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Una settimana fa

Sono tornata al lavoro. In verità non mi sento poi tanto bene, ma le tesi hanno questo brutto difetto di non riuscire a sciversi da sole, per cui…
Visto lo scartamento ridotto, e considerato che tutte le energie rimaste le sto impegnando sulla benedetta tesi, oggi post fotografico. Qui sotto, un po’ di foto della Notte della Ricerca, venerdì scorso. Le foto sono state scattate sia all’ESRIN che all’Osservatorio. Quella scattata all’ESRIN, ossia la prima, è di Maria Rosaria D’Antonio, le altre le ha invece scattate Simone Mattana, un mio collega quando lavoravo in Osservatorio che è insieme a me nell’ultima foto. Grazie mille a tutti quelli che sono venuti, per me è stata proprio una bella serata. Spero vi siate divertiti anche voi :)

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Superman neutrino

Un giorno – ero ancora una studentessa di laurea – una mia collega venne da me e da Giuliano con una pagina di un noto quotidiano gratuito, di quelli che ti danno sotto la metro. Si parlava di una tempesta solare – niente più che un’eruzione di materiale sulla superficie del sole, che in genere ha come effetto un aumentato flusso di particelle verso la terra – e c’era scritto che le particelle emesse viaggiavano a 300 000 milioni di km/s. Ci facemmo una grassa risata sull’ignoranza del giornalista, che o non sapeva che la luce nel vuoto viaggia a 300 000 km/s, o ignorava che nessuna particella dotata di massa può viaggiare non solo più veloce della luce nel vuoto, ma neppure alla stessa velocità.
Vi cito quest’aneddoto perché è significativo: che niente possa andare più veloce della luce nel vuoto, e che a 300 000 km/s ci vanno solo i fotoni è una cosa che sanno in genere anche quelli che di fisica non sanno niente. È una di quelle poche cose che ti resta in testa dalla scuola, e una delle poche certezze sulle quali uno scienziato metterebbe la mano sul fuoco, assieme alla terra che gira intorno al Sole e un altro paio di cose. Questo per farvi capire perché questa notizia – per una volta – ha ben ragione di essere sparata in prima pagina sui giornali a caratteri cubitali.
Ora, vediamo se ci riesce di capire perché fino ad ora tutti eravamo convinti che c – da qui in avanti indicherò con c la velocità della luce nel vuoto – fosse una costante.
Cominciamo con le cose semplici. Immaginiamo che io sia su un treno che va a 80 km/h. Se mi metto a camminare in questo treno, diciamo ad una velocità di 5 km/h, per un omino fermo in stazione, e che misuri da terra la mia velocità, io andrò a 80+5=85 km/h, ossia alla velocità con cui mi muovo insieme al treno, più la mia velocità rispetto al treno stesso. Immaginiamo adesso che a muoversi da un capo all’altro del treno sia un raggio di luce. Lo stesso osservatore di prima, fermo in stazione, misurerà che il mio fotone – le particelle di cui la luce è composta si chiamano fotoni – va a 300 000 km/s x 3600 s (in un’ora ci sono 3600 secondi) = 1 080 000 000 km/h più la velocità del treno, ossia 1 080 000 000 km/h + 80 km/h = 1 080 000 080 km/h. Siete d’accordo? Vi immagino annuire. E invece no. È predetto dalle equazioni di Maxwell (le equazioni che spiegano i fenomeni elettromagnetici) – e in seguito è stato sperimentalmente provato – che se l’osservatore in stazione e quello sul treno misurano la velocità del fotone, trovano la stessa cosa: per entrambi, il fotone viaggia a 1 080 000 000 km/h, ossia 300 000 km/s. Ovviamente, è una cosa controintuitiva, ma è così, la natura funziona così. Su questo dilemma si ruppero la testa in molti, a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900. Finché non arrivò Einstein, che fece la cosa più semplice e più rivoluzionaria: disse che ok, la velocità della luce è uguale in tutti i sistemi di riferimento, in moto o fermi, ce ne dobbiamo fare una ragione. Ma se c è invariate, cioè appunto non cambia col sistema di riferimento, allora cambia tutto il resto: le misure di spazio e tempo fatte dall’omino sul treno e da quello in stazione saranno diverse. Ossia, spazio e tempo sono relativi, dipendono dal sistema di riferimento. In particolare, saranno diversi in un sistema a riposo e in uno che si muove invece a velocità costante rispetto al primo. Complimenti, avete appena capito cos’è la teoria della relatività ristretta, il primo pezzettino della rivoluzione di Einstein. Il grande vantaggio della relatività di Einstein era che spiegava le trasformazioni di Lorentz. Le trasformazioni sono semplicemente equazioni che permettono in passare da un sistema di riferimento all’altro. Nel nostro esempio, per passare dalla misura di velocità fatta dall’omino in treno a quella dell’omino fermo in stazione abbiamo applicato una trasformazione: nello specifico abbiamo sommato la velocità del treno. Ebbene, le trasformazioni di Lorentz sono formule matematiche che permettono di passare da un sistema di riferimento all’altro tenendo presente che le misure di spazio e tempo non sono più le stesse in tutti i sistemi di riferimento, che siano in moto o siano fermi. Non erano state introdotte a questo scopo, ma per permette di modificare correttamente le equazioni di Maxwell passando da un sistema di riferimento all’altro, ma è Einstein che le ha spiegate. Comunque, non vi sto a tediare con le formule, vi dico solo che in esse compare un termine piuttosto importante, il fattore di Lorentz

dove β²=v²/c². v è semplicemente la velocità con cui si muove il sistema di riferimento. E già qui capiamo l’inghippo. Se v=c, γ diventa infinito. Peggio mi sento se v>c: abbiamo addirittura la radice di un numero negativo, che matematicamente ha un senso, ma fisicamente no. La famosa legge E=mc² vale solo per velocità piccole (cioè molto minori di c; piccolo e grande sono termini che non hanno senso in fisica, occorre sempre specificare rispetto a cosa siano grandi o piccole). La sua versione generale è

E=γmc²

dal che si capisce che se γ è infinito (cioè v=c) anche l’energia diventa infinita. Questo significa che ci vuole un’energia infinita per far arrivare alla velocità della luce un oggetto dotato di massa m, indipendentemente da quanto questa massa sia piccola. È un modo complicato per dire che un oggetto con massa m non può andare alla velocità della luce.
Sento alcuni di voi dire: ma come, la luce va alla velocità c, e la luce è fatta di fotoni! Già, ma i fotoni non hanno massa.
Fin qui, tutto chiaro.
Veniamo all’esperimento.
Innanzitutto, cos’è un neutrino. È una particella piccolissima, elementare (cioè non è composta da altre particelle e sua volta) che riveste un ruolo importante anche in molti processi astrofisici. Inoltre, i neutrini sono particelle buffe. Innanzitutto, per un sacco di tempo è stato incerto se avessero o meno una massa. L’esperimento Super-Kamiokande ha provato che sì, ce l’hanno, molto piccola, ma ce l’hanno. Inoltre, i neutrini sono praticamente inarrestabili; mentre state leggendo, miliardi di neutrini vi stanno attraversando da capo a piedi, e non si fermano al pavimento, penetrano qualsiasi materiale, attraversano la terra. Si dice che interagiscono debolmente con la materia. Ossia, è rarissimo che un neutrino “urti” un’altra particella o un nucleo di atomo generandone altre, e dato che gli urti e i loro effetti sono l’unico modo che abbiamo per capire come sono fatte le particelle (gli acceleratori fanno questo, fanno urtare le particelle facendole accelerare a velocità prossime, ma non uguali per quanto detto prima, a quelle della luce), capirete bene che scovare un neutrino e capire com’è fatto non è semplice. Ma si fa.
Ora, l’esperimento Opera produceva un certo numero di neutrini al CERN, a Ginevra, e li sparava ai laboratori INFN del Gran Sasso. Dato che i neutrini interagiscono pochissimo con la materia, penetrano tutto il penetrabile tra Ginevra e il Gran Sasso, procedendo in linea – più o meno – retta senza tener conto di tutti gli ostacoli che ci sono in mezzo.
Ora, sincronizzando gli orologi a Ginevra e al Gran Sasso, se si fanno partire i neutrini al tempo t0 da Ginevra e arrivano al tempo t1 al Gran Sasso, e la distanza tra i due punti di partenza e arrivo è ben nota e pari a d, allora la velocità con cui i neutrini hanno viaggiato è presto calcolata:

v=d/(t1-t0)

