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Il bello della rete

Questo post credo di averlo già scritto in passato. E neppure una volta sola. Perché lo riscrivo? Perché l’argomento è tornato di attualità di recente, perché a furia di autocensurarmi finisce che qui sopra non ci scriverò più per un sacco di tempo, e allora…
La rete, dunque. Il recente raggiungimento del quorum al referendum ha fatto gridare un po’ tutti al miracolo. È la rete che ci salva, è la potenza della libertà di circolazione di idee del web che ha permesso questa grande vittoria della democrazia!
Ora, ok, sì, forse l’asse dell’informazione si sta spostando. Sempre più persone non la fruiscono più a livello meramente passivo (media generalisti), ma in forma più attiva: si vanno a cercare le notizie online, diffondono quelle che gli interessano. E questa è cosa buona e giusta. Ma.
Ma innanzitutto è andato a votare il 54 % circa degli aventi diritto. Che non mi sembra una stratosferica vittoria della democrazia. Resta il consueto zoccolo duro di un 30% di elettori che non vota mai. Perché non gli interessa, perché so’ tutti uguali, perché è domenica e vado al mare.
Poi, dubito che il quorum sarebbe stato raggiunto con quesiti referendari con minore impatto emozionale: voglio dire, qui si parlava di nucleare, il Satana dei nostri tempi, e dell’acqua pubblica. Nessuno mi toglie dalla testa che tanta gente è andata a votare convinta che se poi passava il no sul quesito del nucleare avremmo avuto esplosioni atomiche come se piovesse in Italia.
La gente poi si è fatta un’idea anche dallo sproposito di manifesti in giro per le città, dal volantinaggio della gente…insomma, anche coi metodi “vecchi” della politica.
Ma veniamo alla rete. Cos’è la rete? La rete, per usare l’efficace metafora che lessi nella firma di un utente di un forum qualche tempo fa, è quel posto che ha dato voce a gente che altrimenti non avresti ascoltato neppure in fila al cesso. Purtroppo temo sia vero. E mi ci metto anch’io nel mucchio.
Facciamoci un esame di coscienza. Andiamo online per cercare notizie, per divertirci leggendo, o per poter dire la nostra? Io non ho alcuna remora a dichiarare che ho iniziato ad interessarmi ad internet quando ho scoperto i forum: non mi sembrava vero di poter postare da qualche parte le mie lunghissime e deliranti recensioni dei film de Il Signore degli Anelli, o le disamine puntuali delle puntate dei Cavalieri dello Zodiaco. A volte neppure leggevo le opinioni degli altri. Postavo la mia e aspettavo: che qualcuno mi dicesse “cavoli, hai proprio ragione, bel post”, e aggiungesse una sua riflessione. Siccome non credo di essere l’unica a pensarla così, sono convinta che parecchie altre persone sono online per la stessa ragione: esprimersi. Senza contare che un buon 80% degli italiani ha ambizioni letterarie, perché è sostanzialmente convinto che mentre per dipingere ci vogliono anni di studio, e qualsiasi altra attività artistica richieda competenze specifiche, scrivere no: cavoli, ce lo insegnano a scuola, a scrivere!
I blog, da questo punto di vista, sono il massimo. Anche il blogger più improponibile trova almeno dieci o venti utenti che lo leggono con piacere e plaudono a quel che dice. Perché la rete si organizza così, per cluster: persone simili si ritrovano assieme, e fanno amicizia, beandosi di far parte di un gruppo in cui la si pensa più o meno tutti allo stesso modo. E ovvio, però, che appena si forma un cerchio, come spiegava efficacemente Frate Guglielmo ad Adso ne Il Nome della Rosa – lo so, lo so, ho sempre gli stessi riferimenti culturali – qualcuno ne resta tagliato fuori. E il bello sta proprio lì. Che la comunità appena formata si sente diversa, migliore da tutti quelli che ne restano tagliati fuori. È una dinamica che ho osservato in tutti i forum che ho frequentato, e che alla fine mi ha spinto ad abbandonarli tutti.
Pian piano ci si trasforma in una piccola accolita di persone che hanno in mano la verità. L’affermazione del gruppo passa anzi proprio attraverso il formarsi di una consapevolezza di essere un insieme delle persone con delle specificità che differenziano dalla massa, e dare addosso a chi non la pensa allo stesso modo è un modo per rinsaldare l’appartenenza al gruppo.
Succede ovunque online, pensateci. Basta fare un giro su un qualsiasi forum che parla, che so, di musica. I nuovi arrivati spesso vengono direttamente respinti e sbeffeggiati. Chi ama, invece dei Pinco Pallo, i Pallo Pinco è automaticamente uno che non capisce un cazzo di musica e via così.
L’attrattiva di un mondo fatto così è evidente. Nella vita reale la spinta all’omologazione è fortissima: siamo tutti soggetti al bombardamento da parte di modelli pervasivi, ai quali tutto sommato cerchiamo di omologarci. Vogliamo essere come gli altri, e non lo siamo mai. Online, protetti anche dall’anonimato, che ci permette di rifarci una verginità, di mostrarci del tutto diversi da quel che siamo, se vogliamo, possiamo sentirci diversi, appartenenti ad un’accolita di esseri superiori che sanno, che hanno capito.
Tutto quello cui stiamo assistendo in questi giorni non è altro che questo. Piccoli gruppi che rivendicano la loro diversità, e per farlo, come succede in tutte le comunità umane, si devono trovare un nemico, qualcuno da sbeffeggiare. E non illudiamoci. Senza blog e senza forum la rete sarebbe morta. A parte per il porno, certo. Vogliamo parlare, parlare, parlare, senza prenderci la briga di ascoltare. Proprio come vogliamo scrivere, senza doverci annoiare a leggere.
Io, alla fine, mi sono sottratta. Ho abbandonato tutti i forum che ho frequentato perché dopo un po’ non ne potevo più della gente che faceva il bullo coi newbies, perché non sentivo il bisogno di far parte di nessun gruppo, e soprattutto non volevo prendermela con nessuno. Mi sono rintanata nel mio blog. Dove posso dar sfogo alla mia voglia di scrivere, che resta la pulsione più forte della mia esistenza. Parlare, dire, raccontare. Certo, leggo altri blog, ma non intervengo mai. Perché praticamente sempre finisce che c’è qualcuno contro qualcun’altro, e il qualcun’altro è tipicamente quello estraneo, che non sta alle regole, che semplicemente ha detto “ma io non sarei d’accordo”. E i linciaggi di massa non mi piacciono neanche un po’.
Voi direte, anche noi siamo un gruppo. Probabile. Ma io non credo mai molto a quel che di bene dice la gente di me. So che domani verrà fuori qualcun’altro che gli piacerà più di me, e tutto quel che dico, tutti i post su cui avrete assentito, saranno dimenticati. E poi, siamo un gruppo aperto, via. C’è gente che va e gente che viene, e tutto sommato ho cercato di non dire mai “noi contro loro”. È poco? Probabilmente sì, ma, sapete, si comincia dal piccolo, o almeno io sono convinta che sia così.

