I miei Fahreblog delle settimana 13-16 Maggio 2008

Martedì
Ho iniziato a scrivere a sette anni. Era un po’ come continuare a giocare. Quando mi stancavo di parlare al vuoto con un paio di bambole in mano, mi sedevo davanti al foglio e raccontavo le mie storie.
L’astrofisica è venuta dopo. A dieci anni vidi questo documentario sulla vita e le opere di Stephen Hawking, e ne rimasi affascinata e quasi impaurita. Da lì poi la ricerca dei primi libri divulgativi, Asimov, lo stesso Hawking, e poi lo studio sui libri di scuola. Infine, l’università.
A ventitré anni, nel mezzo del cammino dei miei studi, la folgorazione; mi viene in mente Nihal, e inizio a scriverne. Ed è lì che è iniziata la mia doppia vita.
Ma io, in fondo, cosa sono?
L’astrofisica o la scrittrice?
Giovedì sera stavo assistendo all’evento conclusivo di un congresso della società astronomica italiana. E lì ho visto questa foto. Niente di speciale. L’Osservatorio del Vaticano sullo sfondo del lago di Castelgandolfo.
Quella foto è la mia vita.
Il Lago di Albano, il posto dove ho ambientato il mio ultimo romanzo.
L’Osservatorio, l’astrofisica, il mio lavoro.
Io sono come la Specola Vaticana, in bilico. Stelle e foglio bianco.
Sono forse la scrittrice?
A Torino domenica, c’erano tantissime persone a sentirmi, una platea intera. Ho firmato copie per un’ora senza alzare lo sguardo. Ho pensato ai grazie, ho pensato ai commenti su quel che scrivo. Ho pensato che sono segni, minuscoli, forse, ma importantissimi nella mia vita. Tracce di ciò che scrivo, che, come testimoni, dalle mie pagine passano ai lettori. E da loro a me, ovviamente. Qualcosa resta, tra le righe, non è davvero inutile quello che faccio.
O sono forse un astrofisico?
Perché quando esco dalla porta di notte, ovunque sia, alzo sempre gli occhi al cielo e conto le stelle, cerco la Via Lattea. Perché mi perdo a parlare dell’universo, quando qualcuno mi chiede qualcosa circa il cielo. Perché l’altra sera, a Teramo, quasi mi commuovevo davanti al vecchio telescopio di Cerulli. L’astrofisica è sempre lì, al fondo dello stomaco e vicina al cuore, ogni volta che mi sembra di averla perduta, di sentirla lontana. È ancora una promessa e una scommessa, sono gli anni di studio che me l’hanno fatta conquistare.
E a volte cerco le risposte negli altri, o in una foto. Ma la risposta non c’è.
Io sono due e una, sono due vie parallele che fingono di sovrapporsi, a volte, e non si incrociano mai. Ed è forse in questo dilemma la mia vera essenza, la mia identità e di scrittrice e di astrofisica.
La domanda resterà sempre là, la risposta non c’è. C’è l’interrogarsi, invece, il dubbio, l’eterno oscillare alla ricerca di un equilibrio. Perchè forse è questo grumo inespresso di incertezze, di passioni e amori dilanianti, che con un percorso tortuoso sono stati capaci di condurmi fin qui.