È fisica elementare. Ora, l’esperimento non funziona proprio così, e tra l’altro non era neppure nato per misurare la velocità del neutrino, ma diciamo che concettualmente si fa questo. Fatta la misurazione, è venuto fuori che v>c. In particolare, i neutrini ci hanno messo 0.00000006 s meno di quanto ci avrebbero messo i fotoni nel vuoto a fare lo stesso percorso. Se ci pensate, non è così poco.
Ora, quando si trova un risultato come questo, che evidentemente mette in dubbio una teoria collaudatissima – ci arriveremo – come la relatività il primo pensiero non è “cavoli, ho vinto il Nobel”, ma “dannazione, dov’è l’errore?”. Un errore ovvio – e molto, molto marchiano – può essere questo: ma il mio strumento ha la precisione necessaria per rilevare una differenza del genere, oppure la mia misura ha un’incertezza più grande? Esempio: misuro un tavolo con un metro da sarta, che ha le tacche ogni millimetro. Potrò misurare un’altezza di 100,1 cm, ma difficilmente potrò misurare 100,01 cm. Il mio metro non ha tacche da un decimo di centimetro. Sgombriamo il campo: 0.00000006 s è ampiamente sopra l’errore della misura. Altre due fonti di errore: sono sicuro che gli orologi a Ginevra e al Gran Sasso sono sincronizzati bene? E conosco con la dovuta precisione la distanza tra questi due posti? Sono domande che ovviamente i ricercatori si sono posti e le risposte sono state: sì, sono sincronizzati per bene, sì, sono sicuro delle distanze. Pensate che hanno anche tenuto presente lo spostamento della crosta terrestre dovuto al terremoto de L’Aquila.
Si passa quindi allo strumento: non è che ha qualche errore di progettazione e/o è successo qualcosa che ha falsato la mia misura? Oppure: ho tenuto presente tutti gli effetti che potrebbero influire sulla mia misura? E ho ripetuto la misura abbastanza volte da escludere che sia un errore?
La ricerca è durata tre anni, i neutrini di cui è stata misurata la velocità sono stati 16111, e i ricercatori non sono stati in grado di evidenziare né errori sistematici né altri effetti che possano spiegare questa misurazione. Così, dopo tre anni, hanno fatto quel che fa lo scienziato serio: hanno pubblicato i dati e hanno detto “qualcuno ripeta l’esperimento altrove, o misuri la velocità dei neutrini in altro modo e vediamo se le nostre misure vengono confermate”.
La storia finisce qui. O meglio, comincia qui. La teoria della relatività è una delle teorie meglio supportate dai dati sperimentali: ha fatto molte previsioni che si sono dimostrate corrette, è stata verificata in centinaia di modi diversi, e fin qui ha spiegato in modo egregio il funzionamento della gravità. Fin qui, appunto. Se le misure di Opera venissero confermate, dovremmo concludere che si è aggiunto al quadro un elemento nuovo. Del resto, non è la prima volta che succede. Fino alla fine dell’800, Newton basava e avanzava a spiegare il moto di stelle e pianeti. C’era solo un piccolo particolare che non tornava nel quadro generale: l’orbita di Mercurio aveva delle particolarità che apparivano inspiegabili nel quadro della legge di gravitazione universale di Newton. Einstein le ha spiegate. E, beninteso, la relatività generale non ha spazzato via la gravità di Newton. Sotto precise condizioni, la relatività generale si riduce alla formulazione di Newton. Ma alcune cose che succedono nel nostro universo, Newton non le spiega, Einstein sì. La relatività ingloba e completa la legge di gravitazione universale di Newton, che infatti ancora si insegna nelle scuole.
Ora, è possibile che ci sia un errore, è possibile che non sia affatto vero che abbiamo trovato una particella dotata di massa che va più veloce della luce. Ma può anche essere invece che la Natura ci ha fregati una volta di più: quando (più o meno) tutto sembrava tornare, ci ha messo i bastoni fra le ruote, facendoci scoprire che avevamo dimenticato qualcosa, che c’è dell’altro, là fuori. La verità ce la diranno i prossimi anni. A me piace credere che la misura fatta al Gran Sasso apra nuovi orizzonti alla fisica, piace credere che abbiamo trovato qualcosa di nuovo intorno al quale arrovellarci, per cercare di dare un senso a questo puzzle complesso e indecifrabile che è l’universo nel quale viviamo. Ma è, appunto, una semplice speranza, che al momento non è supportata da nessun fatto concreto.
Intanto, mi diverto a vedere una notizia di fisica in prima pagina sui quotidiani, per una volta a ragione.

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Frascati Scienza 2011, ultimo avviso

Allora, è stato chiuso il programma dei miei interventi per domani sera nell’ambito della Notte della Ricerca, per Frascati Scienza. Dunque, il primo incontro sarà alle 18.40 presso l’ESRIN, una delle sedi europee dell’ESA, l’agenzia spaziale europea. Poi, alle 20.45, mi potrete incontrare all’Osservatorio Astronomico di Roma. Parlerò delle stesse cose in tutti e due gli incontri, per cui basta seguirne uno. Nello specifico, farò un po’ di spoiler sul prossimo libro, visto che l’astrofisica stavolta c’entra parecchio. Preparatevi, perché vi farò vedere una cosa riguardo Nashira che ancora non ha visto nessuno.
Se ho ben capito, per l’incontro all’Osservatorio non è necessaria la prenotazione, per quello all’ESRIN invece sì, e si fa sul sito. In ogni caso, gli eventi sono tutti gratuiti.
Tengo a precisare che il mio intervento è solo uno dei numerosi cui si potrà partecipare. Ci saranno conferenze a gettito continuo, mostre e esperimenti. Ad esempio sarà presente Umberto Guidoni, e verrà realizzato un esperimento molto carino sull’infrarosso, quella porzione dello spettro elettromagnetico in cui emette ciascuno di noi (sì, emettiamo onde elettromagnetiche). Insomma, vale la pena fare un giro, perché è l’occasione per capire cosa fa e perché è importante la ricerca, conoscere un po’ di ricercatori e scoprire che la scienza è piena di meraviglie. Vi aspetto, allora!

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Aggiornamento su Frascati Scienza

Dunque, ieri mi chiedevate gli aggiornamenti su Frascati Scienza: eccoveli.
Intanto, è confermata la mia mezz’oretta di chiacchierata presso l’Osservatorio Astronomico di Roma, in Via Frascati 33, a Monte Porzio Catone, ore 20.45. In effetti non replicherò Palermo; l’idea, se mi riesce, è di parlarvi un po’ del libro nuovo, che uscirà tra fine ottobre e inizio novembre. Come ho già avuto modo di dire, ho sfruttato un po’ le mie conoscenze di astrofisica per questa ultima fatica, per cui vi parlerò un po’ di Nashira e delle sue stranezze.
Sarò presente per la stessa chiacchierata anche prima, preso l’ESRIN di Frascati, in Via Galileo Galilei; per questo evento non è ancora stata fissata un’ora precisa, entro domani dovrei farvi avere i dettagli. Dirò le stesse cose che ripeterò poi all’Osservatorio, per cui venire all’uno o all’altro incontro è la stessa cosa. L’incontro all’ESRIN, comunque, avverrà prima di quello in Osservatorio.
Vi ricordo comunque che queste chiacchierate avvengono nell’ambito di Frascati Scienza, una serata di apertura degli enti di ricerca dell’area dei Castelli Romani, qui trovate il programma dettagliato. Io vi consiglio di fare un giro a prescindere da me, è una bella occasione per scoprire cosa si combina da queste parti.
A presto per ulteriori dettagli!