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E vago con la mente

Ieri alla fine credo sia andata bene. Ero parecchio agitata, ho torturato la penna di Rossella praticamente per tutto il tempo della presentazione.
Quando presento i miei, di libri, in genere non ho problemi. È quando presento quelli degli altri che iniziano i casini. Nel primo caso, pure andasse male qualcosa, in fin dei conti ci vado di mezzo solo io. E poi, cavolo, è roba mia, l’ho scritta io, non è mica un’interrogazione. Nel secondo, io ho in mano le redini del gioco, se mi dimentico qualcosa, se sbaglio il nome di un personaggio, se le domande sono troppo sceme, o noiose, ci va di mezzo l’autore del libro. Non mi sento nel mio campo, ecco, non mi pare di avere sotto controllo tutte le variabili del sistema, e per questo mi agito.

Di recente ho un nuovo hobby. Giro per la rete in caccia di polemiche. Che ci volete fa’, ognuno ha i suoi vizi. Dedicandomi a questo discutibile passatempo, più passa il tempo più la blogpalla mi sembra un mefitico laghetto in cui la gente se la canta e se la suona. Grandi levate di scudi per le cause più disparate, peccato che poi l’impegno profuso si azzeri automaticamente appena uno spegne il pc. È che a furia di girare online, uno rischia di avere un’immagine del paese completamente falsata. Polemiche devastanti, che non hanno poi alcuna eco al di fuori della rete, gente che sembra avere davvero a cuore l’informazione, la democrazia e via così, peccato che poi non li vedi mai in piazza a protestare, per dire.
È che la rete è una lente deformante. Alcune cose le mostra peggiori di quel che sono, altre migliori. Poi, vabbeh, certe tristi meschinità sono identiche dentro e fuori la blogsfera.