Ascolta

Mercoledì
Leggo ieri sul giornale dell’ennesima tempesta contro gli zingari. A Napoli, dopo il tentativo di rapimento di una bambina da parte di una ragazzina rom si è scatenata una vera e propria rappresaglia. Il tentativo di linciaggio della ragazza, un rumeno che passava picchiato, un rom in bicicletta che ha subito lo stesso trattamento, le molotv contro il campo degli zingari.
Non starò qui a cercare di giustificare l’ingiustificabile, né a sostenere che tutti i rom sono brava gente. Sono come noi. Ci sono le persone oneste, ci sono i criminali. E se anche i secondi fossero più dei primi, forse bisognerebbe interrogarsi sulle condizioni nelle quali i rom sono costretti a vivere, sull’odio e sul disprezzo di cui da sempre li facciamo oggetto.
Vorrei semplicemente si riflettesse su quanto poco sia rimasto della nostra capacità di accettare il diverso. Su quanto ipocrita fosse la nostra tolleranza. E su quanto ormai siamo pronti a lasciare che i nostri istinti più bassi abbiano la meglio. Perché da qualche parte le nostre tensioni devono scaricarsi, e gli zingari sono il bersaglio ideale. Nomadi, sporchi, altri. Nessuno si sente di difenderli. Si può forse cercare di combattere altre forme di razzismo; verso i neri, sforzandosi un po’ anche verso i musulmani. Ma verso gli zingari no. È un odio radicato, profondo, inestinguibile. Sono gli ultimi reietti, quelli che neppure il politically correct li salva.
Del resto, quando le sirene non fanno altro che urlare che non siamo sicuri, quando ovunque ci viene ripetuta la logica del noi contro loro, della civiltà, la nostra, contro la barbarie, la loro, è naturale che si finisca per sentirsi giustificati ad odiare.
È un gioco pericoloso, quello dei nostri politici. Solleticare i bassi istinti della folla, la sua furia cieca, di certo distoglie da altri problemi, non meno gravi ma meno “à la page”, sui quali nessuno vuole che ci interroghiamo. “Gli zingari che rubano i bambini”, come in Notre Dame de Paris di Hugo, scacciano dai giornali il problema dei rifiuti a Napoli. Ma una volta che la folla si scatena, non c’è forza che possa trattenerla. E chi pensa di domare la massa, finisce per restarne travolto.
Vorrei che si ritornasse alla ragionevolezza, se mai ce n’è stata. Che si parlasse di persone, individualmente responsabili delle proprie azioni, e non di rumeni, musulmani, rom. Una ragazza accusata di rapimento va processata e condannata secondo la legge, ed è lei sola responsabile di ciò che ha commesso. Perché siamo persone, prima che comunità, ed è con la nostra coscienza di individui che dobbiamo fare i conti.
E invece torniamo a scene di altri tempi, che ci eravamo illusi di aver relegato negli scantinati della storia: il linciaggio, la rappresaglia mera e semplice.
Ma sembra che il treno sia partito, e nessuno abbia intenzione di fermarne la corsa.
A chi invece vuole conoscere, capire chi è altro da noi, non posso che dare un consiglio da lettrice: Zoli, Storia di una Zingara, di McCann, un primo passo verso la comprensione di un mondo sconosciuto.

Ascolta

Giovedì
Sto preparando un intervento per un convegno a Tor Vergata. Al di là della solita ansia che si tira dietro un compito del genere, tutto sommato la cosa si sta rivelando ancora più utile del previsto. Perché rifletto. Su quel che faccio, sui libri, sulla scrittura. È come aver aperto una valvola, ed escono fuori tutte quelle cose che per pudore finora non dicevo.
Per esempio questa storia dell’imbroglio.
L’ho detta la prima volta durante un’intervista a Repubblica. È piaciuta a me, è piaciuta ad alcuni miei lettori. E allora ho iniziato a pensarci.
Lo scrittore è per antonomasia un imbroglione. Ti racconta delle storie spacciandotele per vere, ma sono il semplice frutto della sua fantasia. Ti parla di una cosa, ma in realtà te ne sta dicendo un’altra.
Lo scrittore fantasy è un duplice mentitore. Non solo mente come tutti gli scrittori, ma ti vende fischi per fiaschi.
Ti promette mondi altri, racconti mitici pieni di eroi, con grandi compiti da portare a termine, epiche battaglie tra bene e male e lieti fine a profusione. Ti dice che per un paio d’ore ti porterà altrove, che potrai dimenticarti del tuo mondo e delle tue preoccupazioni. In fin dei conti, non è così che il pubblico non esperto percepisce il genere? Come una fuga dal reale?
Il lettore inizia a leggere con le migliori intenzioni. A quel punto, è già perduto. È finito preda dell’inganno.
Perché se si va appena a grattare sotto la superficie, sotto l’ambientazione fantastica, i draghi e tutto il corollario, si ritrova il proprio mondo. Il cammino esistenziale che conduce ogni essere umano, più volte nella propria esistenza, ad una nuova consapevolezza. Il richiamo a temi più profondi, “alti” per certi versi: chi sono? Qual è il mio posto nel mondo? E il mio destino?
Ma si può andare anche oltre. Ci puoi persino trovare la realtà politica e sociale, in un libro fantasy. Ci puoi trovare la critica a certe forme di discriminazione; io una cosa del genere l’ho trovata ne L’Ultimo Elfo di Silvana de Mari. Ci puoi trovare l’esatta descrizione della meschinità di un potere che si nutre di se stesso (La Trilogia di Bartimeus di Jonathan Stroud). Ci puoi trovare, sempre che sia riuscita nel mio intento, lo spunto a interrogarti un po’ sul problema dello smaltimento dei rifiuti tossici (il mio I Dannati di Malva).
Mi piace questa storia dell’imbroglio. Anche perché penso che tutto sommato anche il lettore è consapevole dell’inganno. Tutti leggiamo perché cerchiamo qualcosa. Magari non lo sappiamo. La bravura dello scrittore probabilmente sta in questo: svelare il lettore a se stesso, portarlo là dove non sapeva di voler andare, e mostrargli ciò che desiderava.
Anticipiamo i desideri, forse li creiamo. E, se siamo bravi, le nostre menzogne restituiscono i lettori a se stessi.

