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Il mio 11 settembre 2001

Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con l’11 Settembre. Ho scorso il blog, e mi sono accorta che rare volte l’ho commemorato, e che anzi in un paio di casi preferii parlare del colpo di stato di Pinochet in Cile. Probabilmente è per colpa di tutto quello che venne dopo: la guerra in Afghanistan, quella in Iraq, la dottrina della lotta del Bene contro il Male, l’odio per l’islam…Mi sembrava che commemorare quelle vittime significasse avallare poi tutto quel che successe dopo. Per la stessa ragione, ebbi un brevissimo periodo di interesse per le tesi complottistiche. Mi tenne coi piedi per terra Giuliano: ci informammo un po’ insieme in rete e la cosa finì lì.
Adesso sono passati dieci anni, e forse ci ho fatto finalmente i conti. La paura di quei giorni è sedimentata, e, per qualche ragione, ho l’impressione che tutto il male che si è tirato dietro quella data che ha cambiato il mondo si stia pian piano affievolendo. Un po’ di tempo fa, dalla parrucchiera leggevo Vanity Fair; si parlava dell’attentato di Utoya, e qualcuno proponeva che Breivik abbia chiuso l’era del post-11 settembre. I morti norvegesi spiegano i morti americani e viceversa. È un’interpretazione che mi è piaciuta, e alla quale vorrei poter credere. Del resto, ho già avuto modo di dire che secondo me Breivik è il frutto avvelenato della retorica di quei giorni, dei semi d’odio che furono irresponsabilmente gettati, e che hanno germogliato fruttuosi per dieci anni. Mi piacerebbe poter credere che la follia di quel giorno di luglio ci faccia chiudere i conti con quell’enorme regressione dello spirito che sono stati questi dieci anni, anni nei quali una retorica che speravamo di aver mandato in soffitta era ritornata in auge, anni nei quali il razzismo è stato giustificato e in cui si è tornato a parlare di guerre giuste.
Comunque, solo il tempo ci dirà se è finita davvero, se siamo riusciti a tratte un insegnamento da tutto quello che è successo, se siamo migliori, o ripeteremo in eterno sempre gli stessi errori.
Io, per parte mia, credo di averci finalmente fatto i conti. E per questo, posso raccontarvi come fu.

Era all’università con Giuliano, stavamo preparando l’esame di analisi II. Mio padre era per lavoro a Bruxelles. Mi telefonò mia madre verso le due del pomeriggio, dicendomi che c’era stato un attentato, avevano fatto schiantare due aerei contro le Twin Towers, a New York, e contro il Pentagono. Mi disse “ho i brividi”. Io lì per lì non capii. Non so, non mi sembrava una cosa grave, non ne capivo la portata. Era un periodo in cui il mio mondo iniziava e finiva in Giuliano e l’università. Dopo un po’ sentimmo la gente nei corridoi che si agitava. Andammo tutti nel laboratorio di Fisica, dove c’era un televisore. E vidi. Come tutti, stentai a credere che fosse vero. Aveva la stessa consistenza dei sogni, lo stesso aspetto dei film di Hollywood. E il mio primo pensiero fu per mio padre, che il giorno dopo sarebbe dovuto tornare da Bruxelles.
Mi ci volle qualche giorno per capire, e qualche mese per accettare: che davvero le cose erano cambiate, che davvero non eravamo, né saremmo mai più stati, gli stessi.

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C’eravamo tutti

anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.


