Archivi del mese: febbraio 2020

Un paio di note sugli aspetti comunicativi della COVID-19

Io lavoro con le parole. Nel mio mestiere non esistono sinonimi e ogni parola ha una specifica funzione, e viene recepita in un certo modo. Se vuoi ottenere un determinato effetto, devi essere preciso. Per questa ragione mi azzardo a parlare di un argomento che potrebbe sembrare piuttosto lontano da me. Sto parlando della comunicazione che è stata fatta e si sta continuando a fare sulla COVID-19, da quando questa storia è partita, all’arrivo del primo – primi due, in realtà… – focolaio in Italia. E lo farò da semplice fruitrice di questa comunicazione, un fruitrice, per altro, con una netta tendenza all’ansia.
Il punto è che tutta questa storia mi pare un caso lampante di comunicazione scientifica non solo fatta veramente a caso, in cui ognuno si è sentito in diritto di poter dire al riguardo un po’ quel che voleva, ma anche portata avanti malissimo.
Si è cominciato con un tempo infinitamente lungo per dare un nome a questa cosa, e non è una questione da poco. Un nome già da solo diminuisce l’ansia, perché contrasta un po’ quel senso d’ignoto. Un nome messo male, poi, può dare informazioni errate sull’oggetto. Ormai tutti si sono attestati su “coronavirus”, che scientificamente non vuol dire pressoché niente, visto che esistono sette diversi ceppi di coronavirus conosciuti che infettano l’uomo, e ognuno provoca una malattia diversa. Meglio comunque di “coronavirus cinese” o “di Wuhan”, che ha portato a tutte le storie di discriminazione ben note. E che per altro non sono cessate neppure ora che siamo il terzo paese al mondo per numero di contagiati. L’OMS ha dato un nome, COVID-19, che non usa nessuno, perché è arrivato troppo tardi e poi, voglio dire, ma che impatto può avere un’asettica sigla rispetto a un nome chiaro come coronavirus?
Dopo di che, abbiamo assistito – e in alcuni casi assistiamo ancora – al carosello degli esperti, ognuno dei quali ha uno stile comunicativo diverso, e spesso dice direttamente cose in contrasto con gli altri. È come un’influenza. No, ha la stessa mortalità della Spagnola. Siamo nei guai. No, è tutto sotto controllo, il rischio in Italia è zero. Qualcuno ha anche iniziato a litigare online sui numeri e la loro interpretazione.
Infine, sono entrati in campo i media generalisti, ed è iniziato tutto un fiorire di “in preda al morbo”, “gli untori”, “l’apocalisse”.
A fronte dell’isteria di massa – per la quale, per altro, non mi sento di incolpare soltanto la gente, visto il livello medio dell’informazione ricevuta – qualcuno ha iniziato a fare marcia indietro. Troppo tardi, ovviamente.
Ora, non siamo né la Cina né l’Iran, siamo un paese libero, e quindi ognuno ha ovviamente il diritto di esprimersi in tutte le forme che vuole. Ma resta il fatto che, se si è figure pubbliche, dotate magari anche di un largo seguito, oppure di mestiere si fa proprio il comunicatore – divulgatore o giornalista che sia -, quando ci si esprime su temi così delicati ci vorrebbero molte cautele. Appunto, cogliere il significato delle parole.
Ieri facevo notare in un post Facebook che in un’intervista (quindi spero ancora che le sue parole siano state riportate male dal giornalista) un esperto paventava “l’apocalisse” circa la futura evoluzione dei focolai italiani, e parlava dei malati asintomatici come “untori”. Queste non sono parole neutre. L’apocalisse è la fine del mondo, non è altro per un occidentale, ed evoca scenari à la Io Sono Leggenda, citatissimo infatti in questo periodo. Per una persona qualsiasi, l’apocalisse in riferimento a un’epidemia è il collasso della società, i morti in strada e i lazzaretti. Idem per untore: Manzoni ci insegna che gli untori volontariamente andavano, secondo la vulgata popolare, a spargere il morbo in giro. Non c’è un altro significato al di là di questo, ed è un significato che tutti conosciamo molto bene, perché I Promessi Sposi li leggiamo a scuola. Quindi, l’articolo paventa che quegli stronzi che hanno il virus e non lo sanno – per inciso, non lo possono sapere, perché non hanno sintomi e non esistono test commerciali per il SARS-CoV-2 – vanno in giro volontariamente e causare il collasso della società per come la conosciamo. Moriremo tutti. E parlare così a gente già spaventata di suo significa fomentare il panico. Magari involontariamente, ma è quel che stai facendo.
Non parliamo poi di chi, proditoriamente o semplicemente perché non si è posto la domanda di che cosa un pubblico generalista sappia o meno di virologia, ha usato termini specifici senza spiegarli o ha fatto confronti arditi, magari pure a fin di bene. Lo sapevate per esempio che mortalità e letalità sono due cose diverse? Io no, me l’ha spiegato Il Post, non prima che sentissi numeri che si riferivano all’una o all’altra senza citarle e senza spiegazioni di sorta. Anche i confronti col colera, l’ebola e la spagnola andrebbero contestualizzati, e, ancora, spiegati.
Ma tanti in fondo ai loro articoli hanno scritto “niente panico”, come fosse una specie di parola magica. Mi riempi un articolo o un video di messaggi allarmanti, poi però mi dici che non mi devo far prendere dal panico, e tutto torna a posto. Ma non è così che funziona. È la tua comunicazione che deve essere rassicurante – se c’è da rassicurare, ovviamente – perché è quello che induce alla calma, non la frasetta finale messa lì tanto per. Non fai stare meglio uno con un attacco di panico dicendogli “sì, ma stai calmo, che sennò è peggio”.