Ascolta

Venerdì
A volte penso al modo in cui vorrei essere percepita all’esterno. Insomma, a come presentarmi alla gente, a quel che vorrei si dicesse di me quando non ci sarò più. Ammesso che se ne parlerà ancora, ovviamente.
E la risposta è che vorrei essere un menestrello. Di quelli medievali. Col liuto, che magari invece è la mia chitarra su cui fatico per mezz’ora di esercizi al giorno, e una corte di marmocchi che mi ascolta.
Gli scrittori fantasy si dividono in due gruppi: i creatori di mondi e i narratori. I primi amano inventare universi; buona parte del loro lavoro consiste nel creare razze, disegnare cartine, inventare lingue. I secondi ovviamente fanno tutte queste cose, ma come un preludio necessario e forse anche un po’ noioso alla parte davvero divertente: raccontare.
Io racconto. A me stessa prima che agli altri. Quando scrivo lo faccio di getto, fregandomene persino delle ripetizioni e degli errori. Perché nella mia testa, nella mia pancia, la storia di sviluppa ad un ritmo vertiginoso, e perché le cose funzionino le mie dita devono seguire quella corsa. Io vivo le mie storie.
Sembrerà un paradosso, ma questa cosa dello scrittore che racconta storie è molto sottovalutata. Se guardo a molti libri mainstream, ho l’impressione che raccontare sia del tutto secondario rispetto allo scrivere. Sembra che la forma conti molto più del contenuto.
E invece io credo che lo scrittore dovrebbe tornare alle proprie origini, al mero atto del narrare per il piacere di farlo. Perché tutto il resto viene di conseguenza.
Il senso, il significato di quel scrivi, il messaggio, per usare un termine abusato e anche un po’ moralistico, per un narratore prorompono dalla storia. È il racconto che veicola i significati. E allora lo stile, la scrittura, sono meri strumenti. Strumenti altissimi, importantissimi, ma pur sempre al servizio del racconto. È la storia a stare al centro.
Leggere è un’attività di svago. Leggere è divertirsi, io questo lo credo fermamente. Anche quando si legge qualcosa di tragico, di profondo, di complesso, ci si diverte. Perché ci si appassiona, ci si emoziona.
Ecco, ho l’impressione che il divertimento nella lettura e nella scrittura sia una cosa sottovalutata. Sarà per questo che si legge così poco? Perché noi che leggiamo non affermiamo con troppa convinzione che leggere è in primis divertirsi? Un divertimento non basso, triviale. Uno svago che ci arricchisce, ci accresce, ci fa vivere più pienamente.
Ecco. E raccontare è divertire.
A volte penso che noi scrittori di genere siamo gli ultimi menestrelli rimasti da queste parti. Noi vogliamo ancora far tremare di paura i nostri lettori, o tenerli sospesi sul filo della narrazione. Perché ci ricordiamo che quei sentimenti sono catartici, perché sappiamo che ciò che si apprende col divertimento resta più in profondità.
E allora anche stasera prenderò il mio liuto e intonerò qualcosa per me e i miei lettori.

Ascolta

Fahrenheit

I commenti sono chiusi.