Luglio tempo di tasse. Ok, pagarle non fa piacere, soprattutto se sei libero professionista come me, e dunque parte dei dindi ti passano per mano solo per fuggirsene via in estate. Ma quel che mi dà fastidio non è questo, no. Quel che mi dà fastidio è passare una mattinata intera e recuperare fatture, fatturine e documentazione varia, nonché spedirle tutte via fax. Senza contare che era la prima volta che usavo il fax, per cui invece di ammassare nel piattino tutte le 200 pagine di ricevute fiscali di analisi del sangue, ecografie e altre amenità pre e post gravidiche, ho infilato i fogli uno ad uno. Credo sia una cosa classificata sotto tortura in diversi stati.

Ieri in un paio di occasioni ho rimpianto di non avere con me la macchina fotografica. Intendiamoci, a far foto sono la solita capra. Solo che adesso qualche volta azzecco la combinazione Iso – esposizione, e questo mi permette di divertirmi quando faccio le foto. Senza contare che avrò qualche miliardo di foto di Irene nell’iPad, le ultime le ho fatte stamattina. E allora…allora niente, non lo so. Forse ho trovato un nuovo hobby.

Infine, per chi se la fosse persa…la mosca!

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artisti e fan

Ok, vi giuro che la prossima settimana vi scrivo le mie impressioni della prova su strada dell’iPad. Avrei voluto farlo oggi, ma poi ieri mi sono impelagata nella lettura di una brutta storia e relativi commenti, per cui oggi ho voglia di parlarne.
Dunque, i fatti. Un blog ha scoperto che tutta una serie di battute presenti negli spettacoli e nei libri di Luttazzi sono prese da comici americani, e per prese intendo tradotte, a volte contestualizzate (che so, Repubblicani sostituito con Berlusconi e via così). Il lavoro è stato prodotto da fan del comico, che sono passati da un iniziale stupore ad un sempre crescente sconcerto, fino all’ostilità aperta, anche perché le risposte che Luttazzi ha fornito sono state reputate insufficienti, stizzite e alla fine anche un filo isteriche (si parla di minacce di querela, lotte per togliere da internet un video che presenta i plagi e via così).
Ora, la questione in sé (ha sbagliato Luttazzi? Quanto? Dove? Dobbiamo esigere la sua testa?) non mi interessa più di tanto. Anche perché l’errore, o a voler essere buoni la leggerezza, c’è stato. Quel che mi interessa sono due ordini di discussioni. La prima riguarda il plagio.
Come ricorderete, l’anno scorso più o meno in questo periodo mi trovai coinvolta in una situazione simile. La reazione, ora come allora, è sempre la stessa. Incredulità. Ma perché artisti affermati e dotati di talento, persone intelligenti, fanno cose del genere? Davvero pensavano di non essere beccati? E allora penso che magari davvero erano in buona fede. Per dire, Luttazzi dice che il suo era un gioco con i fan, una caccia alla citazione. Il blog in questione contesta questa ricostruzione, ma non è quel che mi interessa analizzare ora. È che mi domando dove finisca la citazione e inizi il plagio.
Non so se alcuni di voi si sono mai accorti che nei miei libri si nascondo frasi di canzoni che amo. Qualcuno (pochi) ha colto quella che mi è più cara: due righe di Knights of Cydonia in Un Nuovo Regno. Ma c’è anche De André ne La Missione di Sennar (se ben ricordo e non l’ho cassata in qualche revisione…). Ce le ho messe apposta, per marcare il debito che ho nei confronti delle mie fonti d’ispirazione. Ma chi non capisce il gioco, perché quella canzone non la conosce?
Ok, saranno dieci righe a dir tanto in 10 000 pagine di produzione. Ma chi stabilisce quanto devi citare prima di diventare uno che plagia? La legge ha le sue regole, ovviamente, ma a me interessa la questione morale. Davvero l’arte è solo rielaborazione? E quanto si deve rielaborare per non copiare?
La seconda questione, a me ugualmente cara e toccata svariate volte qui sul blog, la sollevano su Lipperatura. Ossia quest’ansia da parte degli ex-fan di Luttazzi di fargli lo scalpo. Ora, leggendo il blog in questione mi pare di capire che ciò che più ha infastidito i fan non è tanto il plagio in sé, quanto il fatto che Luttazzi abbia sempre detto chiaramente di non gradire che qualcuno gli rubi le battute. Il problema dunque è l’incoerenza (oltre alle scuse goffe addotte per giustificare il suo operato). Il che è buffo. Viviamo nel paese dei sepolcri imbiancati, l’ipocrisia è la legge di quest’Italia del XXI secolo, eppure la mancanza di coerenza di un comico ci indigna a tal punto. E qui è il busillis. È che tra artisti e fan si stabilisce un rapporto perverso che fin troppo facilmente può degenerare.