Direi che da tutto questo casino, comunque, possono emergere una serie di osservazioni. La prima è che esperto non vuol dire buon comunicatore. Essere il miglior scienziato del mondo non implica la capacità di trasmettere il proprio sapere a un pubblico di non esperti. Uno scienziato, di norma, è addestrato a parlare ai suoi pari: se dice mortalità, tutti sanno di cosa sta parlando, inoltre non deve spiegare il proprio lavoro, ma illustrarlo a gente che conosce perfettamente il contesto. Non funziona così quando parli a persone che non sono del tuo ramo; esiste un linguaggio della divulgazione, che è profondamente diverso da quello della scienza, perché ha obiettivi completamente diversi. Chi questo linguaggio non lo conosce, o si tace – non è che tutti dobbiamo fare i divulgatori… – o lo apprende, oppure si affida ai professionisti. Si tratta di figure che fanno da intermediari tra l’esperto e il pubblico, in sostanza i divulgatori e i giornalisti. Io però ho visto esperti con capacità di comunicazione del rischio pari a zero spaccato entrare a gamba tesa nel dibattito pubblico nel mondo più violento e urlato possibile. Comunque, parliamo di divulgatori e giornalisti. Per quel che riguarda i primi, si sono mobilitati, e spesso con esiti ottimi. Una buona comunicazione scientifica dovrebbe essere neutra, attenersi ai fatti, dire ciò che si sa e ammettere con grande onestà quel che non si sa. In caso vengano espresse opinioni, deve essere ben chiaro che siamo nell’ambito delle speculazioni, magari pure esperte, per carità, e non dei fatti. E c’è un sacco di gente che l’ha fatto e continua a farlo egregiamente. In quelli che seguo io, francamente, non ho trovato sbavature. Peccato che spesso si tratti di persone che non hanno un seguito proprio grandissimo, soprattutto fuori dai social. Per quel che riguarda i secondi, che dire; certo, ci sono luminosissime eccezioni – tipo Il Post, tipo Avvenire – ma è pure pieno di gente che se ne è fregata alla grandissima, e ha spinto sul pedale dell’allarmismo, perché la paura è la moneta più spesa dai media da almeno venti anni a questa parte. Terrorismo, malattie, e poi giù a scendere cani assassini, giochi mortali in rete…una gara a chi terrorizza di più, perché è ovvio che una persona spaventata cerca più informazioni, che finiscono per spaventarlo sempre di più, in una spirale in cui a guadagnarci sono quelli che l’informazione la vendono. Anche qua, correre ai ripari ora, quando la gente ha già iniziato a picchiarsi per strada, a saccheggiare i supermercati e a chiedere tamponi orali a caso ai sani, per di più residenti in posti dove il contagiato più vicino sta a 600 km, a che serve?
Seconda questione. Il dibattito, anche fuori dalla rete, si è ormai polarizzato. Lo spazio per chi ha opinioni intermedie sostanzialmente non esiste: o ci sono quelli che la COVID-19 è il raffreddore, o quelli che moriremo tutti male. E siamo tutti ormai prigionieri di questo frame di estremizzazione del dibattito pubblico, anche quelli che in altre occasioni hanno lottato per il Lato Chiaro, diciamo così. Nessuno che voglia accettare che il problema è il frame: che non è possibile fare della buona, onesta, utile comunicazione usando le armi del sensazionalismo e dell’estremizzazione del dibattito. Mi è capitato di parlarne in riferimento ad altre questioni: per esempio, durante gli incendi in Australia, girava tantissimo una foto finta, una mappa con su dei punti rossi che indicavano tutti gli incendi dall’inizio del problema. Tanti la spacciavano per una foto da satellite, perché chi l’aveva fatta l’aveva costruita in maniera tale che fosse facilmente fraintendibile. Era una cosa a fin di bene, no? Era un’informazione errata, che indicava un problema reale, quindi che male c’era? C’era che si trattava comunque di un’immagine non rispondente alla realtà, e quindi, per esempio, era gioco facile per un negazionista del cambiamento climatico dire che si trattava di un falso. Non è così che si fa comunicazione.
Ancora: la scienza va spiegata, perché i suoi metodi, mi spiace tantissimo doverlo ammettere, non sono noti ai più. Vedere due esperti che litigano a colpi di tweet, per di più in un momento di crisi, è uno spettacolo che non spiega assolutamente niente di come funziona la scienza, ma che viene percepito come un “non sanno manco loro cosa sta succedendo”. Che magari è vero, e allora lo si ammette: “non conosciamo il reale tasso di letalità del virus, ci vogliono più dati”, “non sappiamo come evolverà, perché è troppo presto”. Sì, il dibattito è il sale della scienza: la discussione per il declassamento di Plutone a pianeta nano, nel 2006, fu particolarmente accesa, ma avvenne a porte chiuse, davanti a un pubblico che sapeva contestualizzarlo. La gente non sa come funziona la scienza: oscilla tra il considerarla quella roba lì che ha sempre una risposta per tutto o al contrario una cosa in cui nessuno sa mai darti una risposta chiara e la verità non esiste. Per questo, un dibattito del genere è incomprensibile, e non fa altro che spaccare il pubblico in due, tra chi tifa per uno e chi tifa per l’altro, in generale basandosi sul gusto personale o sul principio di autorità.
