Io lavoro con le parole. Nel mio mestiere non esistono sinonimi e ogni parola ha una specifica funzione, e viene recepita in un certo modo. Se vuoi ottenere un determinato effetto, devi essere preciso. Per questa ragione mi azzardo a parlare di un argomento che potrebbe sembrare piuttosto lontano da me. Sto parlando della comunicazione che è stata fatta e si sta continuando a fare sulla COVID-19, da quando questa storia è partita, all’arrivo del primo – primi due, in realtà… – focolaio in Italia. E lo farò da semplice fruitrice di questa comunicazione, un fruitrice, per altro, con una netta tendenza all’ansia.
Il punto è che tutta questa storia mi pare un caso lampante di comunicazione scientifica non solo fatta veramente a caso, in cui ognuno si è sentito in diritto di poter dire al riguardo un po’ quel che voleva, ma anche portata avanti malissimo.
Si è cominciato con un tempo infinitamente lungo per dare un nome a questa cosa, e non è una questione da poco. Un nome già da solo diminuisce l’ansia, perché contrasta un po’ quel senso d’ignoto. Un nome messo male, poi, può dare informazioni errate sull’oggetto. Ormai tutti si sono attestati su “coronavirus”, che scientificamente non vuol dire pressoché niente, visto che esistono sette diversi ceppi di coronavirus conosciuti che infettano l’uomo, e ognuno provoca una malattia diversa. Meglio comunque di “coronavirus cinese” o “di Wuhan”, che ha portato a tutte le storie di discriminazione ben note. E che per altro non sono cessate neppure ora che siamo il terzo paese al mondo per numero di contagiati. L’OMS ha dato un nome, COVID-19, che non usa nessuno, perché è arrivato troppo tardi e poi, voglio dire, ma che impatto può avere un’asettica sigla rispetto a un nome chiaro come coronavirus?
Dopo di che, abbiamo assistito – e in alcuni casi assistiamo ancora – al carosello degli esperti, ognuno dei quali ha uno stile comunicativo diverso, e spesso dice direttamente cose in contrasto con gli altri. È come un’influenza. No, ha la stessa mortalità della Spagnola. Siamo nei guai. No, è tutto sotto controllo, il rischio in Italia è zero. Qualcuno ha anche iniziato a litigare online sui numeri e la loro interpretazione.
Infine, sono entrati in campo i media generalisti, ed è iniziato tutto un fiorire di “in preda al morbo”, “gli untori”, “l’apocalisse”.
A fronte dell’isteria di massa – per la quale, per altro, non mi sento di incolpare soltanto la gente, visto il livello medio dell’informazione ricevuta – qualcuno ha iniziato a fare marcia indietro. Troppo tardi, ovviamente.
Ora, non siamo né la Cina né l’Iran, siamo un paese libero, e quindi ognuno ha ovviamente il diritto di esprimersi in tutte le forme che vuole. Ma resta il fatto che, se si è figure pubbliche, dotate magari anche di un largo seguito, oppure di mestiere si fa proprio il comunicatore – divulgatore o giornalista che sia -, quando ci si esprime su temi così delicati ci vorrebbero molte cautele. Appunto, cogliere il significato delle parole.
Ieri facevo notare in un post Facebook che in un’intervista (quindi spero ancora che le sue parole siano state riportate male dal giornalista) un esperto paventava “l’apocalisse” circa la futura evoluzione dei focolai italiani, e parlava dei malati asintomatici come “untori”. Queste non sono parole neutre. L’apocalisse è la fine del mondo, non è altro per un occidentale, ed evoca scenari à la Io Sono Leggenda, citatissimo infatti in questo periodo. Per una persona qualsiasi, l’apocalisse in riferimento a un’epidemia è il collasso della società, i morti in strada e i lazzaretti. Idem per untore: Manzoni ci insegna che gli untori volontariamente andavano, secondo la vulgata popolare, a spargere il morbo in giro. Non c’è un altro significato al di là di questo, ed è un significato che tutti conosciamo molto bene, perché I Promessi Sposi li leggiamo a scuola. Quindi, l’articolo paventa che quegli stronzi che hanno il virus e non lo sanno – per inciso, non lo possono sapere, perché non hanno sintomi e non esistono test commerciali per il SARS-CoV-2 – vanno in giro volontariamente e causare il collasso della società per come la conosciamo. Moriremo tutti. E parlare così a gente già spaventata di suo significa fomentare il panico. Magari involontariamente, ma è quel che stai facendo.