Quando leggiamo, ascoltiamo qualcosa che ci tocca profondamente, immediatamente pensiamo che la persona che l’ha prodotta sia un grand’uomo. Uno che dice delle cose così vere, che risuonano così tanto con la mia visione del mondo, non può che essere una persona speciale. Al contempo, l’arte ci avvicina all’artista, e solo perché sappiamo la sua discografia, o i suoi monologhi, a memoria, siamo convinti di conoscerlo, di esserne quasi amici, e di poter vantare diritti sull’uomo che si cela dietro l’arte. Io credo che in varia misura tutti risentiamo di questo meccanismo. Ognuno di noi ha un idolo. È una cosa simile all’innamoramento adolescenziale, quando passavi ore a guadare il figo della scuola facendoci su mille fantasie, immaginandotelo simpatico, colto, intelligente, e innamorato di te, ovvio. Il problema è che alla resa dei fatti, spesso la nostra immagine mentale sovrastima l’uomo.
Vi confesso una cosa. Quando mi dissero che se avessi scritto il pezzo su Eddie the Head sarei stata ripagata in natura con un’intervista ai Muse, la prima reazione fu panico. Ero pronta a conoscere le persone dietro le canzoni, magari anche antipatiche, o comunque molto diverse da come me le immaginavo? Lasciamo perdere che la risposta non la sappiamo perché ancora non ho avuto il piacere :P (ma direi che sì, sono pronta, ho trent’anni e ce la posso fare :P ). L’importante è che la domanda me la sia fatta.
Al contempo, in certa misura io vivo anche dall’altra parte della barricata, essendo un personaggio pubblico. Mi sono sempre chiesta il perché dell’affetto dei fan (e dell’odio dei detrattori, anche). Voglio dire, ho scritto un libro, non mi pare una gran cosa. Perché la gente mi scrive “sei un mito”, quando anche io ho l’alito pesante la mattina, ho delle meschinità che levati e un carattere difficile da sopportare per chi con me divide il tetto? Mi fa piacere quest’affetto? Certo, ovvio che sì, tutti vogliono essere amati. Mi fa paura? Un po’. Perché so perfettamente che per quanto possa sforzarmi di essere una persona migliore, non sarò mai all’altezza delle aspettative di chi mi vuole bene conoscendo di me solo i miei libri. E che ogni mia deviazione dal modello ideale che i miei fan hanno di me sarà vissuto come un tradimento. Non rispondere ad una mail accorata perché non t’è mai arrivata o l’hai persa in un olocausto dell’hard disk, rifiutare di andare a cena con uno che te lo chiede per mail. Sono tutti sgarbi che qualcuno potrebbe non perdonarti. Esagero? No, affatto.
La vicenda di Luttazzi è proprio questo. La storia di un tradimento. Un tradimento duplice: di Luttazzi verso l’immagine ideale che di lui avevano i fan, e dei fan verso Luttazzi. Probabilmente lui aveva capito che sarebbe finita così. Qualche anno fa chiuse il blog, dicendo che non voleva diventare un messia. Fu una decisione che apprezzai molto. In quest’Italia disperata, Luttazzi percepì di star diventando una specie di eroe dei delusi, e non voleva far la fine di Grillo, che invece ha accettato di “guidare le masse”. Peccato non sia bastato.
Non sto dicendo che Luttazzi non ha sbagliato. Ma mi interessa molto come l’amore si sia trasformato rapidamente in odio, non appena lui e i fan hanno smesso di capirsi. Certo, la sua gestione della situazione è stata goffa e un po’ triste, ed è probabilmente stata la causa di tutto. Ma anche credere che fosse perfetto, quand’era una persona come tutti gli altri, coi suoi limiti, le sue meschinerie e i suoi errori, è stato uno sbaglio. Uno sbaglio che, ripeto, facciamo tutti almeno una volta nella vita.
Poi, certo, c’è la rete. Che evidenzia il peggio di ciascuno di noi. Sparare a zero dallo schermo di un computer è facile, ed è anche lo sport più diffuso sul web. Ma che io non abbia fiducia nella rete è ben risaputo.
La morale di tutto? Non la so. So solo che io personalmente cerco di non farmi illusioni sugli artisti, ma di limitarmi il più possibile ad idolatrare solo la loro arte. Non è facile, ma è più giusto. E per quel che riguarda la Licia personaggio pubblico, cerco di non fare cazzate, e prego che, se mai ne farò, la gente saprà perdonarmele.