Infine: tanto cose non sono state spiegate da subito e con chiarezza. Esempio: le quarantene. Ci sono voluti due giorni prima che qualcuno iniziasse a spiegare perché adesso è ragionevole chiudere i focolai, ma intanto la quarantena era già in atto, e nessuno capiva bene perché. Da un lato rassicurazioni che il virus è poco pericoloso, dall’altro 50 000 persone chiuse in casa. Come si mettono assieme queste due cose? Nessuno lo dice. Perché, ancora, si è dato per scontato che fosse un dato noto a tutti: ma no, non lo sappiamo che le epidemie sono pericolose non tanto per il singolo, ma per la collettività e per i soggetti più fragili in essa. E, anche se lo sapessimo, sarebbe meglio ripeterlo comunque, in un paese come l’Italia che ha un senso civico e della collettività bassissimo, e in cui ognuno, se può, va per sé.
Possiamo imparare qualcosa? Potremmo imparare tantissimo, ma secondo me questa cosa per ora sta facendo solo danni. Danni immediati, visto che la gente è nel panico, e domani, ne sono certa, passerà all’estremo opposto, quando non vedrà arrivare l’apocalisse: non capirà il perché delle quarantene e tutto il resto e se ne andrà in giro a starnutire sulle maniglie degli autobus e al lavoro con 39 di febbre. Danni a lungo termine, perché è l’ennesima picconata alla fiducia del pubblico nella scienza. Si pensa sempre che divulgare sia una roba tutto sommato inutile, e invece in certi casi non solo non si può fare a meno di farlo, ma il modo in cui lo fai letteralmente può salvare la vita alle persone. Spero che questa storia serva da lezione, ma francamente ne dubito. L’occidente si è messo su una parabola discendente per reagire alla quale forse ci manca tanto la forza che la volontà. Ma magari qualcun altro prenderà il testimone; una società migliore è ancora possibile, di questo sono piuttosto certa.

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Il Sale della Terra: la mia opinione non richiesta

Entro a gamba tesissima nella polemica letteraria del momento, un po’ perché non mi par vero di poter dire la mia su una polemica letteraria :P , un po’ perché la cosa sarà spunto per la prossima puntata di Terza Pagina. Innanzitutto, per inquadrare per bene la questione, vi invito a leggere questo articolo de Il Post che riassume tutto per bene. Per i pigri, sintetizzo io in modo non esaustivo: negli Stati Uniti una scrittrice bianca ha scritto un romanzo, da noi tradotto Il Sale della Terra, con protagonisti migranti messicani che cercano di arrivare negli USA. Il libro è stato lanciato con gran battage pubblicitario, opzionato per il cinema, e a quanto pare pagato con un anticipo a sei cifre. Peccato che il mondo letterario latinoamericano sia insorto, portandosi dietro anche una fetta di opinione pubblica, accusando il libro di essere superficiale e di rappresentare il Messico e il dramma dei migranti in modo stereotipato.
La polemica tocca numerosi nervi scoperti: la questione dell’appropriazione culturale, che negli States è molto sentita, l’influenza che i movimenti dal basso possono avere sulla creatività e il mondo letterario, infine il problema della rappresentazione della diversità nell’industria culturale. Di tutte queste cose proveremo a parlare a Terza Pagina. Io qui cercherò invece a dare il mio punto di vista strettamente letterario sul testo. Perché l’ho letto, in lingua originale per altro, per avere meno schermi possibili in mezzo, e poter capire più a fondo di cosa si sta parlando. Quindi, sorpresa delle sorprese, questo post alla fine è una recensione :P .
Confesso che la mia conoscenza dell’America Centrale è pressoché nulla. Mai stata in Messico, e anche le mie nozioni su quella specifica via migratoria sono piuttosto carenti; so quel che sappiamo tutti sulle politiche di Trump al riguardo, ma per ovvie ragioni geografiche mi sono sempre più interessata ai fenomeni migratori del Mediterraneo. Non sono quindi la persona più adeguata a giudicare la plausibilità del Messico e del fenomeno migratorio per come raccontati nel libro, e non sarà su questo punto che mi concentrerò. Però leggo e scrivo, e quindi credo di poter esprimere, come tutti i lettori, un giudizio di valore sull’opera.
In uno degli articoli che ho letto in questi giorni per documentarmi sulla faccenda, un editor statunitense che ha voluto rimanere anonimo diceva che il vero problema de Il Sale della Terra è il modo in cui è stato promosso dalla casa editrice che l’ha pubblicato – quella statunitense, ovviamente -. La campagna pubblicitaria è stata tutta puntata sul fatto che è un libro che spiega tramite la fiction l’immigrazione dal centro America verso gli USA. Cummins stessa, nelle note al libro, ne parla in questi termini: una fiction che però ha al centro il dramma di chi attraversa tutto il Messico per andare a stabilirsi negli States. Peccato, diceva l’editor, che il libro sia invece sostanzialmente un thriller, una specie de Il Fuggitivo in salsa Messicana (paragone mio). Ecco, io credo sia vero.
Se Il Sale della Terra fosse stato presentato per quel che davvero è, un polpettone più prossimo alle parodie di telenovelas sudamericane de il Trio che a una docufiction degna di questo nome, ci sarebbe stata un decimo della polemica, ma anche, ovviamente, un decimo delle vendite.
Scendiamo un po’ nel dettaglio. La storia in breve: Lydia ha una una cotta ricambiata per un tizio di cui ignora il vero impiego, ossia il boss dei narcos. Suo marito invece fa il giornalista. Due più due fa quattro, e quando il consorte scrive l’articolo sbagliato sul tipo, quest’ultimo fa sterminare tutta la famiglia di Lydia. Lei e il figlio si salvano per miracolo; a questo punto, Lydia decide che l’unica cosa da fare per salvare la pelle a sé e alla prole è andare negli Stati Uniti. A parte che non mi è ben chiaro come fuggire lungo una strada, quella percorsa dai migranti, controllata dai narcos, per ammissione stessa di Cummins, possa essere il modo migliore per sfuggire a un boss dei narcos che ti vuole morta, il primo problema del libro è una drammatica mancanza di localizzazione della storia.
