Archivi del mese: aprile 2020

La Cura di Licia (sì, è una citazione)

La quarantena, in questa forma che abbiamo conosciuto fin qui, sta per finire. Lo so che dal 4 maggio, per noi comuni mortali, non cambierà pressoché nulla, ma non ha importanza: cambia la percezione delle cose. Il 4 maggio è una data simbolica. È l’inizio di quella “nuova normalità” che è diventato il nuovo mantra. Che somigli incredibilmente alla vecchia quarantena è un dettaglio.
È un po’ che mi interrogo su queste settimane chiusa in casa e su questo dopo misterioso di cui non sappiamo molto, in primis quanto durerà. E ho realizzato un paio di cose: che all’inizio l’ho presa malissimo, e non credo comunque di esserne fuori, perché io non ne sono mai fuori. Basta sempre poco per farmi uscire di brocca. Ma sono riuscita anche ad adattarmi più rapidamente di altra gente. vedo in giro fare discorsi che mi sarebbero appartenuti un paio di settimane fa, ora non più. Ora ho fatto la tana nel mondo pandemico e mi sono adattata. Fino al prossimo capovolgimento di cose, ovvio. Poi ho capito che questo tempo – che, se lo guardo adesso, mi sembra essere passato rapidissimo, quasi non fosse esistito affatto – l’ho passato a fare cose che non mi appartengono. Proprio come fosse stato una sospensione della mia vita solita, ho scritto pochissimo (al netto, solo questo), lavorato lo stretto indispensabile, e fatto cose che non avevo mai fatto, o fatto poco, prima. Ho letto tantissimo ad alta voce, che non è il mio mestiere, ovviamente. Ma mi piace, mi dà una mano a mettere ancora a posto la dizione, e allora lo faccio, perché sì, anche se leggo male, come si intitola la rubrica su Instagram. Ho fatto foto. Che non è il mio mestiere. Direi che è evidente dai risultati. Ma siccome non riuscivo a dire quel che sentivo con le parole – un fatto assolutamente inedito e terrificante per me, credetemi – potevo farlo con le immagini. Mi lamento spesso, di recente, di fare poche foto, di non cercare di crescere in quest’ambito, e stare chiusa in un posto che conosco benissimo mi è parso un buon modo per esercitarmi. E anche qui, chissene dei risultati.
Ma, soprattutto, ho tradotto. Ho tradotto tutto intero un libro, The Hollow Boy, terzo libro della saga di Lockwood & Co. di Jonathan Stroud che, come credo sia ormai noto urbi et orbi, è il mio scrittore fantasy preferito (lo sapete che ha partecipato ai Libri sul Comodino dell’ultima puntata di Terza Pagina? Sapevatelo! :P ). La saga di Lockwood l’adoro, in Italia sono stati tradotti solo i primi due volumi, The Hollow Boy è forse il mio preferito, e allora l’ho fatto. L’ho fatto perché da sempre avrei voluto tradurre. Ho avuto vaghe esperienza con la cosa, in passato. Già a scuola, tradurre dal latino mi dava un piacere strano. Perché io non volevo solo fare la versione: volevo scrivere una roba che avesse senso pure in italiano, non quelle cose tradotte male che non hanno né capo né coda. Era come risolvere un puzzle: non solo cercare le parole sul dizionario, ma cercare la parola giusta che rendesse il senso del testo, e al tempo stesso suonasse bene nel contesto. Riscrivere, forse, coi limiti del caso. Quel piacere lì, l’ho ritrovato quando ho iniziato a imparare meglio l’inglese. Col francese è un po’ più facile: la struttura della frase è quella, molto simili all’italiano, il puzzle è più semplice. Con l’inglese no. La distanza è maggiore. Non puoi tradurre uno a uno, perché non avrebbe senso: devi risolvere la frase come fosse un enigma, mettendo assieme il senso, la comprensibilità e lo stile.