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Articolando

Come sapete, ho ormai una certa dimestichezza con l’editoria, almeno con quella di narrativa. Dopo dieci anni circa che faccio questo lavoro, posso dire che ormai riesco più o meno a fare i conti con l’eccitazione per la pubblicazione di un nuovo libro. Certo, il giorno dell’uscita me lo vado a vedere in libreria, poi vado a cercarmi pareri su internet, ma bene o male sta diventando una cosa quasi normale.
Tutt’altra cosa con l’editoria scientifica. Ok, ho pubblicato quattro o cinque articoli, ma due erano ad uso interno del consorzio che lavorava sul satellite Gaia, gli altri due erano proceeding di un congresso pubblicati su rivista apposita – un proceeding è un articolo in cui spieghi meglio il lavoro presentato al congresso -. Non avevo mai avuto a che fare con una rivista referata.
Passo indietro. Cos’è il referee. Quando scrivi un articolo scientifico, lo presenti ad una rivista. La rivista lo passa ad un ricercatore che se lo legge e stabilisce due cose: a) se l’articolo è degno di pubblicazione, b) se ci sono suggerimenti da dare agli autori o correzioni da fare. Il ricercatore in questione si chiama referee.
Circa due settimane fa, abbiamo proposto un articolo alla rivista Pubblications of Astronomical Society of the Pacific. Tempo una settimana, mi ha scritto il refree con tre suggerimenti. Abbiamo corretto e aggiunto, abbiamo rispedito l’articolo. Settimana scorsa ci hanno detto che è stato approvato, e uscirà sul numero di Agosto. La cosa mi ha gettata in uno stato di vera e propria euforia.
Sono due anni e mezzo di lavoro: di sudore, di cose che non venivano, di momenti di sconforto e di esaltazione. Ed è quel che fa la differenza tra uno che prova a fare il ricercatore e uno che è ricercatore. Ecco, è come aver ricevuto una specie di battesimo. È il coronamento di un percorso. Esagero? Probabilmente sì. Ma sono contenta quasi come quando vidi per la prima volta Nihal della Terra del Vento in libreria. Ok, non proprio così, ma quasi.
L’articolo è questo. Vorrei potervi invitare a leggerlo, ma mi rendo conto che senza certe conoscenze di astrofisica è praticamente arabo. Magari un giorno ve lo spiego, appena ho un po’ di tempo.
Io, intanto, gongolo felice.

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Titani

Ieri ho assistito ad un workshop in cui si illustravano le attività di ricerca del dipartimento di fisica. In verità confesso di aver seguito la sessione di astrofisica, perché era quella che mi interessava di più. S’è parlato di tante cose interessanti, ma in particolare una mi ha colpita, perché mi affascina da quando seguii un corso di dottorato al riguardo: le onde gravitazionali.
Facciamo un passettino indietro. Ci sono le onde del mare, come tutti sappiamo: diciamo che sono increspature della superficie dell’acqua, più nello specifico sono modificazioni della densità e della pressione dell’acqua. Quel che si propaga è il “movimento” (energia e quantità di moto, per usare una terminologia fisica), ma non la materia, almeno nel caso delle normali onde che fanno ballare il pedalò quando andiamo al largo, al mare. Onde simili si propagano anche nell’aria: ad esempio i suoni sono esattamente delle variazioni periodiche della densità dell’aria. Questi due tipi di onde hanno bisogno di un mezzo per propagarsi: no acqua, no onde, no aria, no suoni, come sappiamo (quelli che fanno i film di fantascienza lo sanno un po’ meno ma sorvoliamo).
Esistono però anche onde che non hanno bisogno di un mezzo fisico per propagarsi: è il caso delle onde elettromagnetiche. Infatti, se nel vuoto i suoni non possiamo sentirli, la luce, che è l’onda elettromagnetica con cui abbiamo più a che fare ogni giorno, la vediamo benissimo. In quel caso, ad oscillare periodicamente è il campo elettromagnetico, ossia, per metterla giù facile, la direzione e l’intensità delle forze elettromagnetiche.
Ora, come voi sapete esiste la gravità. Noi la conosciamo nella forma classica lasciataci da Newton, ossia