Il primo terzo della storia potrebbe essere ambientata un po’ ovunque: nulla nella vita di Lydia ci parla del Messico. La sua libreria potrebbe essere tranquillamente quella della mia città, una vita come la sua potrebbe condurla ovunque. Javier, il cattivissimo – ma affascinante, ovvio – boss potrebbe senza problemi essere un mafioso siciliano, o un camorrista campano, oppure Al Capone. Tutti i riferimenti culturali della libraia Lydia sono inoltre inspiegabilmente anglofoni o, al massimo, cileni o colombiani, e sempre limitati a quei nomi che a un occidentale sono ben noti: del suo continente, Lydia legge solo Neruda o Marquez. Va al Wallmart, il figlio ha un berretto di una squadra di baseball statunitense, tutto l’immaginario evocato in termini di paragoni e metafore è strettamente occidentale. La patina latina è data da parole in spagnolo infilate qua e là un po’ a caso, soprattutto nei dialoghi, e compaiono ogni tanto gli avocado, che però, boh, io ne mangio anche in Italia, per cui non mi sembrano significativi. Per di più, Lydia e il figlio conoscono l’inglese e lo parlano a livello di madrelingua, per cui uno si domanda perché questa storia non sia stata ambientata in una periferia malfamata di una città statunitense random: anche là ci sono i trafficanti di droga che ti ammazzano la famiglia, con tanto di polizia corrotta.
Il problema è che lo sguardo sulla storia è prettamente occidentale. Per capirci, uno può non sapere nulla del Cile, ma legge La Casa degli Spiriti, e capisce subito che non siamo in Europa, che lo sguardo sul mondo dell’autrice è altro rispetto al nostro. Così con tutta la letteratura centro e sudamericana, che, declinata ovviamente in modo diverso in ogni specifico stato, ha un sapore inconfondibile, che il lettore coglie a volo. Qua no. Il Sale della Terra è la storia di un’occidentale, raccontata con modi e sguardi occidentali, che, senza una chiara ragione, ci dicono essere ambientata in Messico. Ma questa è una minuzia rispetto agli altri problemi del libro.
Nessuna delle psicologie è credibile. Luca, il figlio di Lydia, ha otto anni, ma fa ragionamenti e prova sentimenti prettamente adulti: il più delle volte parla anche come un adulto. La reazione sua e di Lydia al trauma è risibile, così come le motivazioni dietro i loro comportamenti: Lydia non si convince a prendere un aereo perché sennò Javier la può trovare, visto che deve dare il nome al banco del check-in, ma duecento pagine dopo racconta tutta la sua storia, con nomi e cognomi, a un’anonima funzionaria di banca. Sentimenti, reazioni, vengono quasi sempre raccontate e raramente mostrate, e, quando lo si fa, è con scarsa efficacia. Il problema è che tutto sembra raccontato da parte di chi di questi argomenti ha sentito parlare, ma che nei confronti dei quali non ha una reale adesione. E qui si entra nel vivo di cosa significhi per me scrivere una storia: è ovvio che la capacità di entrare nella pelle di qualcun altro è alla base del meccanismo stesso della letteratura. Flaubert è Madame Bovary, così come Yourcenar può essere Adriano, senza che nessuno dei due sia né una donna né un imperatore romano. Ma il punto è in quel “je suis madame Bovary”, che significa che a un livello profondo Flaubert sentiva riverberare qualcosa di sé, di seminale e vero, in un personaggio per altri versi distantissimo dalla sua personale biografia. È questa esigenza, questa necessità di raccontare una certa storia, perché parla di noi, che fa funzionare il meccanismo. Anch’io, nel mio minuscolo, ho parlato mettendomi nei panni di un uomo mezzosangue, pur essendo una donna ed essendo i miei parenti tutti nati e vissuti in Italia da che io riesca a ricostruire. E allora? E allora ho sentito il bisogno di parlare di Telkar, assumendone per di più la voce, perché volevo parlare del mio non sentirmi mai a casa in nessuna comunità, della mia difficoltà a provare un senso di appartenenza nei confronti della città in cui sono nata, perché i miei genitori invece ci sono immigrati, e tutta la mia famiglia vive altrove. In questo senso, la vicenda di Telkar mi apparteneva. Così Dubhe, Nihal e tutte le altre, in cui ho trasfuso le mie nevrosi, i miei dubbi, i miei dolori. Poi c’è Flaubert e ci sono io, ed è dunque ovvio che questo meccanismo a volte produca altissima letteratura, a volte no, ma di base deve esserci, o davvero ti stai appropriando della vita di qualcun altro senza averne diritto.
Ecco, lo sguardo di Cummins è perennemente esterno: il suo racconto non mette mai davvero il lettore nei panni di una migrante, ma lo conferma invece nei pregiudizi che questi già possiede sull’argomento. Nelle innumerevoli pagine del libro non ho sentito una scintilla di verità in alcuno dei personaggi: tutti fanno cose che ci si attende facciano, per come ne abbiamo sentito parlare dai tg e dai reportage. La Bestia, il treno sul quale i migranti saltano, il deserto del Sonora, il Messico dei narcos…tutto freddo e altro, raccontato non da dentro, col giusto coinvolgimento in termini di sofferenza da parte dell’autore, ma sempre da fuori, con lo stesso sguardo di chi incrocia un barbone per strada e pensa “poverino”.