Prima di quest’impresa, in vita mia avevo tradotto solo due cose: un piccolo libro, che però non è mai stato pubblicato per vicende varie per cui, nonostante avessi finito il lavoro, non sono arrivata alla firma del contratto, e i testi di alcuni siti, tra cui una pagina di Wikipedia. Quindi io non traduco. Non è il mio lavoro. Ho fatto quel che ho fatto, di nuovo, perché ne avevo bisogno.
Innanzitutto, perché ho scoperto che mi distraeva tantissimo. Quando mi mettevo lì a tradurre, non c’era altro, e in una fase in cui concentrarmi su un lavoro creativo mi richiedeva uno sforzo sovrumano, perché l’unica cosa cui riuscivo a pensare era l’ansia che avevo addosso, la paura sorda di un futuro inconoscibile, ma che mi appariva comunque tremendo, è stata una vera e propria ancora di salvezza. Una sera mi sono messa lì a lavorare a mezzanotte; non riuscivo a dormire, mi veniva da piangere ed ero spaventatissima. Mi sono seduta alla scrivania, e mi sono fatta portare per mano dalla storia. E ha funzionato. Un’ora così, sono tornata a letto, ho messo la testa sul cuscino e mi sono addormentata.
Poi, quando ho iniziato a stare un po’ meglio, mi sono accorta che tradurre mi aiutava anche in un altro senso. È una specie di forma di scrittura a bassa intensità. Non devi inventarti una storia, creare un mondo, spremerti per raccontarla, facendo per altro appello a emozioni delle quali, in quel momento, mi sentivo completamente prosciugata. Devi farti guidare da un altro, e rifrasarlo. È stata come una cura, per me. È stato come reimparare ad avere a che fare con la fantasia, che mi si era d’improvviso disseccata, come succedeva quando ero adolescente, volevo scrivere, e non mi fidavo di nessuna storia mi venisse in mente per farlo. È stato importante fosse una storia che amavo; l’effetto che aveva su di me, di profondo piacere, mi ha ricordato l’importanza delle storie, dell’ascoltarle e del narrarle.
Infine, quando ormai la voglia di raccontare cose mie mi è tornata, mi ha permesso di godere più profondamente di una storia che amo. Quando leggi un libro per puro piacere, soprattutto se è in un’altra lingua, qualcosa ti sfugge sempre. Ma se lo devi tradurre, non ti puoi distrarre, devi stare attaccato ai punti e alle virgole, e quel termine, che in prima lettura avevi vagamente capito e non avevi approfondito, perché tanto il senso lo avevi colto, ora lo devi per forza comprendere meglio che puoi. Ho scoperto preziosismi di stile che prima avevo perso, metafore geniali che non ricordavo e che mi facevano scendere i brividi di piacere giù per la schiena. È stato come vederlo al microscopio, ma senza perdere lo sguardo d’insieme, come navigarci dentro, immergercisi e godere della sensazione di stare sott’acqua, una delle cose che più amo nella vita.
Ora, ho finito. Sono 420 venti pagine che nelle mie intenzioni forse un giorno leggerà mia figlia – stiamo leggendo assieme il primo, La Scala Urlante – ma più probabilmente non leggerà mai nessuno. Perché non è questa la ragione per cui l’ho fatto. È stata la mia cura, null’altro. La Cura di Licia, per parafrasare un altro libro amato, La Cura del Gorilla di Sandrone Dazieri. E so che andrò avanti. Tradurrò quello dopo e così finché avrò voglia, perché mi aiuta, e credo di averne ancora bisogno, anche solo perché mi tiene un po’ lontana dai social, che in questo periodo mi fanno più male del solito.
Le storie ci salvano, è questa la verità, e a volte lo fanno in modi che non avremmo mai immaginato. Questa storia oggi ha salvato me, e non potrò mai dimenticarlo.