dove M e m sono le due masse che si attraggono, r la loro distanza e G la costante di gravitazione universale. Solo che questa formula va bene solo sotto certe approssimazioni. La forma più esatta che esprime il funzionamento della forza di gravità è la teoria della relatività generale di Einstein, da lui proposta nel 1916. Già, sono quasi cento anni; come passa il tempo. Potrei scrivervi le formule, ma hanno un aspetto decisamente meno amichevole di quella della gravità di Newton, e richiedono conoscenze avanzate di matematica per essere spiegate, per cui mi esimo. Vi basti sapere che la teoria della relatività generale prevede che anche il campo gravitazionale possa oscillare e produrre dunque onde, le onde gravitazionali. Sostanzialmente, le onde gravitazionali sono modificazioni dello spazio-tempo: è come se lo spazio fosse un tessuto che viene increspato da queste onde. E già questo l’ho sempre trovato fighissimo. Comunque. La parola chiave di tutto il discorso è: previsto. Le onde gravitazionali sono state previste, ma nessuno le ha mai viste. Perché sono estremamente elusive, ossia producono effetti minuscoli.
Si suppone vengano prodotte da qualsiasi interazione tra masse. In teoria anche battere le mani produce onde gravitazionali. Dov’è il busillis? Presto detto.
Suppongo saprete che la forza di attrazione tra voi e lo schermo sul quale state leggendo esiste, ma è minuscola. Questo perché la vostra massa e quella dello schermo è piccola, e al contempo anche G è molto, molto piccola. Invece, l’attrazione tra voi e la terra è significativa, tanto da tenervi ancorati al pavimento coi piedi. Dunque, perché la forza di gravità abbia effetti significativi occorre avere a che fare con grandi masse. E infatti, le onde gravitazionali che si cerca di misurare sono prodotte dallo scontro o dalla variazione di oggetti dotati di grandi masse: buchi neri che vibrano, stelle di neutroni che si fondo, e cose del genere. Il problema però è che anche prendendo in considerazione masse grandissime (quelle quelle stelle, di un buco nero o di una galassia) ugualmente l’effetto che le onde gravitazionali generate producono è minuscolo. Se prendiamo il caso, che so, di due stelle di neutroni che si fondono (coalescono, si dice), l’effetto dell’onda gravitazionale prodotta è quello di spostare due masse di prova di 0,000000000000000000001 m per ogni metro che le separa. Una cosa ridicola, come vedete.
Nonostante questo, sono 50 anni che le si cerca. Perché trovarle sarebbe una bella conferma della relatività generale (una delle molte), e soprattutto aprirebbero un’intera nuova branca dell’astrofisica: perché ogni segnale che proviene da una sorgente di dice tantissimo sulla struttura che l’ha prodotta, e le onde gravitazionali non fanno eccezione.
Ecco, io questa cosa l’ho sempre trovata eroica. Immaginate un ricercatore che trascorre tutta la sua vita a cercare una cosa. Sa che esiste, ma sa anche che trovarla è difficilissimo, e che, prima ancora di tentare, deve possedere lo strumento giusto. Altrimenti è come cercare di misurare una cosa lunga 10 cm con un metro che ha tacche solo ogni 50 cm. Impossibile. La storia del nostro ipotetico ricercatore è quella di affinare di continuo il suo strumento, senza sosta, fino a spingerlo a limiti di sensibilità letteralmente impensabili. Senza vedere niente.
Io, come fisico stellare, le stelle le vedo tutti i giorni. Il mio problema, anzi, è che certe volte ho troppe misure. Uno che studia le onde gravitazionali non ha mai fatto una misurazione di onda gravitazionale in vita sua. Ha misurato tante altre cose, in compenso, ma mai quella che cerca. Attende da sempre di vedere sullo schermo del suo computer quel segnale, quell’unico segnale che gli dice che ce l’ha fatta.
Io li ho visti i rivelatori di onde gravitazionali. Uno è all’INFN di Frascati. Ho visto l’enorme involucro di metallo verde, e ho visto lo schermo collegato, fisso sempre sulla stessa immagine. E ho pensato che una persona che fa questo nella vita è un eroe. Voglio dire, è una situazione à la Deserto dei Tartari. I barbari ci sono, dannazione, ma appena dietro l’orizzonte. E tu rimani lì, anche se non li hai visti mai, e continui a guardare con la stessa attenzione. Senza contare il fatto che nel frattempo sei riuscito a realizzare l’impensabile: uno strumento dotato di una precisione allucinante. E considerate che ci sono infinite fonti di rumore (in fisica il rumore è tutto ciò che “sporca” il tuo dato, segnale che non è dato di rilevanza scientifica, quindi, che so, le luci della città quando guardi le stelle) per strumenti del genere: le nuvole che si muovono, le onde del mare. I terremoti.
Un giorno il nostro professore di fisica 2 venne a lezione un po’ sbattuto. Ci disse che Nautilus, il rivelatore verde di cui sopra, quella notte aveva rilevato qualcosa. S’erano tutti eccitati, si erano messi lì a controllare i dati, solo per scoprire che aveva rivelato un terremoto che c’era stato non so dove.
A me piacerebbe chiudere questa storia di Titani con un bel “ma tra dieci anni le becchiamo di sicuro”. Purtroppo la ricerca non dà di queste sicurezze. Sono allo studio nuovi rivelatori, ancora più sensibili, uno è addirittura composto da tre satelliti che si spareranno l’uno verso l’altro dei laser potentissimi; si chiama LISA, ed era l’oggetto del mio esame di onde gravitazionali, appunto. Le speranze di riuscire a beccare questo elusivo fenomeno fisico aumentano, ma chissà. Resta la grandezza di chi continua a cercare: l’essenza di questo lavoro strano e tremendo sta tutta là, in quella persona che guarda quello schermo fisso da cinquanta anni a questa parte. Qualcuno ha detto: “Non è vero che il ricercatore insegue la verità, è la verità che insegue il ricercatore.” E forse è vero.

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Fukushima, Černobyl’ e le altre