Mentre lo leggevo, pensavo a Io Khaled vendo uomini e sono innocente, meraviglioso libro di Francesca Mannocchi, che invito tutti a leggere, e in cui l’autrice, giornalista esperta di questi argomenti, si mette addirittura nei panni di un trafficante di uomini. Non solo la vicenda narrata è di una profondità e di un’universalità che ti dilania, ma leggendo impari qualcosa della Libia e della sua travagliata storia contemporanea. È un libro che gronda sangue, in cui l’adesione della scrittrice, e al tempo stesso la sua conoscenza dei temi trattati, è profondissima. Cummins no. Cummins di queste cose ha sentito parlare o non le ha capite a fondo, visto che professa di essersi documentata per quattro anni per scrivere questo libro. Tutto è di superficialità somma, per cui l’identificazione coi protagonisti è davvero difficile. Èd è questo il vero problema, che va anche oltre la questione meramente etnica e l’appropriazione culturale: anche fosse stato ambientato in un contesto diverso, magari più congeniale alla sua autrice, questo è semplicemente un brutto libro, superficiale nel raccontare i problemi che si propone di descrivere e mal scritto nel descrivere le parabole dei personaggi. Che poi sono in esistenti: Lydia, Luca, non vengono modificati in alcun modo da quel che accade loro. Lo sterminio della famiglia, il perdere la loro vita precedente, veder morire i compagni di viaggio non modifica di una virgola le loro psicologie. E allora come fai a immedesimarti? Io sono stata segnata da eventi assolutamente insignificanti occorsi nella mia vita, questi vivono drammi epocali e se li scrollano di dosso come la polvere del deserto. E poi, certo, è un libro che all’imperizia autoriale aggiunge pure il fatto che tale scarsa capacità è applicata a un tema complesso e profondo. Sembra una cosa scritta sull’onda di un sentimento momentaneo, come di chi ha visto dei migranti in tv e ha provato pena. Probabilmente non è così, ma così sembra dallo stile, dal racconto, da tutto. Ti devi rivedere per davvero in quella gente, capirne l’esperienza, e in caso davvero farti strumento e dar loro la voce, come ha fatto Melania Mazzucco in Io sono con te. Storia di Brigitte, altro libro splendido, che ancora vi consiglio, in cui Mazzucco racconta la storia di una migrante. E per farlo non si è “documentata”: si è seduta davanti a lei e l’ha ascoltata per giorni, settimane, e ha messo il suo racconto su carta, prestando le sue capacità narrative alla sua storia potentissima.
Non è vero, come è scritto nelle note al libro, che in questo periodo storico abbiamo bisogno di più voci possibili che raccontino storie di immigrazione. Abbiamo bisogno delle voci giuste che ne parlino, voci che conoscano davvero l’argomento, che l’abbiano metabolizzato e fatto loro. Purtroppo Cummins non lo è; non lo è per un thriller di media qualità che riesca a tenere il lettore avvinto alla pagina, figurarsi per raccontare un fenomeno complesso come le migrazioni umane. E non è una questione etnica: è una questione di squisite qualità letterarie.

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The New Pope

Avevo minacciato questa recensione sui social, ed eccola.
Ho pensato un po’ al titolo, ma il problema è che una cosa così è irriducibile a qualcosa di semplice e immediato come un titolo, e allora lasciamo perdere, e basta.
Dunque. Non so neppure da dove cominciare. Perché The New Pope è una roba soverchiante: nelle immagini, nella regia, nei contenuti, nei dialoghi. Ti sovrasta, esattamente come San Pietro e il Vaticano, quelli veri. Sono troppo, e così troppo è pure The New Pope. Troppo bella, soprattutto.
Sgombriamo subito il campo dai fraintendimenti. No, The New Pope non descrive il Vaticano, non è quella la sua ambizione e credo fosse chiaro fin da The Young Pope. Sorrentino far partire il suo discorso da un ragionamento su cos’è il potere quando si suppone esso provenga da Dio, e il modo migliore per farlo è inventarsi la propria personale versione del potere divino con cui il mondo intero è familiare. Infilandoci cose che fanno parte della percezione collettiva del Vaticano, certo, ma, voglio dire, davvero nessuno può pensare che quella cosa lì sia il Vaticano. Posso capire che per un credente, uno parecchio ortodosso, la visione di The New Pope possa essere irritante – non quanto il giovane papa, comunque – ma, a ben guardare, Sorrentino non gioca mai coi santi. Il Vaticano che descrive è una realtà completamente umana: umani tutti i suoi attori, umani i giochi di potere, umani i dilemmi, le fragilità, i peccati. Pure i Papi sono tutti ridotti da figure sacrali a esseri umani come noi tutti; anzi, l’idolatria, sotto sotto presentata come una delle grandi minacce alla Chiesa contemporanea – neppure tanto sotto, a dire il vero… – viene stigmatizzata ogni volta sia possibile. È l’uomo che interessa a Sorrentino, per cui pure queste accuse di blasfemia…boh, secondo me lasciano il tempo che trovano. A meno che uno caschi dal pero alla scoperta che, ahò, pure il Papa è un essere umano, e chi l’avrebbe mai detto.
Detto questo, rimane tutto il resto. Che è immenso. Leggevo da qualche parte ieri che The New Pope è la miglior serie televisiva italiana di sempre, e non potrei essere più d’accordo.
