al solito, non giungerà nuovo a chi mi segue sui social. Di Liberato parlo spesso da un annetto a questa parte, ma adesso ho fatto il salto di qualità, perché sabato scorso ho deciso di andarlo a sentire dal vivo. Considerando che praticamente tutti i concerti cui sono andata sono stati dei Muse, band che seguo da sedici anni secchi, e che ‘st’onore fin qui valutavo di concederlo solo a Lady Gaga, che però, mannaggia a lei, a sud della linea gotica non ci scende, capirete che la situazione si è fatta seria. L’idea di partorire uno dei miei deliranti pipponi stile Piccolo Recensore su Liberato mi girava in testa da un po’ e lo – spoiler – spettacolare concerto di sabato mi ha dato solo l’ultima spinta. Quindi niente, avvisati, sarà lunga e farneticante. Se pensate di farcela comunque, allacciate le cinture :) .
Due parole due su chi – o cosa – sia Liberato, per chi non lo avesse incrociato sul suo percorso. Diciamo che è un cantante, ma forse è più corretto dire progetto, di musica che io personalmente ho un po’ di difficoltà a inquadrare. Lo scoprii in un articolo che parlava di trap, ma sarebbe riduttivo dire che è un trapper. Punti salienti del tutto: l’anonimato, il fatto che la sua musica sia sempre accompagnata da video, tutti dello stesso autore, Francesco Lettieri, e la lingua, il napoletano. Per darvi un’idea, vi invito a guardarvi la serie Capri Rendez-vous: sono cinque video, uno per canzone, che raccontano un’unica storia. Quello che vi ho linkato è solo il primo, guardateveli tutti.
Io l’ho conosciuto quando queste cinque canzoni, che poi hanno composto assieme alle altre il suo primo disco, non erano ancora uscite. Sfogliavo quell’articolo che era un po’ “la trap for dummies”, zompando da un video e l’altro di gente il cui nome all’epoca non mi diceva molto (e pensare che poi mi sarei comprata il disco di Achille Lauro…ma questa è un’altra storia) e rimasi folgorata – proprio così, folgorata – dal video di questo tizio misterioso. Mi piaceva la musica, mi piaceva il modo in cui era veramente inscindibile da quel che vedevo a schermo, mi piaceva quella voce morbidissima. Così, mi andai a recuperare su Youtube, perché si trovava all’epoca solo là, tutta la sua produzione. E niente, mi piaceva. Era distante da quanto sentivo, era distante persino anagraficamente, con tutti quei pischelli che si prendevano e si lasciavano, ma c’era dentro qualcosa in cui mi riconoscevo. E ho iniziato ad ascoltarlo a nastro, perché l’unica dimensione con cui riesco a fruire qualcosa che amo è l’ossessione: che siano libri, fumetti, serie televisive o musica, se mi piace diventano l’unica cosa. Poi, un paio di mesi fa, dopo un silenzio lunghissimo, Liberato torna con quelle cinque nuove canzoni, e un disco che compare su Spotify. E che non ti vuoi fare l’abbonamento a Spotify solo per Liberato? Ovviamente no. Quando ho saputo che sarebbe venuto a Roma, un po’ sono stata indecisa: a Giuliano non piace, sarei dovuta andare da sola, per di più a vedere uno che in realtà non si sa chi sia, per cui è come se venisse un po’ meno il concetto stesso di concerto. Ma il biglietto costava poco, mi era giunta voce che la location – all’inizio avvolta nel mistero – era vicino a casa, mi è bastato trovare un’amica disposta a venire con me e voilà. E quindi, eccoci qua.