Non parliamo poi di chi, proditoriamente o semplicemente perché non si è posto la domanda di che cosa un pubblico generalista sappia o meno di virologia, ha usato termini specifici senza spiegarli o ha fatto confronti arditi, magari pure a fin di bene. Lo sapevate per esempio che mortalità e letalità sono due cose diverse? Io no, me l’ha spiegato Il Post, non prima che sentissi numeri che si riferivano all’una o all’altra senza citarle e senza spiegazioni di sorta. Anche i confronti col colera, l’ebola e la spagnola andrebbero contestualizzati, e, ancora, spiegati.
Ma tanti in fondo ai loro articoli hanno scritto “niente panico”, come fosse una specie di parola magica. Mi riempi un articolo o un video di messaggi allarmanti, poi però mi dici che non mi devo far prendere dal panico, e tutto torna a posto. Ma non è così che funziona. È la tua comunicazione che deve essere rassicurante – se c’è da rassicurare, ovviamente – perché è quello che induce alla calma, non la frasetta finale messa lì tanto per. Non fai stare meglio uno con un attacco di panico dicendogli “sì, ma stai calmo, che sennò è peggio”.
Direi che da tutto questo casino, comunque, possono emergere una serie di osservazioni. La prima è che esperto non vuol dire buon comunicatore. Essere il miglior scienziato del mondo non implica la capacità di trasmettere il proprio sapere a un pubblico di non esperti. Uno scienziato, di norma, è addestrato a parlare ai suoi pari: se dice mortalità, tutti sanno di cosa sta parlando, inoltre non deve spiegare il proprio lavoro, ma illustrarlo a gente che conosce perfettamente il contesto. Non funziona così quando parli a persone che non sono del tuo ramo; esiste un linguaggio della divulgazione, che è profondamente diverso da quello della scienza, perché ha obiettivi completamente diversi. Chi questo linguaggio non lo conosce, o si tace – non è che tutti dobbiamo fare i divulgatori… – o lo apprende, oppure si affida ai professionisti. Si tratta di figure che fanno da intermediari tra l’esperto e il pubblico, in sostanza i divulgatori e i giornalisti. Io però ho visto esperti con capacità di comunicazione del rischio pari a zero spaccato entrare a gamba tesa nel dibattito pubblico nel mondo più violento e urlato possibile. Comunque, parliamo di divulgatori e giornalisti. Per quel che riguarda i primi, si sono mobilitati, e spesso con esiti ottimi. Una buona comunicazione scientifica dovrebbe essere neutra, attenersi ai fatti, dire ciò che si sa e ammettere con grande onestà quel che non si sa. In caso vengano espresse opinioni, deve essere ben chiaro che siamo nell’ambito delle speculazioni, magari pure esperte, per carità, e non dei fatti. E c’è un sacco di gente che l’ha fatto e continua a farlo egregiamente. In quelli che seguo io, francamente, non ho trovato sbavature. Peccato che spesso si tratti di persone che non hanno un seguito proprio grandissimo, soprattutto fuori dai social. Per quel che riguarda i secondi, che dire; certo, ci sono luminosissime eccezioni – tipo Il Post, tipo Avvenire – ma è pure pieno di gente che se ne è fregata alla grandissima, e ha spinto sul pedale dell’allarmismo, perché la paura è la moneta più spesa dai media da almeno venti anni a questa parte. Terrorismo, malattie, e poi giù a scendere cani assassini, giochi mortali in rete…una gara a chi terrorizza di più, perché è ovvio che una persona spaventata cerca più informazioni, che finiscono per spaventarlo sempre di più, in una spirale in cui a guadagnarci sono quelli che l’informazione la vendono. Anche qua, correre ai ripari ora, quando la gente ha già iniziato a picchiarsi per strada, a saccheggiare i supermercati e a chiedere tamponi orali a caso ai sani, per di più residenti in posti dove il contagiato più vicino sta a 600 km, a che serve?