Ho iniziato a vederla scettica. Avevo seguito The Young Pope, ma, a parte un comparto visivo e registico da urlo, non mi aveva entusiasmata. Mi era sembrato un vacuo esercizio di bravura stilistica, sotto il quale però la sostanza fosse un po’ pochina. Anzi, a conti fatti la consideravo una bella trollata. Però la bellezza formale esercita comunque su di me un discreto richiamo, e amo Sorrentino, credo di averlo già detto in passato, e allora mi sono data alla visione durante uno dei miei ultimi viaggi in treno. Sono rimasta catturata praticamente da subito.
Sorrentino prende tutto il buono della sua opera precedente, lo eleva a potenza, e ci aggiunge l’unica cosa che mancava: un’adesione vera e sincera alle regole della serialità. Leggi: c’è una trama.
The Young Pope era davvero quel che ho letto su alcune delle prime recensione di The New Pope, ossia un contenitore di “sorrentinate”: quelle robe lì che tu le vedi e capisci che può averle fatte solo lui, tipo il canguro nei giardini vaticani. Queste sorrentinate, però, non erano legate, e al di là dell’assenza di una trama, che può essere comunque una scelta stilistica, c’era soprattutto una discontinuità tematica: le cose sembravano susseguirsi un po’ a casaccio, anche in contraddizione l’una con l’altra. The New Pope, invece, pur essendo colmo di sorrentinate, file via come una spada, riuscendo nell’incredibile miracolo di spiazzarti ma al tempo stesso soddisfarti. I personaggi sono memorabili, interpretati tra l’altro con una maestria che è raro trovare nella serialità televisiva; ci si rivede in ciascuno di essi, anche nei più estremi, nei più abietti. Tifi per loro, vuoi che trovino una soddisfazione ai loro infiniti dilemmi, e al tempo stesso vuoi che le loro storie non finiscano mai, perché ormai sono diventati tuoi amici. I dialoghi sono di una potenza impressionante, potrei star qui a citare pezzi su pezzi, dai desideri dei cardinali durante il conclave, così commoventi nella loro devastante umanità, al discorso di Voiello durante un certo funerale, all’ultimo discorso di Giovanni Paolo III. Per altro, Silvio Orlando immenso, probabilmente all’interpretazione della sua vita, impeccabile sempre. Le scelte registiche, e pure qua, che gli vuoi dire? Un tripudio di movimenti di macchina, di trovate, di simmetrie sparate in faccia a palate, e al tempo stesso la capacità di essere sobri là dove il racconto lo richiede. La fotografia, pure qua, Luca Bigazzi, stiamo pure a parlarne? La bellezza visiva di questa serie è difficile pure a dirsi. Ogni scena, un’immagine da stamparsi su poster e appendersi in stanza. A volte mi domando se Sorrentino non abbia scelto il Vaticano per via di tutto quel rosso e quel bianco, che si prestano a infiniti giochi di accostamenti e contrasti, di simmetrie e inquadrature. The New Pope bello, e a volte il bello ci vuole, soprattutto quando è usato con tale sapienza. L’esercizio di stile, se ben eseguito, può bastare. Tutto sommato, bastava già in The Young Pope, che pure mi sono vista fino alla fine.
Ma c’è dell’altro. C’è la riflessione sul rapporto dell’uomo col sacro, col miracolo, con Dio. C’è lo studio sul potere, sull’amore, persino sulla Chiesa. Sì, perché questo non è il Vaticano vero, e se si può dire che la serie parta come una specie di fantasy a tema vaticano, poi verso la fine scantona invece nell’utopia, in ciò che Sorrentino sogna per questa Chiesa, cui pure non appartiene, visto che, se non erro, non è credente. Eppure, come altri non credenti – penso a De André, per dirne uno – riesce a cogliere con incredibile acutezza alcuni elementi del messaggio cristiano: l’idea rivoluzionaria di un dio che ti ama persino nei tuoi peccati, e che ti perdona, l’immagine di una chiesa universale che accoglie davvero chiunque, una chiesa degli esclusi che proprio della loro condizione di estranei a tutto, prima di ogni cosa a se stessi, si fa forza. Un’utopia, indubbiamente, ma la narrazione a volte non serve anche a sognare? E allora possiamo anche immaginare un finale come quello di The New Pope, ove ogni cerchio si chiude, e infine tutti trovano la loro pace. E poi ancora il dolore, e il nostro posto nel mondo, la missione – altro messaggio eminentemente cristiano – che siamo chiamati a condurre nelle nostre esistenze. Tutto raccontato con profondità, con sincerità. Ci sono cose sinceramente commoventi, nella serie, quella meravigliosa puntata 7, per dire, che ti fa venir le lacrime agli occhi col semplice seguire una donna che cammina sotto un portico. Ma quanta umanità in quella sofferenza, quanto del dilemma che ognuno di noi deve affrontare nella propria vita, quando dobbiamo fare i conti con l’incomprensibilità del dolore.
Tutto bene, quindi? No. Perché The New Pope non è una serie per tutti. Sorrentino ha una visione, ha una voce, come si direbbe in letteratura, e questa voce può piacere o meno. Soprattutto, è spesso soverchiato dall’imponenza della messa in scena: capisco che può essere difficile per molti andare già solo oltre la sigla con le monache che ballano ammiccanti intorno alla croce al neon. È desiderio di scandalizzare a tutti i costi? Non lo so. Io ho trovato una ragione pressoché dietro ogni provocazione, ma capisco che non tutti hanno la voglia di mettersi là ad andare oltre se già l’attacco è respingente. Io vi invito comunque a proseguire: oltre la badessa nana che fuma il sigaro c’è l’immensità della nostra miseria e della nostra grandezza di uomini, sempre sospesi tra il cielo e la terra, tra gli abissi dell’abiezione e l’insopprimibile desiderio di elevarci. E direi di chiudere qui, con queste righe deliranti, l’ennesimo mio delirio, stavolta su un delirio altrui :) .