Io non c’ero. Ma non è una scusa valida. C’eravamo tutti, perché quel luglio del 2001 ha tracciato nuovi confini, ha riportato indietro le lancette dell’orologio, e ci ha mostrato che l’impensabile può accadere, quando in molti, troppi, si girano dall’altra parte.
Dieci anni fa mia nonna materna era ancora viva, e quel luglio ero a casa sua. Seguivo la manifestazione alla tv, perché lì internet non c’era. E se all’inizio ero lieta, fiduciosa, solidale, lentamente mi incupii, mi rattristai, e infine capii che qualcosa stava cambiando per sempre, quando seppi che Carlo Giuliani era morto.
Erano giorni di dieci anni fa, e adesso, a distanza di tutto questo tempo, io non lo so se abbiamo capito la lezione, se davvero siamo più consapevoli di allora, se abbiamo capito davvero il senso di ciò che è successo in piazza, e poi soprattutto alla Diaz.
La democrazia è cosa fragile, e basta poco, basta girare lo sguardo dall’altra parte, e si precipita nella sospensione di ogni diritto, nel semplice e vigliacco abuso del più forte del più debole. Perché un poliziotto che manganella un ragazzo straniero che dorme in una scuola è un vigliacco, non lo so si può definire altrimenti.
Che quei giorni di luglio siano ben altro che acqua passata lo si evince dal fatto che molti degli imputati per i fatti della Diaz sono stati promossi, e che su tutti gli imputati, pur condannati in secondo grado, pende il rischio di prescrizione. In Italia, ricordiamolo, non esiste il reato di tortura, come se qui non fosse possibile, come se qui non fosse successo già.
Qualcosa per non dimenticare.
Alcune testimonianza sui fatti della Diaz e di Bolzaneto
Quella Notte alla Diaz, di Christian Mirra
Piazza Alimonda, di Francesco Guccini
Genova Brucia, di Simone Cristicchi

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Carne e idee

L’11 settembre 2001 stavo preparando l’esame di analisi II. Ero all’università con Giuliano quando mi arrivò la telefonata di mia madre. Mio padre era all’estero, e per questo la prima cosa che pensai quando insieme agli altri mi misi davanti alla tv, nel laboratorio di fisica I, fu al suo ritorno con l’aereo il giorno dopo. La seconda fu che non avrei mai più volato in vita mia, per tutto l’oro del mondo. Sono fatta così: ho sempre difficoltà a inquadrare le brutte notizie, quelle storiche o quelle semplicemente scioccanti. Il mio primo pensiero è sempre stupido, fuori luogo.
Il mondo è cambiato quel giorno? Dopo dieci anni non so dirlo. Di sicuro è cambiata la percezione che ne abbiamo. Noi degli anni ’80 la Guerra Fredda l’abbiamo vista di striscio, e la nostra massima preoccupazione poteva essere l’effetto serra, o il buco dell’ozono. Quel giorno imparammo una nuova paura, e vedemmo in faccia per la prima volta il Nemico. E per dieci anni quella faccia ha coinciso coi lineamenti pacati di Osama bin Laden. Per dieci anni il suo volto ha significato terrore, il suo non mostrarsi praticamente mai, il suo spedire di tanto in tanto lunghissimi nastri audio in cui pontificava su tutto – l’Occidente malvagio, certo, ma alla fine anche il protocollo di Kyoto, l’inquinamento, persino gli auguri per la fine del Ramadan – alimentava paura e speranze. Non era più neanche davvero un uomo: era un simbolo, una personificazione. Ce lo immaginavamo immortale, imprendibile, qualche volta già morto.
Stamattina, durante la colazione, Giuliano mi mostra incredulo la prima pagina de La Repubblica. È davvero difficile far coincidere l’idea di bin Laden con quel volto che tutti i giornali si ostinano senza pudore a sbattere in prima pagina, come se per tutti fosse piacevole guardare la faccia di un morto. La sua cattura, la sua uccisione, non sono mai state delle opzioni reali, per noi che guardavamo la tv dalla scuola, dall’università, quel giorno di settembre. Perché bin Laden non ci è mai stato presentato come un uomo: è sempre stato un’idea. Per noi Occidentali, certo, ma anche per tutti coloro che hanno visto in lui una speranza, che l’hanno seguito, sostenuto, persino amato. E anche adesso che sembra morto, e che quell’immagine tremenda dovrebbe riportarcelo alla sua semplice dimensione di uomo, sarà e resterà sempre solo un simbolo: del male, del bene, del terrorismo, della resistenza.
Quel che mi colpisce di più, però, è altro. La mia prima reazione, innanzitutto: ero contenta. Un soldato americano aveva sparato in testa ad uno, uno che indubbiamente ha compiuto efferati delitti, non voglio certo negarlo, ma il gesto in sé resta: un uomo ha sparato ad un altro uomo. E io sono stata contenta. Per una frazione di secondo. E gioire per la morte di qualcuno, persino di qualcuno che ha causato la morte di migliaia di altre persone, non è mai un buon segno.
Ma non ero sola. E questa è la seconda cosa che mi colpisce.
Il florilegio delle reazioni alla sua uccisione è stato piuttosto monotematico: Obama dice che “giustizia è stata fatta”, per il ministro degli esteri è “una vittoria della democrazia”, per Frattini è “la vittoria del bene contro il male”.
Riflettiamo un attimo. È stata eseguita una condanna a morte senza processo. Un soldato ha sparato, un uomo è morto. Dov’è la democrazia? E la giustizia? Piuttosto è stata una sconfitta della democrazia, che non ha saputo opporre al terrorismo altre armi che non fossero quelle dei terroristi stessi: bombe ed esecuzioni sommarie. È così che si combatte il fondamentalismo? Radicalizzandoci anche noi?
È stato un regolamento di conti, diciamoci la verità. Umanamente comprensibile, ma non accettabile né dal punto di vista del diritto né della democrazia. La democrazia, semplicemente, non agisce così. Eppure oggi siamo contenti, un po’ tutti. Questo ci dice molto sulla nostra natura, su quel che siamo davvero, una volta spogliati dai condizionamenti sociali. In fin dei conti non aspettiamo altro: essere liberi di dare sfogo ai nostri desideri più oscuri, non appena l’etica abbassa la guardia.
Infine, diceva V di Alan Moore “le idee sono a prova di proiettile”. Bin Laden era solo uno, e non veniva dal nulla. Aveva dietro della gente che lo seguiva, che lo ammirava, che ne condivideva le idee. E quell’idea non è morta. È viva nella nostra gioia oggi e nel dolore di chi ora lo piange, è viva nei comunicati ufficiali dei capi di stato e nei post che si rincorrono sui siti del fondamentalismo.
Per cui siamo al punto di partenza. È cambiato il mondo, oggi? Nell’apparenza, forse, ma non nell’essenza, che non cambia da migliaia di anni.