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Cose che ho fatto in quarantena

Davanti a noi abbiamo almeno un’altra settimana di quarantena stretta, e poi un tempo indefinito in cui ci toccherà comunque stare in casa più del solito.
Arrivo lo stesso in ritardo, ma per questi giorni vi faccio comunque un breve riassuntino di robe che ho fatto/sto facendo in questo periodo.
C’è sempre il Diario Cileno, per chi ancora non l’avesse letto, gratis a questo link e al costo simbolico di un euro su Amazon.
Ho scritto anche un breve racconto post-apocalittico, in cui più che altro ho voluto esprimere l’amore che provo per il posto in cui vivo, e che in questo momento mi è precluso come il 99% della roba che sta fuori dalla mia porta di casa. Lo potete leggere qua. Se preferite, potete ascoltarlo dalla mia viva voce in questo video su Youtube.
Sul mio canale di YouTube sto anche cercando di caricare i video delle letture di questo periodo. Vado lenta, lo so, scusate. In quarantena il tempo mi passa più rapido di quando sono libera :P .
Infine, ho messo su un progetto fotografico sulla quarantena; niente di che, le solite foto sceme, con le quali però sto cercando di raccontare come mi sento, come è cambiato il mio rapporto col mondo e anche con la mia casa, con me stessa, persino. Le didascalie sono in inglese, perché, boh, pensavo che a un certo punto a uno che dall’estero leggesse cosa stava succedendo in Italia potesse interessare sapere come vive la gente che per fortuna ancora non ha fatto i conti direttamente col virus (o forse sì, nessuno di noi lo sa, in verità). Su Facebook sto provando a ripostare pian piano tutto anche in italiano.
La storia in questo periodo non la sto certo facendo io, ovviamente. Ma non credo che quel che abbiamo fatto e stiamo facendo in questo periodo non abbia importanza, o meriti di andare perduto. Per me la vita è soprattutto esperienze, è il momento che sto vivendo, e voglio ricordarlo. E poi, se anche mezza di queste cose qua vi fa sorridere, vi distrae, o anche riflettere senza troppe ansie, credo non sia stato inutile. Enjoy in ogni caso :) .