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Bojack Horseman: un viaggio indimenticabile

Ho pensato di parlarne un sacco di volte, ma poi non l’ho mai fatto, e non so perché. Forse a volte le cose sono così perfette che a parlarne si pensa quasi di rovinarle; una cosa come Bojack la guardi, e poi non c’è niente da aggiungere, perché sta tutto là, in quei ventisei minuti in cui poi ognuno vede quel che vuole. Ma adesso Bojack è finito, ed è difficile spiegare il vuoto che mi ha lasciato dentro.
Cominciamo dall’inizio, da quando, credo due anni fa, iniziai, piuttosto riluttante, a guardarlo. Ne avevo sentito parlare bene da tutti, sapevo che dunque era una tappa obbligata, ma non ne avevo granché voglia. Ma avevo necessità di staccarmi dai social, che, come succede periodicamente, iniziavano a farmi più male del solito, e allora ho iniziato.
Devo dirlo, la prima stagione non mi aveva granché entusiasmata. Mi sembrava che Bojack stesse sulla scia di un altro prodotto che aveva detto le stesse cose, ossia Californication: sì, L.A. e l’industria del cinema e della televisione sono il male, il protagonista è uno stronzo autoriferito, ma ha le sue ragioni per esserlo.
È dalla seconda stagione che ho iniziato a vedere altro, sotto la patina superficiale di una critica, tutto sommato indulgente, al mondo dello showbusiness. Non so quando sia successo, ma pian piano Bojack ha iniziato a parlare anche a me. Non era più la storia di una vecchia gloria della tv, in cui io, per altro, non mi sono mai immedesimata, come è capitato invece a tanti miei coetanei, ma qualcosa di più: il racconto triste ma sincero delle nostre esistenze insoddisfatte, della nostra disperata ricerca di una felicità che semplicemente non esiste, e di come la nostra infanzia ci abbia segnati tutti per sempre. E poi, certo, di che razza di tritacarne assurdo sia il successo, di come la società che ci siamo costruiti attorno, questo regno dell’apparire, non faccia altro che masticarci e sputarci via una volta che siamo stati prosciugati di tutto ciò che può interessare al pubblico. Quel che resta, alla fine, è solo un buccia vuota, perché dietro ciò che hai cercato di essere non c’è mai stato davvero altro.
E tutto questo viene raccontato senza compiacimento e senza indulgenza, ma con una sincerità, e una capacità di scavare dietro lo stereotipo, che davvero non ha eguali nell’animazione e nella serialità moderna.
Ho adorato un’infinità di cose. Ne dico una su tutte, molto recente: Diane che fa i conti con la sua depressione. Esiste questo stereotipo che circonda gli psicofarmaci, quest’idea che se li prendi sei un drogato, e che comunque non sei più te stesso, ma intontito e sedato. Ed esiste anche il mito che la creatività ha bisogno di sofferenza, che l’artista mezzo pazzo deve pagare il suo talento con una giusta dose di sofferenza psichica. Ecco, io non so quanto ringraziare Bojack per aver mostrato a tutti che no, non è così. Che sono tutte stronzate, che la depressione è una malattia e si cura, e che se poi non scrivi più non è perché “i farmaci ti intontiscono”, ma magari solo perché ti stai ostinando a scrivere una cosa che non ti appartiene. Eh, o Dio, quant’è bello quando Diana capisce che sì, tanto del dolore della nostra vita è semplicemente inutile, e non ha neppure senso cercargli un significato. La depressione, l’ansia, non ti rendono una persona migliore, non sono ponti che ti portano dall’altro lato del fiume e ti migliorano: è solo dolore, un dolore che va curato. E dire queste cose da dentro, da chi di quei miti si è sempre alimentato, ha una forza diversa, prorompente.
Ora, mentirei se dicessi che quest’ultima stagione mi è piaciuta in toto, o che abbia del tutto apprezzato il finale. Ne capisco il senso, “sometimes life’s a bitch and then you keep living” e, chissà, forse Bojack non meritava un’uscita di scena che mettesse fine a tutti i suoi tormenti. Il suo destino è star qui, e fare i conti con tutto quel che ha fatto nella vita, bere, e poi disintossicarsi ancora, perché questo è quel che facciamo: pentirci, e poi rifare sempre gli stessi sbagli, finché capiamo che a volte il vero atto eroico non è lottare, ma accettare i propri demoni. Ma ho sentito comunque una certa mancanza di compattezza tematica in quest’ultima stagione, e forse un’indecisione sul finale, che tirava tutto da una parte, ma poi magari è mancata la volontà di arrivare all’inevitabile conclusione. Ma non ha importanza. Bojack mi ha regalato un viaggio indimenticabile negli abissi dell’esperienza umana, un racconto privo di qualsiasi autoindulgenza su ciò che siamo una volta liberati da tutti i veli che poniamo tra noi e il mondo, e su quanto male siamo in grado di farci l’un l’altro, anche senza volerlo.
Grazie, Bojack. Quel che mi hai lasciato è destinato a durare per sempre. E a tutti quelli che non l’hanno visto: guardatevelo. Non state lì a temere che faccia male, che vi deprima o chissà che. Le storie sono qua non per consolarci, ma per appassionarci, per tirarci dentro al loro mondo e farci gioire e disperare, per sostituire il loro mondo al nostro, e per farci sospirare, alla fine, de te fabula narratur.