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Nel frattempo…

Oggi giornata intensa. Oppure semplicemente non mi ero preparata nulla da dire. Scegliete un po’ voi.
Per cui.
Sto leggendo un libro che uscirà a breve. E mi sta pigliando un sacco, devo dire. Mi metto a pulire, e penso intanto Caio, Sempronio e Tizio cosa faranno nel prossimo capitolo. Questo in genere è proprio un buon segno. Ve ne parlerò quando saprò la data di uscita.
Un annetto fa, ho letto anche una graphic novel. All’epoca non sapevo quando e se sarebbe uscita. Verrà pubblicata il mese prossimo, e la cosa mi fa un sacco felice, e perché conosco l’autore, e perché merita, merita veramente molto. Un fumetto necessario, direi. Stay tuned, avrete notizie anche su questo libro.
Nel frattempo, mentre io mi districo tra manoscritti, pannolini, poppate e pediatri, vi segnalo una mia intervista. Questa. Sì, è uscita da qualche giorno, sono in ritardo. Ma vi ricordo i pannolini, le poppate e i pediatri.
So, enjoy e alla prossima!

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Vero, Verosimile e Bufale

Qualche tempo fa ho letto Il Simbolo Perduto, ultimo, famigerato libro di Dan Brown. Negli ultimi giorni della gravidanza avevo bisogno di qualcosa di scorrevole e divertente, e il tomo in questione mi sembrava adeguato alle mie aspettative. Ora, non è che mi sia piaciuto molto, ma il punto di cui voglio discutere non è questo. Apro l’edizione italiana, è c’è il solito disclaimer: “questo libro è un’opera di fantasia, bla bla bla”. Si mette per questioni legali, anche quando è evidente che l’opera non è per niente di fantasia. Ma non è questo il caso. Non voglio dire che siano tutte cazzate, ma tutta la storia sulle ricerche noetiche direi che ha molto del romanzo. Peccato che, come in tutte le opere di Brown che ho letto finora, tre pagine dopo il disclaimer italiano c’è quello americano, che invece giura e spergiura che è tutto vero.
Ecco. A me una cosa così fa incazzare, mi dispone male verso il libro. Non vedo perché Brown, invece di fare affidamento sulle sue doti di narratore, non trascurabili, cerchi sempre di spingere i suoi libri con questa supposta veridicità di quello che dentro viene detto. Già ne aveva sparate delle grosse ne Il Codice Da Vinci, sempre spacciandole per vere, qui tenta di nuovo il colpaccio, per altro con un intreccio duemila volte più noioso e meno teso di quello della sua opera maggiore. Questo è giocare sporco.
Perché mi è venuto in mente questo. Perché oggi ho letto quest’altro. A parte il mio essere d’accordo sul tema della consapevolezza dello scrittore (e infatti, nell’ormai celeberrima discussione su Lipperatura di Tolkien veniva messa in dubbio proprio la consapevolezza nel maneggiare i miti e in generale la materia che aveva sotto le mani), mi è venuto in mente che viviamo decisamente nell’era in cui la Narrazione ha sopravanzato la Realtà. Con una buona dose di faccia da culo e di conoscenza della psicologia delle masse, puoi far credere alla gente quello che vuoi. Prova ne sia il dilagare di teorie dietrologiche su qualsiasi argomento, dall’attentato dell’11/09 all’aggressione a Berlusconi. Ormai le teorie del complotto dominano letteralmente la rete, e non c’è nessuno che non ci sia cascato almeno una volta. E la tendenza è estremamente pericolosa, perché ci induce a perdere di vista la realtà. Ci lasciamo ingannare da specchietti per le allodole, e dimentichiamo di guardare quello che abbiamo sotto il naso, evidente, lampante. Perché l’Immaginario è più attraente del Reale. Perché cercare il complotto è dare ordine al caos, spiegare ciò che non può essere spiegato. Esattamente quel che sento di fare io quando scrivo: dare forma a ciò che forma non ha, dare un senso a cose in cui si fatica a trovarlo.
Ci stanno espropriando del nostro campo d’azione. E mentre lo scrittore – stando alla mia visione della cosa – scrive per disvelare, o quanto meno cercare assieme al lettore una qualche verità, il creatore di leggende metropolitane fa il contrario, molto spesso, e questo è il grave, inconsapevolmente: seppellisce il Vero sotto una tale mole di Verosimile che poi è impossibile riuscire a capire dove sta la verità. E non parlo di verità in senso filosofico, ma di quella piccola conoscenza oggettiva che possiamo avere sulle cose del mondo.
Ora, tutto questo lungo e confuso discorso voleva condurre ad un semplice consiglio libresco: Sarà Vero, di Errico Buonanno. L’ho letto parte in ospedale, parte a casa. E l’ho trovato un libro necessario in questi tempi, oltre che, ça va sans dire, interessante e di piacevole lettura. Si analizzano proprio tutta una serie di bufale storiche, tra cui anche il famigerato Priorato di Sion, e questo ci riporta al nostro amico Dan Brown, che, nonostante fossero malamente contraffatte, prive del supporto di qualsivoglia prova, e pure smascherate, continuano a circolare, forti solo del proprio potere di affabulazione. Insomma, la Narrazione che vince sul Reale, ma di brutto. Si può dire: in fin dei conti, è un innocuo fantasticare. Eh no. Basti pensare ai Protocolli dei Savi di Sion, a quanta parte abbiano giocato nell’escalation dell’antisemitismo. Le storie sono roba potente, possono cambiare la Storia – è questa la conclusione dell’autore – e per questo vanno maneggiate con cura. Con consapevolezza, e torniamo allo spunto iniziale che ho colto nel post di G. L. Il che poi non vuol dire che solo certa gente, tipo gli scrittori, hanno diritto a raccontare. Ma che chi vuole farlo – e può farlo chiunque – deve essere consapevole che non sta solo raccontando una storia, la sta creando.
Insomma, io questo libro ve lo consiglio. Ci aiuta al pensiero critico, e si scoprono un sacco di cose che uno non immaginava (tipo, io non sapevo che l’antica cultura scozzese fosse una creazione così recente, e parlo proprio di un paio di secoli al più).