Aggiornato il 19 Marzo 2011

Il terremoto in Giappone mi ha molto colpita, come ha colpito tutti noi, suppongo. Il terremoto resta qualcosa di terrificante per l’uomo: improvviso, assolutamente imprevedibile, devastante, ci toglie una delle sicurezze più radicate in noi, quella nella solidità della terra che calpestiamo ogni giorno.
Comunque, non è del terremoto in sé che voglio parlare, ma dell’incidente nucleare che ne è conseguito. L’incidente a Fukushima è destinato a cambiare molte cose, la rinascita del programma nucleare italiano in primis: la gente ha di nuovo paura, come venticinque anni fa – e io Černobyl’ me lo ricordo molto bene – e questa paura condizionerà le nostre politiche future.
Ora, come sempre quando si parla di fisica, le informazioni che i media fanno circolare circa quel che sta succedendo o – speriamo decisamente di no – potrebbe accadere a Fukushima sono una mescolanza di cose vere, panzane, informazioni corrette e titoloni ad effetto. Tipo che sabato mattina leggo da qualche parte che il reattore di Fukushima sta andando incontro ad una fusione nucleare. Sì, come no. Per cui, nulla, ho pensato che avreste potuto apprezzare un po’ di informazioni al riguardo.
Cominciamo con alcune nozioni di base preliminari: la materia è fatta di atomi. Gli atomi, a loro volta, hanno un nucleo intorno al quale orbitano degli elettroni. Il nucleo, a sua volta, è formato da due tipi di particelle: neutroni e protoni. Tutto ciò che ci sta intorno, e noi compresi, ovviamente, è fatto di atomi. La differenza tra, che so, il ferro e l’aria sta nel numero di elettroni e protoni negli atomi.
Detto questo, passiamo alle fusioni e alle fissioni, e sul perché ci sia una bella differenza tra le due.
In condizioni di densità e temperature molto alte, può succedere che gli atomi possano fondersi tra loro, formando altri elementi. Il caso tipico è quello che abbiamo letteralmente sotto gli occhi tutti i giorni: il sole. Ebbene sì, quando guardate il sole, state osservando una fusione nucleare. Gli atomi di idrogeno di cui è composto il sole (nell’idrogeno c’è un protone e un elettrone) urtandosi a volte si fondono a formare un nucleo di elio (due protoni e due elettroni), producendo energia.
La fissione è il processo inverso: un atomo, bombardato da neutroni di data velocità, si può spezzare in due, producendo energia. Come vedete, c’è una bella differenza.
Le centrali nucleari utilizzano la seconda reazione, non la prima. Il motivo è presto spiegato: per ottenere una fusione, come già detto, ci vuole materia ad alta densità e alta temperatura (stiamo parlando di milioni di gradi), tutte cose che in linea teorica si possono ottenere, ma con un dispendio di energia enorme, superiore all’energia prodotta dalla reazione di fusione. È come giocare ad una lotteria il cui biglietto costa 100 euro e promette un premio di 50: vale la pena? No, perché anche in caso di vittoria avrai intascato solo la metà di quanto hai speso. Lo stesso accade con le reazioni di fusione. Per inciso, nel sole e nelle stelle in generale a fornire l’energia necessaria a riscaldare la materia è la forza di gravità.
Ma passiamo alle centrali nucleari. Come funzionano? Come un bollitore. Il principio è semplicissimo: qualcosa – ora vedremo cosa – scalda l’acqua, che diventa vapore e mette in moto delle turbine che a loro volta producono energia elettrica. Tutto qua? Tutto qua. E la fissione? La fissione è il qualcosa che scalda l’acqua. Abbiamo infatti detto che la fissione produce energia: la massa dei due frammenti in cui l’atomo si spezza è un po’ inferiore alla massa dell’atomo di partenza. La differenza si è trasformata in energia, secondo la famosa relazione di Einstein
E = mc2
Ok, fin qui sappiamo che, se bombardiamo un atomo di un certo materiale “adatto” a spezzarsi con un neutrone con una certa velocità, otteniamo energia. Ma l’energia prodotta in sé è piccola, è ovvio che dovremo spaccare un bel po’ di atomi, e ci piacerebbe anche che la reazione andasse avanti da sola, senza che qualcuno produca neutroni da sparare. La natura ci viene incontro: quando l’atomo si spezza, vengono prodotti anche un certo numero di neutroni, i quali, in linea teorica, sono in grado di rompere altri atomi. Però, l’abbiamo detto, devono avere una certa velocità, e essere anche in numero sufficiente. E qui conviene introdurre un parametro, K, che è uguale al numero di neutroni prodotti dalla reazione fratto il numero di neutroni usati per produrre la reazione stessa. Se K<1, il numero di neutroni disponibili a rompere altri atomi diminuisce nel tempo, e la reazione va ad esaurirsi. In questo caso la reazione è subcritica; se K=1, la reazione riesce a sostenersi, ed è stabile: in questo caso è critica; se K>1, allora ad ogni passo vengono rotti più atomi del passo precedente, e la reazione non solo si sostiene, ma aumenta nel tempo: è supercritica.
In un reattore nucleare in linea di massima la reazione deve essere critica o al massimo un pochino supercritica; questo perché vogliamo controllare la reazione, in modo da poter aumentare la potenza, se necessario, o diminuirla. In genere per farlo occorre variare ad esempio il numero di neutroni disponibili per la reazione. Per farlo, si usano le barre di controllo sbarre di materiale che “assorbe” i neutroni che vengono infilate a piacimento nel nocciolo, ossia la parte del reattore nucleare che contiene il materiale fissile.
Ora, primo punto fondamentale: una centrale nucleare non può esplodere tipo Hiroshima. Tutti gli incidenti nucleari che fin qui si sono prodotti, Černobyl’ compreso, non sono stati esplosioni nucleari. Non sto dicendo che i sistemi di sicurezza impediscono ad una centrale nucleare di esplodere come una bomba atomica: sto dicendo che le leggi di natura rendono impossibile una simile evenienza. Il perché è presto spiegato. Il materiale che si usa per le bombe atomiche e per le centrali di nucleari è spesso l’uranio. Ora, dell’uranio esistono diversi isotopi: gli isotopi sono atomi dello stesso elemento che differiscono per il numero di neutroni nel nucleo. La specie chimica è la stessa, ossia l’Uranio con 238 neutroni è uranio esattamente come quello con 235, ma le proprietà chimiche e fisiche possono essere diverse. L’uranio fissile ossia che può essere usato per le reazioni di fissione, è quello con 235 neutroni (235U). In natura, l’uranio si trova mescolato nei suoi due isotopi, in genere pochissimo 235U e molto 238U.
Ora, in una bomba quel che voglio è che venga rilasciata moltissima energia in un lasso di tempo molto breve: è questo quel che si intende quando si dice esplosione. Nel caso della bomba atomica, voglio che tutti gli atomi si spacchino in brevissimo tempo. La reazione dovrò quindi essere supercritica, e anche parecchio. Per ottenere questo scopo, si deve avere un uranio che sia il più possibile 235U puro. Il materiale fissile per le bombe, dunque, è ad alta concentrazione di 235U.
Nel caso invece di un reattore nucleare, ho interesse a che la mia reazione sia lenta e controllabile; l’uranio usato, dunque, ha un contenuto di materiale fissile molto minore rispetto a quello usato per bombe. Un materiale del genere non può esplodere. Punto.
Ok, va bene tutto, ma gli incidenti nucleari, allora? Perché proprio in queste ore si dice che il reattore di Fukushima potrebbe fondere? Può succedere, per varie ragioni, che la reazione di fissione vada fuori controllo, ossia che si producano troppi neutroni e dunque la reazione aumenti esponenzialmente. Intendiamoci, non è normale che accada: quando succede vuol dire che qualcosa sta andando terribilmente storto. Per capirci, a Černobyl’ ci fu una tremenda catena di errori umani e di progettazione del reattore che portarono alla distruzione dello stesso. A Fukushima, si è rotto il sistema di raffreddamento. E insomma, la reazione può andare fuori controllo. Nel caso peggiore, quel che avviene è che la reazione a catena avanza incontrastata, facendo salire enormemente la temperatura del nocciolo, fino a causarne la fusione. La reazione si è spenta virtù della procedura di SCRAM: le barre di controllo sono scese, hanno assorbito e rallentato i neutroni e la cosa è morta lì. Però c’è un altro fattore da tener presente, ossia il decadimento radioattivo; i nuclei di uranio sono instabili, e naturalmente tendono a perdere neutroni e protoni per trasformarsi in una specie chimica più stabile; nel caso del 238U, prima torio e poi piombo. È questo processo che continua a tenere caldo il nocciolo. Il sistema di refrigerazione serve proprio a raffreddarlo. Se il sistema di refrigerazione non funziona, il nocciolo si scalda sempre più, fino ad arrivare alla situazione limite in cui il materiale di cui è composto fonde. È questa la fusione di cui si parla in queste ore, non è una fusione nucleare, è lo stesso tipo di fusione cui va incontro un pezzo di ferro portato ad alta temperatura. Non sono gli atomi che si fondono, è il materiale che da solido diventa liquido. Questa è una brutta, bruttissima cosa perché in questa eventualità il nocciolo può distruggere le pareti del reattore, che lo confinano, e arrivare a toccare il suolo, contaminando le falde acquifere e il terreno. È quel che accade a Černobyl’: il nocciolo fuse parzialmente, e sta ancora lì. Ma perché è una cosa brutta se il nocciolo tocca il suolo o inquina l’acqua?
Abbiamo detto che durante la fissione gli atomi si rompono. Va da sé che producono una nuova specie chimica. Sono le famose scorie, i rifiuti prodotti dall’energia nucleare. Questi materiali di scarto sono radioattivi, ossia producono radiazioni e particelle che sono dannosissime per la vita. Possono portare alla morte per avvelenamento – alcune delle vittime di Černobyl’ morirono così – e sul lungo periodo provocano il cancro.
In condizioni normali, il nocciolo è ben isolato dall’esterno da un guscio di acciaio e cemento. Peccato che un nocciolo fuso possa bucare questo involucro. Ecco perché la fusione del nocciolo è un evento catastrofico. Per altro, i materiali radioattivi prodotti continuano a produrre radiazioni nocive per moltissimi anni: alcuni per centinaia di anni, ma altri anche decine di migliaia, anche milioni di anni. Questo spiega perché l’area di Černobyl’ è stata completamente evacuata e nessuno è più tornato a viverci.
Ma le esplosioni che ci sono state a Fukushima in questi giorni? Non sono esplosioni nucleari, come abbiamo visto. Semplicemente, quando la reazione diventa incontrollabile, l’acqua del reattore va incontro a reazioni che producono idrogeno gassoso. La pressione sale, proprio come in una pentola che bolle col coperchio. Quando le pressione diventa eccessiva, il coperchio salta. Quel che accadde a Černobyl’, e qualcosa di simile sta accadendo a Fukushima. Il fatto è che esplosioni del genere scaricano nell’aria i materiali radioattivi del nocciolo, causando la contaminazione del suolo e dell’aria.
Insomma, questo è quanto per cercare di capire cosa sta succedendo, e cosa speriamo non accadrà.
Poi, certo, c’è il dibattito sul nucleare. Ma qui si passa dal ramo della scienza a quello delle opinioni; sono tanti i fattori da tener presenti quando si decide di scegliere il nucleare come fonte energetica, e quello della sicurezza è solo uno dei problemi. Un giorno, se vorrete, vi spiegherò la mia posizione al riguardo, che comunque credo sia già nota. Per adesso, limitiamoci a tenere le dita incrociate per Fukushima.