Prima di parlare del concerto, pippone su perché e cosa mi piaccia di Liberato. Occorre partire con una premessa biografica. Il mio cognome non mente, e come probabilmente saprete, io sono di origine campana. Mezzo sannita e mezzo irpina. Il campano, nelle sue varie declinazioni, è per me la lingua dell’infanzia, in un certo qual modo addirittura la lingua madre. Mentre saprei leggervi senza problemi una poesia di Salvatore Di Giacomo mantenendo una buona dizione – e cantarvi ovviamente a squarciagola tutto il repertorio di Liberato – oggi avrei problemi a parlarvi in collese, la variante dialettale campana che parlo meglio. Ma da ragazzina parlavo con un chiaro accento campano, e ancora oggi, a dizione, la maggior parte delle cose che devo correggere non mi vengono dal romano, ma dal campano. Le o strette dopo le u, le e chiuse dopo le i…tutto ciò che mi viene dalle mie feste comandate sdraiata sulla poltrona di mia nonna, a Benevento, dalle lunghe estati al paese, dai giochi coi miei cugini. È la lingua parlata, in due varianti sottilmente diverse, dai miei genitori dentro casa. Il campano per me è quella cosa là che se ne sta da qualche parte in fondo al mio cuore, assieme alla mia infanzia, e Napoli un posto mezzo mitico, dove i miei si sono baciati per la prima volta e dove ha studiato la quasi totalità della mia famiglia. Vedo il Vesuvio, e mi sento incongruamente a casa. A volte mi sento un’emigrante senza una terra natale. Comunque, vi dico tutto questo perché probabilmente è anche da qua che nasce la mia passione per Liberato, che parla una lingua che tocca corde molto profonde, in me. E non si può negare che l’aspetto Napoli sia fondamentale, in Liberato. I video sono tutti ambientati in quell’immaginario, a volte sposando in modo pedissequo quello più stereotipato (la serie ambientata a Capri), a volte invece decidendo per uno sguardo più laterale (tutte le prime canzoni), con una Napoli meno da cartolina, più contemporanea, ma che attinge comunque a delle radici tradizionali che ormai affondano nel mito. E la cosa non si limita ai video. I testi di Liberato sono praticamente un patchwork di citazioni più o meno evidenti di canzoni napoletane classiche (che mi sparavo da bambina, sempre per tornare a quella roba là delle radici…), assieme a modi di dire che sono riconoscibili come napoletani pure da chi a Napoli non c’è mai stato. C’è un continuo, insistito riferimento alla napoletanità così come percepita fuori, allo stereotipo di Napoli, se vogliamo. E al Napoli squadra, altro grande topos dell’essere napoletani; Liberato annuncia di essere arrivato a Roma su Instagram con questa foto qua (che per me, da sola, basta a farmelo amare per sempre :P ), senza contare il verso cambiato nella versione del disco di Gaiola Portafortuna perché sia uguale a un pezzo di un inno calcistico. Per altro, sui social, dove pure ha una presenza veramente episodica, scrive solo e sempre in napoletano; c’è pure una surreale intervista a Rolling Stone tutta così. Chevvelodicoaffà, pure al concerto non ha detto una cosa che non fosse una in dialetto. E a questo punto voi direte: ma quindi è male. Voglio dire, uno che aderisce a uno stereotipo, che decide di seguirlo così…Ecco, no. Il miracolo di Liberato, la ragione che probabilmente me lo fa amare così tanto, sta tutta qua: la consapevolezza estrema, paurosa, di sapere a che gioco si sta giocando. Sì, Liberato acchiappa tutto quanto in giro si pensa quando si dice Napoli (tranne la camorra e tutta quella roba là, che a lui non interessa, perché non è quello il campionato cui ha deciso di giocare): l’amore passionale (“je te voglio bene assaje”, che è una roba molto più profonda, più intensa e intraducibile di “ti amo”), il Vesuvio, la Capri da cartolina, con tanto di amore tra il pescatore e l’attricetta francese, come manco nei peggiori spot di Dolce&Gabbana. Prende tutta questa roba e te la sbatte in faccia con un candore e una sfacciataggine che ti fanno capire immediatamente che non può essere vero. E infatti è un gioco, una strizzata d’occhio. Il discorso tra Liberato e il suo pubblico è un discorso di complicità, tra gente scafata che sa che tutta quella roba là è finta; ma pur nella sua finzione, ha una potenza che nessuno può negare. Dalla distanza di cento e più anni, la canzone napoletana tradizionale ci continua a parlare con una forza che solo certa musica popolare possiede, e non è un caso. È a quel nucleo che Liberato attinge, dichiarandoti fin da subito che è, appunto, un gioco: perché è tutto sul filo del paradossale e del cattivo gusto, ma sotto appunto c’è un cuore pulsante, che, chissà come, lui riesce a raggiungere. Aggiornandolo, ok, certo: con la sua musica elettronica e piena di campionature, in cui – e ogni volta che ci penso mi esplode la testa – a un certo punto c’è un putipù, che, per chi non lo sapesse, è ‘sta roba qua, quanto di più lontano dalla dance e dai club che uno possa immaginare. Una musica per sottrazione, fatta di frasi brevi e insistite, con su quella voce che, scusate se insisto, a me fa impazzire. Pur senza essere ‘sto granché da un punto di vista dell’estensione o della potenza. Ma è la voce che ci vuole su quella musica. E Liberato stesso è un gioco: nessuno sa si chi sia, tutti si arrovellano, e, sì, ragazzi, la voce è spiccicata a quella di Livio Cori, ma anche chissenefrega. Che Liberato esista, che non esista…conta? No. Quel che conta è che non si sappia. È vitale per il progetto, che non si sappia: perché Liberato deve essere invisibile, incarnazione stessa del tipo di napoletanità, e di musica, che vuole interpretare. Un fantasma, ‘nu munaciello, come dice giustamente Gianni Valentino in Io Non Sono Liberato, di cui vi ho parlato in una delle ultime puntate di Terza Pagina. L’anonimato è parte del gioco: se vuoi sapere chi è, significa che non vuoi stare alle regole.