Seconda questione. Il dibattito, anche fuori dalla rete, si è ormai polarizzato. Lo spazio per chi ha opinioni intermedie sostanzialmente non esiste: o ci sono quelli che la COVID-19 è il raffreddore, o quelli che moriremo tutti male. E siamo tutti ormai prigionieri di questo frame di estremizzazione del dibattito pubblico, anche quelli che in altre occasioni hanno lottato per il Lato Chiaro, diciamo così. Nessuno che voglia accettare che il problema è il frame: che non è possibile fare della buona, onesta, utile comunicazione usando le armi del sensazionalismo e dell’estremizzazione del dibattito. Mi è capitato di parlarne in riferimento ad altre questioni: per esempio, durante gli incendi in Australia, girava tantissimo una foto finta, una mappa con su dei punti rossi che indicavano tutti gli incendi dall’inizio del problema. Tanti la spacciavano per una foto da satellite, perché chi l’aveva fatta l’aveva costruita in maniera tale che fosse facilmente fraintendibile. Era una cosa a fin di bene, no? Era un’informazione errata, che indicava un problema reale, quindi che male c’era? C’era che si trattava comunque di un’immagine non rispondente alla realtà, e quindi, per esempio, era gioco facile per un negazionista del cambiamento climatico dire che si trattava di un falso. Non è così che si fa comunicazione.
Ancora: la scienza va spiegata, perché i suoi metodi, mi spiace tantissimo doverlo ammettere, non sono noti ai più. Vedere due esperti che litigano a colpi di tweet, per di più in un momento di crisi, è uno spettacolo che non spiega assolutamente niente di come funziona la scienza, ma che viene percepito come un “non sanno manco loro cosa sta succedendo”. Che magari è vero, e allora lo si ammette: “non conosciamo il reale tasso di letalità del virus, ci vogliono più dati”, “non sappiamo come evolverà, perché è troppo presto”. Sì, il dibattito è il sale della scienza: la discussione per il declassamento di Plutone a pianeta nano, nel 2006, fu particolarmente accesa, ma avvenne a porte chiuse, davanti a un pubblico che sapeva contestualizzarlo. La gente non sa come funziona la scienza: oscilla tra il considerarla quella roba lì che ha sempre una risposta per tutto o al contrario una cosa in cui nessuno sa mai darti una risposta chiara e la verità non esiste. Per questo, un dibattito del genere è incomprensibile, e non fa altro che spaccare il pubblico in due, tra chi tifa per uno e chi tifa per l’altro, in generale basandosi sul gusto personale o sul principio di autorità.
Infine: tanto cose non sono state spiegate da subito e con chiarezza. Esempio: le quarantene. Ci sono voluti due giorni prima che qualcuno iniziasse a spiegare perché adesso è ragionevole chiudere i focolai, ma intanto la quarantena era già in atto, e nessuno capiva bene perché. Da un lato rassicurazioni che il virus è poco pericoloso, dall’altro 50 000 persone chiuse in casa. Come si mettono assieme queste due cose? Nessuno lo dice. Perché, ancora, si è dato per scontato che fosse un dato noto a tutti: ma no, non lo sappiamo che le epidemie sono pericolose non tanto per il singolo, ma per la collettività e per i soggetti più fragili in essa. E, anche se lo sapessimo, sarebbe meglio ripeterlo comunque, in un paese come l’Italia che ha un senso civico e della collettività bassissimo, e in cui ognuno, se può, va per sé.
Possiamo imparare qualcosa? Potremmo imparare tantissimo, ma secondo me questa cosa per ora sta facendo solo danni. Danni immediati, visto che la gente è nel panico, e domani, ne sono certa, passerà all’estremo opposto, quando non vedrà arrivare l’apocalisse: non capirà il perché delle quarantene e tutto il resto e se ne andrà in giro a starnutire sulle maniglie degli autobus e al lavoro con 39 di febbre. Danni a lungo termine, perché è l’ennesima picconata alla fiducia del pubblico nella scienza. Si pensa sempre che divulgare sia una roba tutto sommato inutile, e invece in certi casi non solo non si può fare a meno di farlo, ma il modo in cui lo fai letteralmente può salvare la vita alle persone. Spero che questa storia serva da lezione, ma francamente ne dubito. L’occidente si è messo su una parabola discendente per reagire alla quale forse ci manca tanto la forza che la volontà. Ma magari qualcun altro prenderà il testimone; una società migliore è ancora possibile, di questo sono piuttosto certa.