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Auguri, italiani

Il blog è ancora incasinato, e i commenti, come vedete, ancora non sono possibili. Cercherò di provvedere al più presto. Intanto, questo post voglio pubblicarlo ugualmente.
Oggi l’Italia festeggia i suoi 150 anni come entità unita. Io non ho mai avuto un gran senso della patria, e spesso stento a riconoscermi nei miei concittadini. Ma ho sempre avuto il senso dello Stato, e c’è una cosa in cui mi riconosco pienamente, che è fondante della nostra identità di italiani, e di cui sono profondamente orgogliosa: la Costituzione.
La Costituzione ha 63 anni, meno della metà di questa Italia, ma credo che che quel siamo oggi nasca da lì. È la Costituzione che spiega cosa vuol dire essere italiani, che stabilisce perché siamo una nazione, e non un insieme di singole realtà locali slegate. Spiega come le nostre differenze siano una ricchezza, e che al di là di esse abbiamo una storia comune, che data molto più di 150 anni. Eravamo italiani prima ancora di essere uniti, e lo saremo sempre.
Per questo, io direi che oggi per festeggiare si può fare una bella cosa: leggere la Costituzione. E riflettere. Sulla sua intrinseca bellezza e profondità, su quanto ci abbia regalato, su quanto dica di noi come popolo. Ma anche su quanto sia stata disattesa, su quanto resta ancora da fare. Auguri, italiani.

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Non fiori, ma opere di bene

E arriva anche quest’anno il famigerato 8 marzo. Vi risparmio il consueto post polemico; ho già detto tutto quel che può essere detto sull’argomento gli anni passati. Mi limito a rimarcare che quest’anno la ricorrenza mi sembra ancora più significativa: perché c’è stato il 13 febbraio, perché mi sembra di veder nascere una nuova consapevolezza, un’ondata generale di riflessione sul femminile e il suo ruolo in Italia e nel mondo. Che questa giornata serva allora a fare il punto sulla situazione, dove siamo e dove stiamo andando. Ognuno faccia fiorire questa giornata come meglio crede: lavorando o manifestando, ritagliandosi un attimo per se stessa, facendo un post o continuando con la vita di sempre, perché è attraverso la lotta quotidiana che esprime se stessa, la propria femminilità e la propria irriducibile unicità di persona. Qui trovate un elenco di iniziative.
Auguri a tutte: che quest’anno ci porti più consapevolezza e più libertà. Sono molteplici le gabbie che ci stringono, molte subdole e invisibili, ma la possibilità di evadere e realizzarci esistono sempre.

