L’11 settembre 2001 stavo preparando l’esame di analisi II. Ero all’università con Giuliano quando mi arrivò la telefonata di mia madre. Mio padre era all’estero, e per questo la prima cosa che pensai quando insieme agli altri mi misi davanti alla tv, nel laboratorio di fisica I, fu al suo ritorno con l’aereo il giorno dopo. La seconda fu che non avrei mai più volato in vita mia, per tutto l’oro del mondo. Sono fatta così: ho sempre difficoltà a inquadrare le brutte notizie, quelle storiche o quelle semplicemente scioccanti. Il mio primo pensiero è sempre stupido, fuori luogo.
Il mondo è cambiato quel giorno? Dopo dieci anni non so dirlo. Di sicuro è cambiata la percezione che ne abbiamo. Noi degli anni ’80 la Guerra Fredda l’abbiamo vista di striscio, e la nostra massima preoccupazione poteva essere l’effetto serra, o il buco dell’ozono. Quel giorno imparammo una nuova paura, e vedemmo in faccia per la prima volta il Nemico. E per dieci anni quella faccia ha coinciso coi lineamenti pacati di Osama bin Laden. Per dieci anni il suo volto ha significato terrore, il suo non mostrarsi praticamente mai, il suo spedire di tanto in tanto lunghissimi nastri audio in cui pontificava su tutto – l’Occidente malvagio, certo, ma alla fine anche il protocollo di Kyoto, l’inquinamento, persino gli auguri per la fine del Ramadan – alimentava paura e speranze. Non era più neanche davvero un uomo: era un simbolo, una personificazione. Ce lo immaginavamo immortale, imprendibile, qualche volta già morto.
Stamattina, durante la colazione, Giuliano mi mostra incredulo la prima pagina de La Repubblica. È davvero difficile far coincidere l’idea di bin Laden con quel volto che tutti i giornali si ostinano senza pudore a sbattere in prima pagina, come se per tutti fosse piacevole guardare la faccia di un morto. La sua cattura, la sua uccisione, non sono mai state delle opzioni reali, per noi che guardavamo la tv dalla scuola, dall’università, quel giorno di settembre. Perché bin Laden non ci è mai stato presentato come un uomo: è sempre stato un’idea. Per noi Occidentali, certo, ma anche per tutti coloro che hanno visto in lui una speranza, che l’hanno seguito, sostenuto, persino amato. E anche adesso che sembra morto, e che quell’immagine tremenda dovrebbe riportarcelo alla sua semplice dimensione di uomo, sarà e resterà sempre solo un simbolo: del male, del bene, del terrorismo, della resistenza.
Quel che mi colpisce di più, però, è altro. La mia prima reazione, innanzitutto: ero contenta. Un soldato americano aveva sparato in testa ad uno, uno che indubbiamente ha compiuto efferati delitti, non voglio certo negarlo, ma il gesto in sé resta: un uomo ha sparato ad un altro uomo. E io sono stata contenta. Per una frazione di secondo. E gioire per la morte di qualcuno, persino di qualcuno che ha causato la morte di migliaia di altre persone, non è mai un buon segno.
Ma non ero sola. E questa è la seconda cosa che mi colpisce.
Il florilegio delle reazioni alla sua uccisione è stato piuttosto monotematico: Obama dice che “giustizia è stata fatta”, per il ministro degli esteri è “una vittoria della democrazia”, per Frattini è “la vittoria del bene contro il male”.
Riflettiamo un attimo. È stata eseguita una condanna a morte senza processo. Un soldato ha sparato, un uomo è morto. Dov’è la democrazia? E la giustizia? Piuttosto è stata una sconfitta della democrazia, che non ha saputo opporre al terrorismo altre armi che non fossero quelle dei terroristi stessi: bombe ed esecuzioni sommarie. È così che si combatte il fondamentalismo? Radicalizzandoci anche noi?
È stato un regolamento di conti, diciamoci la verità. Umanamente comprensibile, ma non accettabile né dal punto di vista del diritto né della democrazia. La democrazia, semplicemente, non agisce così. Eppure oggi siamo contenti, un po’ tutti. Questo ci dice molto sulla nostra natura, su quel che siamo davvero, una volta spogliati dai condizionamenti sociali. In fin dei conti non aspettiamo altro: essere liberi di dare sfogo ai nostri desideri più oscuri, non appena l’etica abbassa la guardia.
Infine, diceva V di Alan Moore “le idee sono a prova di proiettile”. Bin Laden era solo uno, e non veniva dal nulla. Aveva dietro della gente che lo seguiva, che lo ammirava, che ne condivideva le idee. E quell’idea non è morta. È viva nella nostra gioia oggi e nel dolore di chi ora lo piange, è viva nei comunicati ufficiali dei capi di stato e nei post che si rincorrono sui siti del fondamentalismo.
Per cui siamo al punto di partenza. È cambiato il mondo, oggi? Nell’apparenza, forse, ma non nell’essenza, che non cambia da migliaia di anni.