Mi rendo conto che forse è tutto un po’ nebuloso, e allora vi faccio un esempio: Capri Rendez-Vous. Liberato e Lettieri – ripeto, per me Liberato è un progetto, per cui ha senso parlare del tutto, perché è anche qui il suo fascino, e quindi del complesso delle persone che ci lavorano – prendono Capri, e ci sbattono dentro tutto l’armamentario: la giovine attrice, i faraglioni, il pescatore. In questo nucleo da cartolina, di video in video iniziano a inserire elementi perturbanti: gli anni passano, i destini dei due amanti si separano. Per carità, sempre in un’ottica “classica”: lui si mette a fare il carabiniere, si fa una famiglia, lei segue la consueta parabola dell’attrice che “va truvann’ coccosa” che non sa che è, e quindi alcol, disperazione, autodistruzione. Ma Capri lentamente cambia, non è più quella della cartolina: niente più faraglioni, solo un palco di legno in mezzo a una piazza vuota. Il resto sono vicoli deserti. Fino al video di Niente, che è un capolavoro. Non è neppure un video: sono foto. Foto di Capri vera: i turisti grassi e fuori controllo, la città che non esiste se non come rappresentazione nella testa di un americano in bermuda che scende da un traghetto, e poi lei: l’attrice, Marie, devastata dagli anni eppure bella di quella bellezza sbattuta di chi ha vissuto, nel bene e nel male. Il cimitero, la tomba. Niente. Sipario. La prima volta che vidi la serie, sbagliai, e iniziai con Niente. E sapete che c’è? Funziona uguale. Capri Rendez-vous è un cerchio, un triste, sconsolato inno alla fugacità di una vita che spesso ci scorre tra le dita così, come la sabbia. E te lo dicono pure all’inizio, mentre il regista parla con Marie, e le chiede di non cambiare e non invecchiare mai. Questo è Liberato: la nuova vita infusa in quelle storie vecchie e stravecchie, che tu dici, sì, ma che palle, e invece se circolano ancora in mezzo a noi un motivo c’è. E basta che arriva uno che trova la chiave per riproportele, e tu ti innamori si nuovo. Quel qualcuno, è Liberato.
Poi, per carità, niente di nuovo sotto il sole. Queste cose le hanno fatte in mille prima di lui: uno dei primi è stato Pino Daniele, per dire. Ma non è che Liberato abbia l’atteggiamento di chi ha reinventato la ruota: lui lo sa da dove viene, e lo sa dove va, è questo il bello. E al concerto di sabato, per modici 20 euro avevi otto ore secche di musica, perché, a partire dalle 16.00, al Rock in Roma hanno contato altri sette artisti, alcuni della scena napoletana. Se non è pagare i propri debiti questo, io non so cosa lo sia.
Poi, ok, qualcuno dirà è tutta una roba commerciale, un progetto fatto per vedere scarpe e magliette. Beh, benvenuti nel sistema capitalistico: e chi l’avrebbe mai detto che con la musica ci si fanno i soldi…
Bon, fin qua, il delirio su cosa amo di Liberato. Adesso parte il pippone concerto. Vi lascio due righe per andare a far pipì e prendervi uno snack, o fuggire se vi ho già stesi :P
FINE PRIMO TEMPO

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SECONDO TEMPO
Il concerto. Avevo giurato che non avrei messo mai più piede al Rock in Roma dopo che per il concerto dei Muse ci avevo messo tre ore tre a riemergere dal parcheggio. Nessun artista vale un sequestro di persona. Però, che ci volete fare, avevo voglia – e pure bisogno, stante lo stato di agitazione pre-partenza per il Cile che mi attanaglia da un mese – di sentire Liberato, e sono andata. Sono riuscita a uscire dal parcheggio in quaranta minuti, quindi, dai, c’è stato un miglioramento.