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Il mio problema con The Witcher

Era solo questione di tempo, prima che postassi questa recensione. Un po’ questo The Witcher mi attirava, anche per i pareri mediamente polarizzati a riguardo, un po’ si sarebbe trattato di lavoro. E dunque, alla fine, ho iniziato a vedermi la serie. Ora, sono arrivata all’episodio cinque, quindi non so, magari da qui in poi decolla in modo clamoroso, ma mi sento ugualmente di buttare giù il mio parere. Poi, a cambiare idea c’è sempre tempo. Qualche SPOILER.
Andiamo al cuore vero del mio problema con The Witcher. Non ci credo. Non riesco a crederci. Neppure per un attimo. Il punto principale della narrativa fantasy, di qualsiasi tipo, è, come ormai universalmente noto pure alle piante, la sospensione di incredulità. Poiché si parla di cose per lo più impossibili, è necessario che ci sia una solida coerenza interna, che permetta allo spettatore/lettore di compiere quell’atto di fede: decidere di credere a ciò che sta fruendo. Ovviamente, non si tratta di una scelta consapevole: lo spettatore/lettore o ci crede, o non lo fa. Dipende dall’abilità del narratore e dalla capacità di rendere credibile la messa in scena. Ecco, secondo me The Witcher è carente su ambo i punti.
Circa l’abilità della narrazione, invece di scegliere una narrazione più lineare, si decide di adottarne una che zompa tra diverse linee temporali. E vabbè, assolutamente legittimo. Se vuoi fare una cosa del genere, però, la tensione narrativa deve essere alta: a parte che potrebbe essere bene far intuire fin da subito un legame tra le sottotrame, le stesse dovrebbero essere appassionanti, pena perdersi per strada lo spettatore, che nella confusione non trova ragioni per continuare la visione. Invece, questi cinque episodi oscillano tra il vagamente interessante e la noia mortale. Fin più o meno all’episodio quattro, non c’è la vaga traccia di un qualche legame tra i fili narrativi, e quando questo legame appare, è comunque piuttosto labile. Sì, c’è una connessione, ma questa connessione, fin dove sono arrivata io, non sembra avere una ragione narrativa forte. Sembra più che altro un artificio per mettere assieme tutto alla bell’e meglio. I personaggi sono vagamente interessanti, ma tutti incasellati in modo abbastanza netto all’interno di chiari stereotipi del genere: Geralt è un Conan-like, Ciri è la fanciulla in pericolo che però poi presumibilmente calcerà culi, Yennefer la strega cattiva perché c’ha i traumi infantili. Non sarebbe ovviamente un problema, se i personaggi avessero quel minimo di profondità che ti permette l’empatia. E invece no, stanno tutti comodi nel loro stereotipo, senza guizzi, senza reali dilemmi o evidenti possibilità di sviluppo.
Ma la cosa che veramente mi manda ai matti è una dissonanza continua tra gli eventi e la messa in scena. Succedono cose che alludono al famoso “fantasy adulto”: ci sono le tette, il sesso e le orge, per dire, ci sono neonati ammazzati, gente fatta secca perché non fornisce il sospirato erede maschio. Tutte cose che, in teoria, dovrebbero dare realismo al tutto, e alludono a un mondo crudele e oscuro. Peccato che la messa in scena, dai costumi alla fotografia, alluda invece a un contesto da fiaba. Immaginate la trama di Game of Thrones nel mondo di Merlin. Continuamente lo spettatore non capisce che sta guardando: una roba fiabesca su principi e principesse segnate dal destino, o un fantasy storico medievaleggiante brutto, sporco e cattivo? Io, almeno, non lo capisco, col risultato che la mia sospensione di incredulità va a farsi benedire.
Non aiutano le interpretazioni, a partire da quella di Cavil. A parte che trucco e parrucco sono quel che sono, e ogni volta che lo vedo guardare qualcuno coi suoi occhi gialli la mia domanda è se e quanto gli diano fastidio le lenti a contatto, a parte fare le faccette non vedo altri sforzi interpretativi. Calanthe è l’implausibilità fatta persona, un’altra in overactig costante. Belle alcune facce, tipo Ciri e Yennefer, ma per il resto la capacità di rendere credibili i personaggi di sicuro non può contare sulle capacità interpretative. Jaskier forse è il migliore del mazzo, peccato sia al servizio di un personaggio non solo stereotipato alla morte, ma francamente insopportabile. Tra l’altro, non si capisce bene perché, se siamo in un’ambientazione pseudomedievale, debba cantare brani dal sapore dichiaratamente pop contemporaneo.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata una pigrizia di sceneggiatura all’episodio quattro, in cui viene fatta una promessa che coinvolge neonati due nanosecondi prima che una tipa vomiti opportunamente a favore di camera per rivelare di essere incinta. E come ti sbagli.
Insomma, per me non ci siamo. Non mi diverte neppure come guilty pleasure, perché semplicemente non mi diverte e basta. La sensazione preponderante è lo spaesamento. E la triste consapevolezza che forse non è più tempo di fantasy classico televisivo, se mai lo è stato. Sì, ok, Games of Thrones, ma il contenuto fantastico era davvero minimo: c’era una strega sola, gli zombie apparivano una volta a stagione, sennò tutto era sulle spalle dei draghi. Mi domando se il problema sia The Witcher e la sua realizzazione, o non sia invece proprio il genere in sé. Si può mostrare uno che lancia lampi dalle mani senza essere ridicoli? Si può essere credibili mostrando elfi e foreste fatate? O tutte queste cose possono trovare uno spazio di plausibilità solo nella nostra fantasia, quando leggiamo e sta a noi l’onere di immaginare?
Non lo so. Ma di certo questo non era il fantasy che stavo cercando.

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