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Cesare taccio

In questi giorni di festa, tra una poppata e l’altra, ho anche cercato di interessarmi del mondo fuori dalla mia porta (mondo che fisicamente non sto frequentando molto da un mesetto circa, devo ammetterlo). E mi sono imbattuta nella polemica delle feste: questa. So che l’impresa è improba, ma la polemica non è tanto nel post, quando nei commenti, per cui vi invito a leggerli più o meno tutti.
Ora, G. L. ha ripreso la questione più volte sul suo blog, dicendo anche che tutto sommato era il caso che noi scrittori di genere accorressimo in massa a dare il nostro contributo, quanto meno per dimostrare che non siamo microcefali come ci si dipinge. Confesso che un po’ di sensi di colpa mi sono venuti. Ma confesso pure che più leggo quella discussione, più mi rendo conto che mi sento in imbarazzo ad infilarmici dentro.
Credo che si possa affermare con un certo grado di sicurezza che i miei libri siano monnezzoni. O meglio, che ci siano schiere di persone che li definirebbero così. Ora, non è che la cosa mi indigni più di tanto. Le accuse di Cortellessa non hanno niente di nuovo né di originale. Lo sappiamo tutti cosa la critica, e, diciamocelo, anche il pubblico generalista, pensa del fantasy. Non è una posizione particolarmente coraggiosa né così straordinariamente anticonformista affermare che il fantastico sia tout court monnezza, e che appartenga a quella deprecabilissima branca della scrittura definita “di intrattenimento”. Voglio dire, ho difficoltà persino con mia madre, che non è certo una persona mentalmente chiusa, e il fantastico le va giù abbastanza a fatica. Quindi, ho trovato innanzitutto piuttosto inutili le pose da titano di Cortellessa: il mondo è pieno di gente che la pensa come lui, senza neppure essere critico letterario e senza neppure avere uno straordinario bagaglio culturale, se è per questo. Per cui, il problema non è tanto questo tipo di critica.
Il problema è che mi rendo conto che esiste una branca intera del mondo letterario col quale non c’è alcuna possibilità di discussione. Non c’è perché manca letteralmente un terreno comune sul quale costruire le basi di una discussione.
Per esempio. Cortellessa dice che non solo le librerie sono invase da libri di genere, cosa con la quale potrei anche essere parzialmente d’accordo, per quanto mi pare che la Rowling abbia un’esposizione quanto meno pari, se non minore, a libri mainstream come quelli di Vespa, della Mazzantini o di Giordano. Per cui, se proprio vogliamo parlare di sovraesposizione, non sono i libri fantasy a monopolizzare le librerie, sono libri che, sono certa, Cortellessa definirebbe “commerciali”. No. Cortellessa dice che la critica è monopolizzata dai libri fantasy. Ma dove. Me lo sono perso? Quando è successo? No, perché magari un tg può anche parlare dell’uscita dell’ultimo libro della Mayer, ma non mi pare che ci critici facciano a gara a prodursi in esegesi di Harry Potter. Per carità, ripeto, magari me lo sono perso, al che, se qualcuno di voi ne ha notizia, vi prego, indicatemi dove posso recuperare una cosa del genere. Basterebbe comunque già questo a dimostrare che noi di genere, se mi è permesso parlare per la categoria intera, e la critica si vive proprio su piani di esistenza differenti, che portano a letture del reale contrapposte. Ma c’è di peggio.