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A grande richiesta (veramente no, ma vabbeh): Astronomica – Betelgeuse e il 2012

Rispolvero la vecchia Astronomica dopo tanto tempo che non lo facevo. È che mi hanno fatto una domanda su Facebook, è ho pensato di divertirmi un po’. La domanda riguardare questo articolo, che mi è stato segnalato. In verità me ne aveva già parlato Giuliano, la cosa mi aveva incuriosita, e allora ho pensato di parlarne.
Allora, sgombriamo subito il campo: non c’è nulla di cui preoccuparsi. L’articolo per altro mischia cose abbastanza vere che castronerie di vario genere, il che complica le cose. Vediamo allora di separare le une dalle altre.
Chi è Betelgeuse
È una gigante rossa, ossia una stella nelle fasi finali della sua vita. Anzi, per la precisione una supergigante rossa. Breve ripasso di evoluzione stellare: una stella è sostanzialmente una palla di idrogeno. Non che ci sia solo quello, ovviamente ci sono anche altri elementi, ma l’idrogeno è preponderante. Una stella non è solo una palla d’idrogeno: è anche una gigantesca fucina. Le condizioni di estrema densità, e dunque di elevata temperatura, in cui si trova la materia fa sì che gli atomi di idrogeno si fondano insieme per formare elio. Una stella fa questo per la maggior parte della sua vita: trasformare idrogeno in elio. Solo che, come per le macchine, ad un certo punto la benzina finisce, ossia l’idrogeno da trasformare in elio termina. A questo punto partono altre reazioni; prima che l’idrogeno finisca, la reazione di combustione di idrogeno si sposta dal nucleo della stella ad un sottile guscio attorno ad esso, poi si passa al bruciamento dell’elio in carbonio, e poi via così. Man mano che il carburante si esaurisce, pian piano i prodotti della combustione precedente diventano carburante per la produzione di elementi più pesanti. Il gioco si arresta al ferro; l’energia necessaria per bruciare il ferro non può essere prodotte in una stella “normale”. Insomma, una supergigante è una stella che sta bruciando elementi più pesanti dell’idrogeno.
Dov’è Betelgeuse?
Nella costellazione di Orione, non nella nebulosa. O meglio, Betelgeuse si trova all’interno di un’ampia nube, per lo più non visibile nell’ottico, di cui la nebulosa di Orione propriamente detta – questa, per capirci – è solo una parte. Per inciso, la nebulosa di Orione è una zona di formazione stellare, ossia dove nascono le stelle. Perché si è ingenerato l’equivoco? Perché sia Betelgeuse che la nebulosa si trovano nella stessa costellazione, quella appunto di Orione. Cos’è una costellazione? È un gruppo di stelle che in cielo appaiono vicine. Gli antichi si divertivano a raggruppare le stelle in modo che formassero figure. Le stelle di una costellazione, però, non sono fisicamente vicine. Ci appaiono tali perché il cielo notturno ci sembra una specie di foglio, sul quale sono disegnati puntini luminosi. Non riusciamo ad apprezzarne la profondità, perché non abbiamo punti di riferimento per riuscire a stabilire così, a occhio, quali oggetti siano lontani e quali vicini. Ci sembra tutto piatto. In verità la nebulosa di Orione dista da noi 1270 anni luce, Betelgeuse sui 600 anni luce. Nel cielo, però, ci appaiono vicine.
Ma Betelgeuse sta per diventare una supernova?
Sì e no. Data la sua massa, è una stella che terminerà la sua vita come supernova. Ma cos’è una supernova? Dunque, una stella “normale” si regge su un delicato equilibrio: da una parte, la gravità tenderebbe a farla collassare, cioè a concentrare tutta la materia verso il centro, dall’altra l’energia prodotta dalle reazioni termonucleari tendono a farla espandere. Le due forze si equilibrano, e la stella rimane della sua bella forma più o meno tonda che tutti conosciamo. Però abbiamo visto che le reazioni possono procedere solo fino ad un certo punto. Nelle stelle più piccole, con poca massa, si arrestano a volte addirittura quando finisce l’idrogeno da bruciare. In quel caso, la stella non esplode, ma diventa una nana bianca. Nelle stelle più grandi, come abbiamo visto, si può arrivare al massimo alla produzione del ferro. A quel punto, le reazioni si fermano, la massa è tanta, e dunque la gravità molto forte. Accade allora che questa forza, non più contrastata da altro, fa collassare la stella. Il nucleo “crolla” su se stesso, si comprime in modo incredibile, e i suoi strati esterni “rimbalzano” verso la superficie della stella in una esplosione tremenda. Questa è appunto un’esplosione di supernova. Si tratta di uno dei fenomeni più violenti che si possano osservare nell’universo, che a volte rendono la stella più brillante della galassia stessa in cui si trova. Questo destino, comunque, riguarda solo stelle di grande massa. Il sole, per dire, non finirà così, ma diventerà una nana bianca. Betelgeuse, invece, esploderà come supernova.
Ma allora è vero, moriremo tutti!
No. I modelli per spiegare le supernovae non permettono di predire con esattezza quando la stella esploderà. È che, contrariamente a quel che spesso si pensa, noi siamo ben lontani dall’aver capito tutto del funzionamento dell’universo e degli oggetti che lo popolano. Così come si sa più o meno cosa causa un terremoto, ma non lo si può predire, si sa che Betelgeuse prima o poi diventerà una supernova, ma non si sa esattamente quando. Per altro Betelgeuse, come tutte le giganti rosse, effettivamente perde massa, ma questo non significa che sta per esplodere. Piuttosto, Beltegeuse mostra una certa variabilità, ossia la sua luminosità cambia nel tempo e con una certa regolarità. Questo sembra essere tipico di una stella prossima alla fine della sua vita, almeno secondo alcuni modelli.
Ora, l’esplosione potrebbe avvenire tra qualche migliaio di anni, o tra qualche milione, o forse – ma questo sembra meno probabile – è già avvenuta. Ricordiamo che Betelgeuse dista 600 anni luce, ossia la luce che vediamo ora è partita da Betelgeuse 600 anni fa. Se Betelgeuse esplodesse, poniamo, ora, noi vedremmo la luce della sua esplosione solo tra 600 anni. Comunque, tornando a noi, non c’è alcuna ragione scientifica per dire che “è probabile” che Betelgeuse esploderà nel 2012. Anzi, è più probabile che non vedremo Betelgeuse esplodere per ancora qualche centinaio di anni.
Ok, ma i neutrini?
I neutrini sono in assoluto le particelle più citate quando si devono sparare castronerie. Erano al centro di 2012, guarda un po’, e forse per questo vengono tirate in ballo. Allora, i neutrini sono particelle che hanno interazioni debolissime con la materia. Mentre leggete, miliardi di neutrini vi stanno attraversando da capo a piede. Ve ne state accorgendo? Io sono sicura di no. Per cui, non c’è nulla da temere dai neutrini, che per altro men che meno sono in grado di “rifocillare” alcunché. In effetti i neutrini vengono prodotti durante le esplosioni di supernova, ma insieme a tanta altra roba, tra cui gli elementi più pesanti del ferro. La cosa più pericolosa che viene prodotta durante l’esplosione di una supernova possono essere, in alcuni casi, i raggi gamma, che hanno effetti devastanti sulla vita.
Ah, ma quindi moriremo tutti lo stesso!
Qui il discorso si fa, se possibile, ancora più complesso. C’è chi dice che l’esplosione potrebbe essere pericolosa per la vita, altri dicono di no. I modelli più recenti sembrano predire che non accadrà nulla. Infatti in questo tipo di esplosioni l’emissione di raggi gamma è “collimata”. È come avere una torcia; se non ti trovi lungo la direzione del raggio di luce, non vieni illuminato. Nel caso di Betelgeuse il raggio che ne deriverebbe non dovrebbe essere diretto verso la terra. Ok, qualche anno fa parlai di Betelgeuse in termini meno rassicuranti, ma la scienza si evolve, e nel frattempo altri studi hanno provato che le probabilità sono in nostra favore: Betelgeuse non sembra pericolosa.
Va bene, ma la storia dei due soli?
Sembra che effettivamente la sua luminosità permetterà di vederla anche di giorno, non però luminosa come un altro sole, non esageriamo.
Non è per altro la prima volta che succede. Accadde già nel 1054, quando astronomi arabi e cinesi registrarono l’apparizione di una stella così luminosa che era visibile di giorno a occhio nudo. Era luminosa più o meno come Venere. Proprio l’esplosione di quella supernova diede origine alla nebulosa del granchio, che oggi ci appare più o meno così

Insomma, in sintesi estrema: nel 2012 Betelgeuse non esploderà. In futuro probabilmente sì, ma a quanto pare ci godremo solo uno spettacolo insolito.