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Riflessioni sparse

All’inizio di tutta questa storia, quando la mia ansia era oltre i livelli di guardia, mi si fece notare che il problema non era tanto il virus o la situazione, ma io e come la stavo prendendo.
Ecco, quella cosa, che allora non capii a fondo, ora si applica a tutta intera la nostra società. La stiamo prendendo malissimo, ma nel senso che il nostro prenderla così male, un po’ da tutti i lati, ci sta attivamente allontanando da qualsiasi possibile soluzione a una situazione sì brutta, ma che si è ripetuta infinite volte nella storia dell’uomo, che è connaturata alla nostra esperienza da quando abbiamo avuto quella gran bella idea di smettere di essere cacciatori e raccoglitori, e metterci a fare gli agricoltori e i pastori.
La nostra società è preda da settimane di una crisi isterica generalizzata, basata sul fatto che a nessuno di noi era mai capitata una cosa del genere, e che se n’era persa persino la memoria storica. La spagnola, l’ultimo grande evento simile a quello che stiamo vivendo, dista cento anni pari pari, piuttosto pochi, a ben vedere; eppure, finita, l’abbiamo abilmente rimossa e infilata nel cassetto delle cose che abbiamo arbitrariamente deciso non potessero più capitarci.
Del rapporto schizofrenico delle società moderne con la scienza ho già detto: o prevale il complottismo, che è uno scimmiottamento della scienza, oppure la scienza diventa la nuova divinità laica che tutto sa e tutto può. Eh sì che ce l’avevano detto: non sappiamo molte più cose di quelle che conosciamo, la scienza non ha tutte le risposte, e, quando ne trova alcune, ci mette tantissimo tempo e sono tipicamente risposte limitate nel tempo e nello spazio. Ma no; le epidemie sono cose morte e sepolte, perché abbiamo gli antibiotici, i vaccini e i medicinali. E allora quel che è successo è che abbiamo perso la capacità di accettare di non sapere le cose.
Non sappiamo la letalità del virus, non sappiamo come si diffonda, non sappiamo quanto sia contagioso, non sappiamo quali sintomi abbia, non sappiamo come si cura. E questa cosa ci manda ai matti. Perché per gli ultimi ottant’anni abbiamo vissuto in un’illusione di certezza cui ci siamo assuefatti: nonostante tutto quel che ci dicevamo, sapevamo dove stavamo andando, anche quando avevamo la certezza che la strada fosse sbagliata (vedi cambiamento climatico, per dire). Così, alla prima incertezza vera, alla prima battuta d’arresto, siamo rimasti tutti di sasso.
Cerchiamo disperatamente certezze: sapere quando finirà, sapere come finirà, che fine faranno i nostri progetti, quel che facevamo prima. E non avendo risposte, ci creiamo come sempre degli idoli: i runner che escono e spargono il contagio, le code sulle strade – causate semplicemente dai posti di blocco che abbiamo voluto per essere sicuri che tutti rispettino la quarantena – di chi si suppone vada in vacanza, i complottismi e ogni sorta di idea bislacca su come evitare il contagio. Ora come ai tempi della peste di Manzoni, e prima ancora quella del ’300, e poi ancora più indietro. Ogni volta lo schema è sempre più o meno quello. Ci credevamo moderni, ma siamo come i nostri antenati: preda di malattie sconosciute, e proni alla superstizione.
Ovviamente, ci sono domande che è giusto farsi: chiedersi di chi sia la responsabilità della tragedia italiana, che al momento non ha eguali nel mondo, domandarsi dove abbiamo sbagliato, o come proseguire da qui in avanti. Tutto giusto. Ma il senso di catastrofe che emerge dai social, persino dagli sguardi da gatto paralizzato dal terrore davanti alla macchina che lo investirà che ognuno di noi sfoggia mentre va a fare la spesa, beh, quelli non servono a niente.
Ci è capitato perché sì. Ok, ci sono indubbiamente errori che abbiamo compiuto che hanno portato alla pandemia. Ma saremo tutti d’accordo che son ben veniali rispetto al prezzo che stiamo pagando. Quindi è capitato perché capita. Non ne sapremo ancora a lungo, e nel frattempo c’è una sola cosa da fare. Accettare la situazione e adattarsi.
Pensavo che ci avrei messo una vita ad adattarmi a stare sempre dentro casa, a fare due ore di fila al supermercato, a convivere con la consapevolezza che i miei cari possano morire e la causa della loro morte possa essere io. E invece ci ho fatto i conti. Ieri, con la mascherina, in fila dal salumiere, canticchiavo Lady Gaga che stava passando alla radio. Mi sono inventata una nuova routine per la giornata, sto pensando a nuovi modi per fare spesa che non passino dal supermercato. Non penso mai a quando tornerò al ristorante, a fare presentazioni, ad andare in vacanza. Accetto l’oggi per quel che è.
Certo per me è facile. Sono entrata in questa quarantena con tutte le facilitazioni possibili e immaginabili e con un solo handicap. C’è gente che vive in condizioni intollerabili, e ovviamente occorre fare tutto il possibile perché questa gente possa uscire viva e in salute da questa epidemia – perché non si muore solo di COVID, in questo periodo, ma ci piace dimenticarlo -, ma per il resto, la vita ci ha dato molti limoni, da un giorno all’altro. Possiamo star qui a piangere, o farci una marmellata, o tanta limonata. Ci si adatta; l’homo sapiens non sarebbe arrivato fin qua se non sapesse adattarsi pressoché a tutto. E ci si adatta pure a vivere nell’incertezza. Perché la verità è che l’incertezza è sempre esistita. Non abbiamo mai saputo davvero niente, ma ce la raccontavamo. Ora non possiamo raccontarcela più, meglio farci i conti.
Ho avuto un sacco di problemi, nella mia vita, con la spiritualità, chiamiamola così. È un aspetto ineliminabile del mio essere, ma è anche qualcosa che non riesco ad accettare così, senza star lì a farmi duemila problemi e domande, a credere e basta. Non sono io, semplicemente. Ma se c’è una cosa che alla fine mi piace del modo in cui l’ha Chiesa ha deciso di stare accanto alla gente in questo periodo, è che non ti dice “passerà” – continuo a odiare l’hashtag “andrà tutto bene”, quando in realtà per milioni di persone le cose sono già andate malissimo -, non ti promette che Dio stenderà il suo braccio e da domani si torna alla normalità, qualsiasi cosa significhi – a parte un paio di cadute di stile qua e là in questo senso -. Ti dice invece che la sofferenza, nel suo complesso, non si può eliminare. Si può alleviare, le puoi sfuggire un certo numero di volte, ma prima o poi ti acchiappa e non potrai scappare. E allora potrai solo stringere i denti, sapere che non sei solo, e dirti “adda’ passa’ a nuttata”. Sì, quel che dice Eduardo in Napoli Milionaria. Devi passare attraverso la tempesta, perché non c’è altro modo. La devi accettare, perché questa è la vita. O così, o strappi il biglietto, come diceva Ivan ne I Fratelli Karamazov, e io, nonostante tutto, quel biglietto me lo voglio ancora tenere molto caro.
Ecco. Io penso che dovremmo stare tutti un po’ più calmi. Insistere per ottenere dai nostri governanti tutto il possibile, ma smettere di cercare l’impossibile. È già successo, succederà ancora. Siamo fragili, bella scoperta. Ma non è che non lo fossimo prima: prima ce lo potevamo negare, ora non più. Non andrà tutto bene. Ma andrà, come è sempre andata.