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13 dicembre 2009

Un anno fa era domenica. Ci eravamo svegliati da poco, e avevamo già iniziato a fare progetti per la giornata. La telefonata però arrivò che eravamo ancora a letto. Pensavo fosse mia madre che mi chiedeva qualcosa, e invece era l’ospedale.
“Le va bene se la ricoveriamo oggi?”.
Il cuore fece una capriola.
“Certo”.
“Allora venga in Pronto Soccorso oggi alle 15.00″.
Sebbene fossi stanca del diabete e della gravidanza, sebbene non vedessi l’ora di partorire, ricordo che quella telefonata mi gettò nel panico. Non c’era più ritorno: di lì ad una settimana avrei partorito, e la prossima volta che avrei messo piede in casa mia, saremmo stati in tre.
Mi calmai comunque abbastanza rapidamente. Pranzai, mi preparai con calma. Ricordo com’ero vestita: il maglioncino grigio, i jeans pre-maman. L’ospedale era già addobbato a festa, e l’ansia cresceva mentre ero lì in attesa. Però ero contenta, davvero. Era finita, dopo l’ansia, la paura, i problemi, ero arrivata fino in fondo, e confesso che molte volte avevo temuto di non farcela.
La visita, le altre mamme in attesa, lo smistamento in reparto. Quando entrai nella mia stanza era già buio. Mi cambiai, e bastò mettermi camicia da notte e vestaglia per passare dall’altra parte della barricata. Ora ero dentro, e gli altri fuori. Ero entrata nel microcosmo dell’ospedale, ero in un limbo, in cui non mi sentivo più completamente in attesa, ma non ero neppure ancora una mamma. Aspettavo, senza sapere cosa sarebbe successo: non avevo idea se mi avrebbero indotto il parto, e in caso quando.
Mangiai la solita roba scotta e senza sapore della mia dieta assieme ai miei e a mio marito. Poi finì l’orario delle visite, e rimasi sola.
Ero convinta che mi sarebbe salito il magone, e mi sarei messa a piangere davanti alla mia compagna di stanza, una ragazza straniera al settimo mese, anche lei col diabete. Fino a quel momento avevo avuto solo brutte esperienze con gli ospedali. E invece tenni botta. Non mi sentivo sola. C’era Irene. Ed ero lì per vederla, finalmente.
Un po’ di scrittura, una puntata di Dexter vista con le cuffie nel buio della stanza, mentre la mia compagna dormiva, e poi spensi la luce anch’io, la fede al dito nel silenzio del reparto.
Cominciò così l’avventura, il 13 dicembre del 2009.

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Auguri!

