In questi giorni ho avuto problemi a scrivere. Non mi riusciva. Ero sopraffatta dagli eventi, piena di ansia, non riuscivo a concentrarmi e dormivo male. Mi sono allora concessa la mia cura: ho fatto quel che mi faceva stare bene, e quel che mi faceva stare bene era tradurre uno dei miei libri preferiti e farmi andare via la voce a furia di letture pubbliche di brani miei e di altri che molto amo. Non mi sono forzata, ho lavorato piano su progetti che sentivo alla portata delle mie energie in quel momento. E alla fine ha funzionato. Pian piano, mi è tornata la voglia di usare parole mie, e non quelle altrui. Mi è venuta un’idea stupida e banale, e non sono stata lì a preoccuparmi; quando ho avuto voglia, l’ho scritta. L’ho fatto solo per ristabilire un contatto con quella parte di me che per lunghi giorni temevo addirittura perduta. L’ho fatto per riprenderci la mano, per dimostrare che potevo ancora farlo, e che addirittura potevo scrivere, in modo comunque inventato, di quel che sentivo. Il risultato sta qua sotto, per chi vorrà. Ma prima, alcuni disclaimer:
1. l’autore vive sempre nel suo mondo. E il mio mondo, adesso, è la quarantena. E quindi i riflessi della situazione che sto, stiamo vivendo, si colgono in quel che ho scritto. Questo significa che è una storia molto triste, anche se, nelle mie intenzioni, dentro c’è una disperata speranza. Quindi, se lo leggete, fatelo se davvero avete voglia di reggere una cosa sostanzialmente deprimente.
2. l’autrice che è in me raramente parla direttamente del qui e ora. Il mio immaginario è e rimane l’invenzione. Quindi, il mondo di questo racconto non è il nostro e non vuole esserlo. Io non credo che finirà così, assolutamente; anzi, più passano i giorni, più mi sembra di riuscire a ragionare fuori dall’ansia e dalla paura, e vedo praterie di spiragli per il futuro. Li dovremo saper cogliere, certo, ma che ne usciremo per me è certo. Ma non era quello che mi interessava raccontare qui. Per cui non pensate che sia una pessimista cosmica.
3. quel che volevo raccontare, invece, è il mio rapporto viscerale col luogo in cui vivo, l’amore che provo per questi colli e la nostalgia enorme che mi genera non poterli vivere fino in fondo, come ho fatto in questi anni. Tutto qua. È un atto d’amore per i Castelli Romani, per il Tuscolo e tutto ciò che significano per me.
4. lo so che un racconto che ha bisogno di tutti ‘sti preamboli nasce male. Un’opera di fiction dovrebbe generare interpretazioni, non essere ingabbiata da quella dell’autore. Ma viviamo tempi duri, e ho sentito di dover fare tutte queste raccomandazioni perché siamo fragili, e io non voglio far del male a nessuno con le mie parole. Non esagero, perché tantissime parole in questi giorni hanno fatto male a me. Per il resto, è un’esperimento, prendetelo come tale. Grazie a chi leggerà.
Veramente stupendo, Licia! Poche pagine, ma che racchiudono un mondo intero, un mondo che sì, non è il nostro, ma nel quale penso che chiunque ci si possa rispecchiare, alcuni più di altri. Ho trovato il racconto davvero piacevole – dall’impatto visivo ed emotivo che in un certo senso stordisce, un po’ come accade per la protagonista – dolce e straziante al tempo stesso, e paradossalmente non l’ho affatto deprimente, anzi. Dopo tutte queste settimane di reclusione forzata, è stato come respirare una boccata d’aria fresca!
perciò ti ringrazio sinceramente <3
Grazie tantissimo!! Sì, in verità non voleva essere tanto deprimente, però avevo paura lo fosse
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