Il peggio è innanzitutto il fatto che nella discussione emerga che per Cortellessa il fantasy non solo è consolatorio (e già qua avrei molto da ridire), ma è pure in qualche modo deleterio, diseducativo. L’equivalente letterario – no, scusate, non letterario, noi non siamo letteratura – l’equivalente su carta, ecco, dei cinepanettoni o del Grande Fratello. Noi anestetizziamo il cervello dei ragazzini, li rincoglioniamo, li allontaniamo dalla vera letteratura, che, per forza di cose, non diverte, è pesante e richiede al lettore uno sforzo di concentrazione sovrumana, che il povero lettore medio di fantasy proprio non è in grado di tollerare.
Ecco, questo mi fa incazzare. Perché tocca l’unica cosa sulla quale sono davvero suscettibile: la mia onestà intellettuale.
Io scrivo per divertire. Lo faccio perché sono convinta che leggere sia anche e anzi soprattutto un piacere, e per questo divertire con una storia non è consolare, è solo cercare vie più agevoli per veicolare dei messaggi. Non me ne frega una cippa di fare letteratura, né di entrare nei libri di testo a scuola fra cinquant’anni. Non mi frega neppure di insegnare qualcosa, ecco l’altro punto caldo. Cortellessa dice di voler insegnare agli altri la sua cultura, di volerli elevare al di sopra dei monnezzoni. Ecco. Io no. Perché non ho niente da insegnare. Ho da condividere, ho da imparare. Io voglio imparare coi miei lettori. Voglio con loro uno scambio, voglio gettare semi che poi ciascuno rielabori alla luce della propria esperienza di vita. E se questo non è letterario, ok, allora non faccio letteratura. Preferisco far questo. Ma non mi si venga a dire che una cosa del genere è diseducativa e spegne il cervello. C’è gente che mi scrive dicendo che ha scoperto la lettura coi miei libri, e non mi pare poco. Mi si può venire a dire, dopo averli letti – ecco altro punto dolente, Cortellessa s’è letto solo Tolkien o giù di lì, ma gli basta per bollare tutto il genere, e anche Tolkien non gli piace perché è stato cooptato in Italia dalla destra – che i miei libri non dicono niente, che mancano il bersaglio, che sono sciatti, mal scritti e quel che vuoi. Ma non puoi venirmi a dire che un intero genere è consolatorio e diseducativo, perché in quel genere c’è una costellazione di autori impossibile da ridurre all’unità. C’è un abisso di intenti, stile e riuscita tra Rowling e Le Guin, per dire. E chi dice che la Le Guin è consolatoria mente sapendo di mentire, o non l’ha mai letta. È consolatorio Dimitri, D’Andrea? È consolatorio lo Stroud de La Valle degli Eroi, che decostruisce il mito dall’interno, e con una storia assolutamente travolgente tesse un apologo attualissimo sulla libertà, sulle tradizioni che ci imprigionano, sulla fede cieca che ci ingabbia?
E anche sul fatto che la letteratura, per essere tale, deve essere impegnativa si potrebbe stare a disquisire da qui all’eternità. Io mi diverto a leggere l’Iliade, io mi diverto a leggere Dostoevskij. Un libro che non diverte, e non sto parlando della risata crassa da bambino che ripete cacca a ripetizione, ma di divertimento inteso come godimento intellettuale nel senso più lato possibile, è un libro fatto male, punto.
Insomma, alla fine i miei due cents li ho spesi. Bell’esempio di preterizione. Ma io queste cose non le dico da oggi. Le dico da quando ho iniziato a scrivere, le dico probabilmente da quando ho iniziato a riflettere sul mio essere lettrice. Ma tanto le dico a vuoto. Universi paralleli e intangibili, ecco. La sensazione finale, dopo 220 commenti sotto il post su Lipperatura, è di un gruppo di sordi che si parlano addosso. Non c’è punto di contatto possibile, quando la definizione stessa dell’argomento di discussione è diametralmente opposta.
G. L. dice che occorre insistere, che l’Accademia serve, quanto meno come muro da abbattere, come sfida da vincere. Il problema è che questa Accademia è un muro di gomma.