Ieri ha compiuto sessant’anni Carlo Verdone. Io ero più presa dagli undici mesi di Irene, e non ho fatto un post. Lo faccio oggi. È che Verdone è una di quelle poche cose per cui sono contenta di essere romana. La romanità che ha sempre rappresentato è lontana dagli stereotipi, è varia e ricca, e sempre un po’ dolente. È una romanità in cui posso riconoscermi senza vergogna, che forse, al di là di tutto, anche condivido.
Verdone mi è sempre piaciuto un sacco. Continua a piacermi anche adesso, anche se apprezzo di più i suoi film più vecchi. A me è piaciuto tanto anche C’Era un Cinese in Coma, per quella disperazione di fondo, per l’assenza totale di indulgenza verso tutti i personaggi, che è difficile trovare nel cinema drammatico, figurarsi in quello comico. Ma quello che amo di più in assoluto è Compagni di Scuola; forse il meno smaccatamente divertente, ma il più coinvolgente, e forse anche il più tremendo: gli anni che passano, la crudeltà, la vita che colpisce basso. C’è veramente tutto.
A volte mi vedo in qualche intervista, e finisce invariabilmente che ad un certo punto, mentre parlo, alzo gli occhi al cielo. E lì rivedo Mimmo di Bianco Rosso e Verdone. Oppure mi ascolto alla radio, e non c’è niente da fare, parlo proprio come Ruggero di Un Sacco Bello.
Forse è così per tutti. I suoi personaggi sono così universali che ciascuno di noi può trovarci dentro qualcosa di suo: l’ipocondriaco, quello con le manie di controllo, l’introverso, lo sbruffone…
Mi fa strano sapere che ha compiuto sessant’anni. Mi accorgo che il tempo per me passa anche da queste piccole cose: a diciotto anni, in vacanza con un’amica, parlavamo dei suoi film sdraiate sul letto. Era l’anno di Gallo Cedrone, o giù di lì, l’unico suo film che davvero non mi è piaciuto poi tanto. E adesso sono passati dodici anni, tra una settimana avrò trent’anni, una figlia, un marito e una vita.
Auguri, Carlo, e grazie di tutto.

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Velocemente

Tra le cose che mi venivano ripetute più spesso quando avevo partorito da poco c’era: “Eh, goditi questo periodo perché i figli crescono in fretta”. Non che non ci credessi. Da quando ho compiuto diciotto anni la vita ha smesso di scorrere placida, lenta, con anni uno diverso dall’altro, estati lunghe come avventure interminabili e anni scolastici che si dipanavano lenti. Tutto ha iniziato a correre a rotta di collo, e questi dodici anni mi sono sembrati durare meno della metà dei diciotto precedenti.
Però, tutto sommato dentro di me mi dicevo: “Magari i vostri figli cresceranno in fretta, la mia avrà la decenza di metterci un sacco di tempo”. La cosa che ingannava è che i primi quattro mesi tutto sommato sono passati piano.
Poi ieri guardo iCal e vedo che è il 20 ottobre. Cappero. La figlia di una mia amica compie un anno. Me la ricordo, la sera che ci disse di essere incinta. Era febbraio 2009, fu l’ultima spallata che mi convinse a farlo per davvero, un figlio. Mi ricordo anche quella sera d’estate in cui lei era al quinto mese, io tipo al terzo e passammo tutto il viaggio in macchina a disquisire di liquido amniotico, feti ed ecografie.
Mi ricordo anche la bimba, la prima volta che la vidi, a casa mia, che non aveva neppure un mese ed era piccola piccola piccola. Adesso ha un anno.
Ok, è la figlia di un altro. Però Irene un anno lo farà tra meno di due mesi. Ha già smesso di essere neonata. Mangia le pappe, tenta i primi passi e dice “cia cia” al draghetto che fa da lampadario in camera sua. E io nel frattempo ho a malapena fatto in tempo a realizzare che sono diventata madre, e ancora mi fa male il buchino dell’epidurale dietro le schiena. Lei, intanto, è andata avanti, è diventata una donnina e io sto ancora a trafficare coi suoi biberon.
Poi un giorno forse qualcuno ce la spiegherà questa cosa. Perché la vita corre così tanto che si fatica a starle dietro. E dove corre, soprattutto, e cosa riusciremo mai a trattenere tra le dita.