P.S.
Da oggi è disponibile sull’app store l’applicazione per iPad del libro delle Creature. Scaricate, scaricate, scaricate.

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Buon viaggio

Studio per fare l’astrofisico da cinque anni, contanto anche la tesi sei. Ho lavorato due anni al centro dati ASI, che si trova dentro l’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, per cui di lanci di satelliti me ne sono passati sotto gli occhi parecchi. Ad ESA non dico ce ne fosse una al mese, ma ce ne sono stati parecchi nei due anni in cui l’ho bazzicato. E in genere c’era la diretta dell’evento. Tanta gente lì dentro aveva lavorato a quello specifico satellite, e aveva piacere di vederlo partire. Io non ho mai assistito. Avevo sempre qualche scadenza, un lavoro in arretrato, o comunque qualcosa da fare. Per cui non avevo mai visto in diretta la partenza di un satellite. Fino a ieri.
Ieri sono partiti Plank e Herschel. Il primo è un satellite che studierà la radiazione cosmica di fondo (qui ho cercato di spiegare di cosa si tratta, qui per chi vuole saperne di più ed è anglofono), mentre il secondo è un telescopio infrarosso. Sono partiti insieme, montati sullo stesso razzo (un Ariane 5, il lanciatore che viene usato di solito per mettere in orbita i satelliti europei), dalla base di Kourou, nella Guyana Francese. Qui all’università, che nella progettazione e nella costruzione del satellite è stata fortemente coinvolta, c’è stata la diretta dell’evento. Lì per lì, a convincermi ad andare è stato il bisogno di staccare un attimo dal lavoro che stavo facendo. Sapevo che sarei rimasta a lavoro fino a tardi, e sentivo il bisogno di un attimo di pausa. Però devo dire che quando sono salita su, sono entrata subito nell’evento. Il count down da un lato, le facce tese delle persone nel centro di controllo a Kourou sullo schermo…non ho lavorato a Plank, presumibilmente non lavorerò mai sui suoi dati, eppure mi sentivo coinvolta da quel lancio. Sono in un periodo della mia vita in cui ho un po’ la lacrima facile, ma devo dire che stavo per commuovermi quando il razzo è partito. Abbiamo seguito quasi con apprensione l’ascesa del lanciatore, il distacco dei booster, e poi la partenza vera e propria dei due satelliti, liberi dal razzo che li ha spinti fuori dall’orbita terrestre e dagli scudi termici che li proteggevano. Solo allora è partito l’applauso, liberatorio. Plank e Herschel erano sulla via di L2, il punto in cui andranno a posizionarsi nello spazio, a circa un milione e mezzo di chilometri dalla Terra.
Forse quest’emozione è difficile da capire per chi non ha mai lavorato su un satellite. Ma io l’ho fatto, e so cosa vuol dire spendere ore della propria vita, anni di lavoro e sentirsi parte di qualcosa di più grande. E tutto quel lavoro può andare letteralmente in fumo in pochi secondi. Il lancio è sempre un momento delicato, possono andare storte un sacco di cose, e si può perdere il satellite. E se lo perdi, se esplode, è finita. Il tuo lavoro è andato in fumo, perché non lo si ricostruirà. Piuttosto se ne farà un altro, con gli stessi scopi, ma fatalmente diverso. Per progettare e costruire un satellite ci vogliono anni, anche venti, col risultato che spesso il satellite ha tecnologia obsoleta già quando parte. Questo non vuol dire che non può far bene il suo lavoro. Semplicemente, i tempi di costruzione sono tali che non si può stare appresso agli sviluppi tecnologici, e ci si monta sopra lo stato dell’arte degli strumenti all’epoca in cui si fa la progettazione e l’assemblaggio. Intanto verranno fuori chip più veloci, HD più capienti, ma poiché tutto deve essere calibrato al millimetro per funzionare, non si può cambiare in corso d’opera il progetto approvato.
Per cui, se si perde un satellite al lancio, se ne costruisce uno diverso, che migliori quello perduto, che usi tecnologia più avanzata. In ogni caso, hai perso parte del tuo lavoro. Non saprai mai se il tuo software avrebbe funzionato bene come immaginavi, se quel nuovo strumento che hai progettato avrebbe svolto bene il suo lavoro. Ecco, io ho percepito questa tensione, ieri. Ho guardato il razzo che saliva, ho sperato che tutto andasse bene. Ho pensato che a volte la scienza rappresenta il meglio di noi. Decine di nazioni si mettono insieme, uomini separati da migliaia di chilometri, da differenze culturali che agli ottusi sembrano incolmabili, lavorano gomito a gomito condividendo il linguaggio universale in cui è scritto il cosmo, la matematica, e in un sovrumano sforzo pacifico realizzano qualcosa che servirà a tutti per capire, per aggiungere un tassellino alla conoscenza dell’universo. L’ho trovato commovente. Mi sono sentita parte di una comunità, e orgogliosa di esserlo. Anche se quei dati non li studierò mai. Perché la conoscenza appartiene a tutti, e chi studia il cosmo non lo fa solo per sé, ma per l’umanità intera.
Nel 2012 partirà Gaia. Alcune delle soluzioni software che verranno usate nell’analisi date derivano anche dal lavoro che ho fatto io per due anni. Allora terrò le dita incrociate e mi mangerò le unghie fino all’osso, e sarò contenta di sapere che anche chi non ha lavorato al progetto attenderà, soffrirà e gioirà con me. Le passioni uniscono.

P.S.
Vi segnalo un’intervista di Roberto Recchioni, lo sceneggiatore del fumetto sul Mondo Emerso. Ci sono anche un paio di anteprime per i più curiosi. Enjoy!

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Astronomica 6 – Supernovae

Torna a grande richiesta Astronomica. Ho un po’ trascurato l’argomento, e visto che oggi ho avuto un pochino di tempo, perché no.
Ho pensato di rispondere alla mail di Roberta, che mi chiede di parlare di Supernovae. E di quello parleremo.

Innanzitutto, cosa sono. Siamo abituati a pensare al cielo come un posto sempre identico a se stesso; il poeta Manilio, che scrisse il poema Astronomica (guarda i casi della vita…) diceva

omnia mortali mutantur lege creata,[...]
at manet incolumis mundus suaque omnia servat,
quae nec longa dies auget minuitque senectus,
nec motus puncto curvat cursusque fatigat:
idem semper erit, quoniam semper fuit idem.
Non alium videre patres aliumve
nepotesaspicient: deus est, qui non mutatur in aevo.

che in italiano suona circa così

muta tutto ciò che è soggetto alla legge di morte[...]
ma rimane intatto il cielo e conserva tutto ciò che è suo,
non lo accresce un lungo spazio di tempo né si riduce invecchiando;
non lo piega per nulla il movimento né lo affatica la corsa:
sarà sempre uguale perché uguale è stato sempre.
Non diverso lo videro i padri né diverso lo vedranno
i nipoti:è dio e non cambia nel tempo.