Non mi aspettavo molto. Il prezzo del biglietto era popolare, Liberato ha all’attivo un solo disco che conta undici canzoni. Non avevo idea come avrebbe fatto a fare un concerto di un’ora e mezza. Però ero curiosa. Innanzitutto di come sarebbe stato risolto il problema anonimato. Fin qui, a quanto pare nei locali gli ha fatto la fotografia quello della puntata 8×03 di Game of Thrones, e ha risolto così. Ma in un posto grande come Capannelle come fai?
Comincia, e resto perplessa, perché ci sono le luci sparatissime. Vengono da tre grossi pannelli led, due laterali e uno letteralmente sovrapposto al palco, che si alza e si abbassa a seconda. E dove sta Liberato, o chi per lui? Dietro il pannello. Incappucciato as usual, ovviamente. Insieme ad altri due tizi incappucciati come lui. Così è tutto in controluce. Liberato 1 – gente che vuole sapere chi è 0.
Il concerto è stato praticamente un dj set di un’ora e mezza privo di qualsiasi soluzione di continuità: le canzoni si scioglievano l’una nell’altra, tra l’altro arrangiate alla grande, per cui avevi sempre quei due minuti lì in cui stavi ad arrovellarti se stava per partire Guaglio’ o Oi Mari’; c’è stato pure posto per una Stand By Me, che si è sciolta in Gaiola versione pre-disco, quindi quella più movimentata, e una Tammurriata Nera – di cui non ricordavo il testo, e i miei avi sono rigirati nei sacelli… – prima di Nunn’a voglio ‘ncuntrà. Versione invece lenta per Intostreet. E io ovviamente ho ballato e urlato per un’ora e mezza, anche se gli ultimi venti minuti i miei quarant’anni mi hanno ricordato che non sono più la pischella che perdeva l’udito a un orecchio andandosi a sentire i Muse al Palalottomatica. Ma stare fermi era impossibile. Menzione d’onorissimo per lo spettacolo di luci: non solo proprio le luci in sé, ma i pannelli di cui vi parlavo, accesi da una serie di animazioni spettacolari, giocate quasi completamente sul nero, bianco e rosso, con tocchi di altri colori qua e là. Una roba a suo modo raffinata, ma anche efficacissima. Perché anche nel live torna uno degli aspetti che più amo di Liberato: l’essere un progetto multimediale e completo dentro, in cui ci sono due miliardi di cosa che si mescolano e sono imprescindibili l’una dall’altra. Così come quando te lo ascolti nel chiuso della tua stanza i video sono una parte importante della fruizione, nel live lo sono le luci, i colori, e quel sipario tra te e lui, che segna la distanza tra il pubblico che salta e il fantasma che lo fa ballare, quella carne che serve a ospitare la cosa più importante: la musica.
Credo sia uno dei concerti più belli in cui sia mai stata, per altro con un rapporto qualità prezzo tendente e infinito: pensavo di andarmi a vedere un ragazzino appena arrivato in un mondo più grande, e mi sono trovata davanti a un progetto raffinato e curato in modo maniacale. E lo dimostra il fatto che il pubblico fosse davvero eterogeneo: gente della mia età, ragazzini, chi stava lì a maturare dieci pagine di pippe esistenziali su quella musica, come me, e chi invece era là solo a ballare e scuotere la testa. Non devi sapere chi è Liberato, per godertelo. Eravamo in tre, sabato sera, e una di noi non conosceva il progetto: sono bastate due canzoni perché si appassionasse, ed è uscita soddisfatta ed essendosi divertita tanto quanto noi che siamo fan. Queste non sono cose che si improvvisano: questo è frutto di un ragionamento, e di un grande talento, ovvio.