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Un racconto con tante premesse

In questi giorni ho avuto problemi a scrivere. Non mi riusciva. Ero sopraffatta dagli eventi, piena di ansia, non riuscivo a concentrarmi e dormivo male. Mi sono allora concessa la mia cura: ho fatto quel che mi faceva stare bene, e quel che mi faceva stare bene era tradurre uno dei miei libri preferiti e farmi andare via la voce a furia di letture pubbliche di brani miei e di altri che molto amo. Non mi sono forzata, ho lavorato piano su progetti che sentivo alla portata delle mie energie in quel momento. E alla fine ha funzionato. Pian piano, mi è tornata la voglia di usare parole mie, e non quelle altrui. Mi è venuta un’idea stupida e banale, e non sono stata lì a preoccuparmi; quando ho avuto voglia, l’ho scritta. L’ho fatto solo per ristabilire un contatto con quella parte di me che per lunghi giorni temevo addirittura perduta. L’ho fatto per riprenderci la mano, per dimostrare che potevo ancora farlo, e che addirittura potevo scrivere, in modo comunque inventato, di quel che sentivo. Il risultato sta qua sotto, per chi vorrà. Ma prima, alcuni disclaimer:

1. l’autore vive sempre nel suo mondo. E il mio mondo, adesso, è la quarantena. E quindi i riflessi della situazione che sto, stiamo vivendo, si colgono in quel che ho scritto. Questo significa che è una storia molto triste, anche se, nelle mie intenzioni, dentro c’è una disperata speranza. Quindi, se lo leggete, fatelo se davvero avete voglia di reggere una cosa sostanzialmente deprimente.

2. l’autrice che è in me raramente parla direttamente del qui e ora. Il mio immaginario è e rimane l’invenzione. Quindi, il mondo di questo racconto non è il nostro e non vuole esserlo. Io non credo che finirà così, assolutamente; anzi, più passano i giorni, più mi sembra di riuscire a ragionare fuori dall’ansia e dalla paura, e vedo praterie di spiragli per il futuro. Li dovremo saper cogliere, certo, ma che ne usciremo per me è certo. Ma non era quello che mi interessava raccontare qui. Per cui non pensate che sia una pessimista cosmica.

3. quel che volevo raccontare, invece, è il mio rapporto viscerale col luogo in cui vivo, l’amore che provo per questi colli e la nostalgia enorme che mi genera non poterli vivere fino in fondo, come ho fatto in questi anni. Tutto qua. È un atto d’amore per i Castelli Romani, per il Tuscolo e tutto ciò che significano per me.

4. lo so che un racconto che ha bisogno di tutti ‘sti preamboli nasce male. Un’opera di fiction dovrebbe generare interpretazioni, non essere ingabbiata da quella dell’autore. Ma viviamo tempi duri, e ho sentito di dover fare tutte queste raccomandazioni perché siamo fragili, e io non voglio far del male a nessuno con le mie parole. Non esagero, perché tantissime parole in questi giorni hanno fatto male a me. Per il resto, è un’esperimento, prendetelo come tale. Grazie a chi leggerà.

Una corsa nel bosco

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