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Memoria

Sto leggendo Acciaio, e ieri sera siamo arrivati al famigerato 11 settembre 2001. È il secondo libro che leggo nel quale in qualche modo questa data fa capolino nelle vite dei protagonisti – l’altro, per la cronaca, era Cento Colpi di Spazzola Prima di Andare a Dormire -. Trovo sempre che ci sia qualcosa di inafferrabile, non completamente verosimile, nelle reazioni che i personaggi hanno di fronte alle torri che crollano. Come se non si potesse davvero dire quel che abbiamo pensato, quel che abbiamo provato.
Ho cercato di andare con la memoria a quel giorno di nove anni fa, ho cercato di ricordare. E ho scoperto che è una pagina della mia vita – della nostra vita – della quale il mio cervello ha salvato poche sparute parole. Ricordo quando mi sono rotta la gamba a due anni, ricordo un sacco di cose dell’asilo, credo di ricordare vagamente l’epoca in cui ancora avevo il pannolino, ma ricordo pochissimo di quei giorni.
Ero all’università a preparare analisi 2. Mio padre era all’estero per lavoro e sarebbe dovuto tornare il giorno seguente. Ricordo la telefonata di mia madre, ricordo come eravamo tutti ammutoliti davanti al televisore, nel laboratorio di fisica 2, mentre guardavamo le torri fumare, e poi crollare. E ricordo che l’unico pensiero che avevo era: mio padre lo facciamo tornare in nave. Non esiste che domani prende un aereo. Non esiste che io, o qualsiasi persona cui voglio bene, prenda d’ora in avanti un aereo. Mai più nella vita.
Ecco. Non capivamo.
Tutti dicono che quelle immagini sembravano finte. Lo dissi anch’io. Sono andata a ripescare i diari di quei giorni, e ho trovato la pagina scarna scritta il 12 settembre 2001. “Sembra un film”. Eravamo tutti così. Incapaci di comprendere, di assimilare. Forse lo siamo ancora oggi.
Poi penso che Irene non c’era. Irene sarebbe venuta otto anni dopo. Dovrò raccontarle io come ci sentivamo, cosa pensammo. Per lei sarà come per me la Baia dei Porci: una cosa che mi racconta mia madre, lontana, difficile da capire o anche solo da immaginare. Ci saranno migliaia di foto, e video, e audio, certo. Tutte laccate, perfette, come immagini dall’ultimo film di Emmerich. Ma il senso forse continuerà a sfuggirci, e non potrà certo coglierlo lei, che non c’era, che non sapeva.
Non so perché mi viene da pensarci ora. Le commemorazioni si fanno il giorno in cui cade l’anniversario dell’evento, non tredici giorni dopo. Ma la maternità è una cosa potente, agisce sull’immaginario, ti porta a riconsiderare persino il tuo rapporto con la memoria. E i libri, certo, non sono da meno.

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Un terzo

Dieci anni fa faceva parecchio caldo. Era un bel maggio, la mia prima primavera da aspirante fisico. Avevamo già iniziato a stenderci al sole sui prati davanti a Tor Vergata, dopo le esercitazioni di laboratorio. Ricordo una discussione lunghissima su Dragon Ball, con la mia testa appoggiata sulla sua pancia. Speravo non finisse più, anche se avevo un’idea vaghissima di chi fosse questo cappero di Vegeta che tanto lo esaltava come personaggio.
Quel giorno di dieci anni fa, mio padre era via in Turchia, era una domenica, e si giocava l’ultima di campionato. Noi ce ne andammo a fare un giro per il centro, un’abitudine che abbiamo perso presto. Finimmo a Villa Borghese, in un posto letteralmente infestato dalle zanzare. Io avevo un vestito sbracciato di jeans che ho dato via solo qualche anno fa, e la scarpe da strega, come le chiamava lui, che a me piacevano tanto, e a lui facevano tutto sommato schifo. Per terra c’erano una specie di orrendi fiori giallicci caduti dagli alberi che si attaccavano alla pelle e ai tessuti. Non mi ricordo come finimmo a parlare delle mie gambe, e lui mi disse che avevo le ginocchia ossute. Ci abbiamo scherzato per anni su questa cosa. Verso le sei mio padre mi telefonò perché la notizia che la Lazio aveva vinto lo scudetto era arrivata fino ad Istanbul.
Ce ne tornammo a casa con la metro, e lui mi regalò una rosa. Ci guardavamo, io seduta e lui in piedi, e ci veniva da ridere. Non ci potevamo nemmeno baciare, perché sfiga voleva che lui si fosse beccato la mononucleosi. Poi, quando la notte era già calata e io ero a casa, quella vecchia, quella di borgata, lui mi chiamò e mi chiese: “Ma allora stiamo insieme?”.
Cavolo. Sono passati dieci anni. Ho passato un terzo della mia vita con Giuliano.

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