Ultima nota. È stato bello sentire 25000 persone cantare napoletano: ok, c’erano tanti oriundi saliti a Roma per l’occasione, ma c’erano anche tanti romani, che cantavano a squarciagola “so’ rimasto sott”a botta ‘mpressiunato” con il loro accento, ed era bellissimo. Per un’ora e mezza, è stato come se le due parti di me, quella nata a Roma, che parla come Carlo Verdone, e quella che si sente comunque campana, si fossero ritrovate in unità.
Insomma, è stato bellissimo. Sono entrata carica di tensione, con la testa come al solito in tilt, piena di così tanti pensieri da non riuscire a contenerli tutti. Per un’ora e mezza la testa mi si è svuotata: ho saltato, sudato, urlato, sentito la musica battermi sotto lo sterno. È stato bello. E sì, come ho letto da qualche parte, anch’io ho avuto la sensazione di aver visto qualcosa di importante, qualcosa che è qui per restare. Libera’, m’ê mannat’ ‘a fore.

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Terza Pagina, Festival Passepartout, Mare di Libri

Dovrebbe essere un post di servizio, per parlarvi dei miei prossimi spostamenti, ma temo diventerà invece un po’ lungo.
Partiamo dalla fine, ossia da ieri sera: è andata in onda l’ultima puntata di questa stagione di Terza Pagina, di cui sono conduttrice. Per vederla, potete seguire questo link.
Ormai è un anno che ho iniziato quest’avventura, completamente nuova per me, e d’improvviso mi rendo conto di quanto la mia vita si sia adeguata a questo nuovo ruolo. Lentamente, essere conduttrice di Terza Pagina è entrato a far parte un po’ di quel che sono, tra le altre decine e decine di cose. Così, lunedì sarà strano non andare alla riunione, non pensare a nuovi argomenti da proporre, non cercare la notizia scientifica d’apertura o segnarsi un articolo interessante sul giornale. Giovedì non dovrò più tenermelo libero per studiare il copione, e la sera non dovrò più preparare lo zaino con dentro tutto quel che mi serve per il venerdì, da orecchini, unghie e scarpe, alla carta d’identità e la patente.
Già mi manca un po’, come mi mancano tutte le fantastiche persone con cui ho lavorato in questi mesi, che pure vedrò da qui all’estate. Ma è tutto un po’ diverso.
Che dire. Grazie un sacco per averci seguiti, spero che tutto questo non finisca qua e ci si possa rivedere a settembre. Intanto, qui trovate tutte le puntate di questa stagione.

Domani, mi potete leggere su La Lettura del Corriere della Sera. C’è un mio pezzo a corredo di un racconto più ampio di Teresa Ciabatti sul mondo del cosplay. Chi mi segue sui social, forse collegherà questa cosa con una battuta di qualche giorno fa. È una cosa cui tengo perché, sebbene io non possa più definirmi cosplayer, il cosplay resta parte della mia vita. Frequento cosplayer, c’è gente che ho conosciuto grazie al cosplay, e continuo ogni tanto a realizzare costumi e accessori. Conta poco che siano brutti e raccogliticci, non è mai stato quello l’importante. Ma tutto questo lo leggerete domani, se vorrete :) .

Mercoledì 5 giugno, parteciperò al Festival Passepartout, a Asti. L’appuntamento è alle 21.00 nel cortile della Biblioteca Astense Giorgio Faletti; vi parlerò un po’ del nostro rapporto con la luna, a cavallo tra mito, religione, letteratura e scienza.

Il 16 giugno, invece, sarò a Mare di Libri, a Rimini. Due gli appuntamenti: alle ore 14.30, Palazzo Guidi, Cappella Petrangolini, vi leggo uno dei miei racconti preferiti. Non mio. Per sapere quale, occorre venire :P . Alle ore 21.30, invece, al Teatro degli Atti, parteciperò all’evento di chiusura del festival. Mentre per il primo, non occorre prenotazione e si può entrare fino a esaurimento posti (che son 40), questo secondo evento è a pagamento, e occorre prenotare sul sito del festival.

Ci sarà nel mezzo un’altra cosa, ma stiamo definendo i dettagli, e ve la dirò quando sarà tutto più chiaro. Per il resto, si torna a settembre; luglio e agosto me li prendo di vacanza, che sento di averne bisogno. Ma immagino ci sentiremo, perché andrò in Cile per l’eclissi di sole, e figurarsi se non ne scriverò tantissimo e non farò un mare di foto :P .
A presto!

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