La scienza ci dice che in verità il quadro è molto diverso, il cielo muta eccome, ma spesso lo fa con tempi così lunghi paragonati alla nostra vita che non siamo in grado di apprezzarli. In verità, però, il cielo è pieno anche di fenomeni transienti, ossia temporanei, i cui tempi scala possono essere apprezzati anche dai noi ometti dalla vita breve. Le supernovea appartengono a questa categoria. Sono sorgenti luminose fortissime che si accendono all’improvviso in cielo, là dove prima vedevamo stelle molto deboli o non vedevamo proprio nessuna sorgente luminosa.
Una delle più famose oggi ci appare così: 

Crab Nebula (Nebulosa del Granchio)
 

È la nebulosa del Granchio, una supernova che apparve in cielo nel 1054, e conosciamo la data con così tanta precisione perché la cosa venne registrata dagli astronomi cinesi. Pare fosse così luminosa che la si poté osservare persino di giorno per 23 giorni di fila, e per altri 653 la si poteva osservare di notte ad occhio nudo.
Ma cos’è una supernova?
Banalmente, semplificando quindi molto, è una stella che esplode. Di evoluzione stellare abbiamo già parlato un po’ nel post sui buchi neri; è ora di rinfrescare l’argomento.
Vi ricordo che una stella è sostanzialmente un motore a fusione nucleare; vuol dire che “brucia” un determinato carburante trasformandolo in qualcos’altro. Ad esempio, per la gran parte della sua vita brucia idrogeno in elio. Nella stella, si fronteggiano ed equilibrano due forze contrastanti: la forza di gravità della massa di cui è composta, che tende a farla diventare sempre più piccola (si dice collassare) e la pressione di radiazione, ossia la forza di espansione dovuta alle reazioni termonucleari che avvengono nel suo nucleo. Nelle stelle che vediamo in cielo, le due forze sono in equilibrio.
Ora, una stella consuma carburante. Quando questo finisce, succede che la pressione di radiazione diminuisce, e la forza di gravità prevale per un po’, riuscendo a far contrarre la stella. Questo processo può essere fermato da vari fenomeni; ad esempio, man mano che la stella si contrae si riscalda, e questo le permette di iniziare a bruciare altri carburanti, ad esempio l’elio che ha prodotto, che si trasforma in carbonio. Il processo può andare avanti per un po’. Per esempio, una parte della catena è
idrogeno –> elio
elio –> carbonio
carbonio –> azoto
azoto –> ossigeno

finché non si arriva a produrre il ferro. Quel che avviene, a questo punto, è che non è possibile bruciare il ferro in altro mantenendo al contempo la stella in equilibrio. Infatti l’energia necessaria per bruciare il ferro sarebbe superiore all’energia che verrebbe prodotta dalla reazione. In questo caso si dice che la reazione è endoenergetica. È come quando si gioca al gratta e vinci; comprate dieci biglietti da 3 euro, per una spesa complessiva di 30 euro, e poi finite a vincerne 10 su un biglietto. La spesa è stata superiore alla vincita. Stessa cosa per il bruciamento del ferro. Indi per cui, non si produce più ferro per fusione nucleare.
A questo punto, il nucleo della nostra stella si trova in condizioni estreme; la temperatura è elevatissima, dell’ordine del miliardo di gradi, la densità spropositata. Elettroni e protoni (due dei costituenti fondamentali dell’atomo, i primi carichi negativamente, i secondi positivamente) interagiscono formando particelle che si chiamano neutrini. In questo processo, il nucleo si raffredda, e si contrae. Il processo è catastrofico, si autosostiene, e più il nucleo si raffredda, più il processo è efficiente. L’hanno chiamato processo URCA, dal nome di un Casinò di Rio de Janeiro in cui la gente finiva in rovina a forza di giocare. Per dire.
E poi? Questo processo ha effetti catastrofici sulla struttura della stella. In pratica, gli strati esterni “precipitano”, collassano, sul nucleo di ferro, ci “rimbalzano sopra” (sì, non è molto tecnico, ma rende l’idea) e la stella esplode. Voilà. Supernova. Per inciso, in questo momento fenomeni di nucleosintesi (ossia trasformazione di un qualche elemento in qualcos’altro) diversi dalla fusione permettono la produzione di elementi più pesanti del ferro. Del resto, sulla terra è pieno di elementi più pesanti del ferro, qualcuno dovrà pure averli prodotti. Quel qualcuno sono le supernovae.
Quel che resta dopo l’esplosione è l’immagine che vi ho postato in apertura: una nube di materiale espulso da questo gigantesco “botto”. A volte, al centro della nube può rimanere altro: un buco nero, ad esempio, o un stella di neutroni. A volte non resta niente. Dipende tutto dalle dimensioni iniziali del progenitore della supernova, ossia della stella che è esplosa.
In verità, nessuno sa esattamente come una supernova esploda. Tutti i modelli che abbiamo descrivono il collasso e la successiva espansione, ma non spiegano come, quando e perché la stella esploda. Quella che ho usato è una descrizione, rozza quanto si vuole, ma efficace che spiega come molti pensano che avvenga l’esplosione, ma per la verità nessuno conosce davvero questo meccanismo.
Le esplosioni di supernova sono tra gli eventi più catastrofici che si possano osservare in cielo. Producono una marea di radiazione, e sono luminosissimi. Per esempio; let me introduce you SN2002cv, una supernova che è stata scoperta dall’osservatorio astronomico di Campo Imperatore. 

SN2002cv
 

L’aggeggio allungato che vedete è una galassia. Il pallino luminoso indicato dalle freccette bianche è la supernova. Come vedete, la sua luminosità è confrontabile con quella della galassia, e vi ricordo che una galassia è composta da decine, centinaia di miliardi di stelle.
Ora, la storia che vi ho raccontato in verità riguarda solo un tipo di supernova, quello di tipo II. Ebbene sì, quello delle supernovae è un fenomeno molto complesso, e ce ne sono di svariati tipi e sottotipi. Ve li elenco per completezza, ma non ho alcuna presunzione di essere esaustiva. La differenza tra i due gruppi principali, supernovae di tipo I e II sta negli elementi presenti nella nube di gas che generano. A spanne, se c’è l’idrogeno, stiamo parlando di supernovae di tipo I, se non c’è abbiamo il tipo II. Poi esistono svariati sottotipi; ad esempio, le tipo I si dividono in Ia, Ib e Ic. Tanto per dire, le Ia nascono in sistemi binari. Volgarmente: due stelle che si girano intorno. Una è una stella “qualsiasi” (in cui ancora sono presenti reazioni termonucleari di qualche tipo), l’altra una nana bianca. Credo di avervelo già detto, ma una nana bianca è una stella “morta”, in cui non ci sono più reazioni termonucleari, e che è solo molto, molto calda. Ora, se le due stelle sono abbastanza vicine, la nana bianca inizia a succhiare materia dalla compagna. Questo disegno illustra molto bene il fenomeno

supernova di tipo Ia
 

A questo punto, superato un certo valore di massa, detto limite di Chandrasekar (poi un giorno vi racconto di quest’uomo), la nana bianca si contrae, si innescano le reazioni termonucleari e la stella esplode. Generalmente, questo tipo di supernovae non lasciano nulla se non una nube di gas.
Concludo con una cosina graziosa: questo è un filmatino che simula l’esplosione della Crab Nebula. 

 Qualche fonte per chi vuole saperne di più:
http://apod.nasa.gov/apod/ap981122.html
http://www.seds.org/messier/m/m001.html
http://www.bo.astro.it/universo/webcorso/webleggere/ferraro/fe2.html
http://www.lngs.infn.it/lngs_infn/index.htmmainRecord=http://www.lngs.infn.it/lngs_infn/contents/lngs_it/public/educational/physics/supernova/

Le immagini sono prese da
http://www.xilostudios.com/Stelio_montebugnoli.htm
http://sirio.rm.astro.it/cimperatore/it/site.html
http://www.osservatorioacquaviva.it/
http://www.youtube.com

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