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Un sacco di cose

Sabato
Sabato ho fatto quella che con ogni probabilità sarà la mia ultima apparizione in pubblico, lo sapete. E sono stata a L’Aquila. Come avrete vagamente intuito dai post sulle mie vacanze dello scorso anno, sono piuttosto legata all’Abruzzo. È che è una terra così selvaggia e bella…Sì, i monti del Trentino sono straordinari, i panorami meravigliosi, ma devo dire che solo con la natura come ti puoi sentire sul Gran Sasso o in una semplice passeggiata di notte nel Parco Nazionale d’Abruzzo ti ci puoi sentire in pochi altri posti in cui sia stata.
Eppure, appena ho preso l’uscita l’Aquila ovest dell’autostrada ho realizzato che mancavo dalla città dalla bellezza di sei anni. Roba allucinante, considerando che quando c’ero stata mi ero innamorata, e avevo accarezzato l’idea di viverci, prima o poi.
Sono stata in una zona che non avevo mai visitato. Mentre scorrevano i cartelli (Collemaggio, Fontana delle 99 Cannelle) cercavo di sovrapporre i ricordi a quel che vedevo. E ho provato a non soffermarmi sulle crepe sui palazzi, sui muri sbrecciati, sulle finestre desolatamente buie la sera, quando sono andata via. Ne abbiamo avuta a pacchi di pornografia del terremoto, i nostri sguardi ormai non fanno altro che violare il privato di una città che avrà pure il diritto di andare avanti: senza dimenticare quel che è stato, ovviamente, ma anche senza restare intrappolata in certe definizioni da pessimo giornalista.
E sono approdata qui, presso il Campo Alenia Stazione gestito dai volontari di Nuova Acropoli. M’ha intristito pensare che era la prima presentazione che facevo in una città che tanto mi è cara. Voglio dire, sei anni per approdare qui, quando l’Aquila è stata per mesi a un’ora di macchina da casa mia, bella, fresca, intatta.
Devo dire la verità, è stata una delle presentazioni più piacevoli della mia vita. Un’esperienza intensa, stancante di certo, ma bella. La gente attenta, l’ambiente raccolto della tenda, e una certa aria di allegria. È che c’era un forte senso di comunità, come raramente ne ho percepiti. Gli spettatori non erano tutti ospiti del campo, ma si sentiva che per due ore siamo stati tutti uniti da qualcosa, persino io che lì non c’ero mai stata, e un’ora dopo avrei ripreso la via di Roma. E quel qualcosa che ci ha uniti non credo fossi tanto io. Sì, le mie storie di certo, ma non perché abbiano qualcosa di particolare, siano più potenti di altre o cose. Credo che ad unirci fosse una comune ricerca. Un bisogno di stare assieme nonostante tutto. E di comunicarsi qualcosa. Come se ad un tratto quel che dico sempre, che scrivere è partecipare con la propria, misera tessera, al mosaico della vita, fosse diventato più vero, tangibile. E se per me è stata un’esperienza di due ore, mi sono accorta che per gli Aquilani è ormai diventato un modo di essere, da sei mesi a questa parte, l’unica cosa che ti salva. Quando ognuno di noi ha poco, l’unica è mettere assieme quel poco, e se le domande sono soverchianti per il singolo, possono essere affrontate dalla collettività. È questo il senso del vivere assieme, il motivo che ha spinto gli uomini a raggrupparsi, in villaggi, paesi, città, metropoli. Un senso che col tempo abbiamo perso.
M’è piaciuta l’allegria dei volontari e del pubblico, m’è piaciuto sentire quell’accento che alle mie orecchie meridionali appare sempre un po’ simile a quello campano. E stamattina, pensando a quel che avrei scritto oggi, ho pensato che in fin dei conti sono andata fin lì ad imparare qualcosa. Molte cose. Tra cui una che avevo scritto tanti anni fa. Che la speranza non è una cosa data, che c’è o non c’è. Non esistono situazioni in cui è possibile trovarne e situazioni in cui non esiste. La speranza è una cosa che ci diamo, il più grande dei doni che possiamo farci. Va costruita, ricercata con pervicacia, creata. Siamo noi la nostra speranza. E quando, tra le domande che mi sono state fatte, mi hanno chiesto cos’è il coraggio, questo avrei dovuto rispondere: che il coraggio sono un gruppo di volontari che tirano su un campo nel quale non dimenticare chi siamo e cosa ci fa vivere, che dal nulla creano una biblioteca per chi ha perso tutto, che dalla propria casa pericolante va a salvare i libri, che senza un tetto sulla testa è capace di ridere, di rimboccarsi le maniche, di lavorare per la comunità, e che pensa a quando tutto sarà tornato alla normalità, e non sta lì ad attendere che semplicemente accada, ma fa di tutto perché quel domani si realizzi, e al più presto. E mi sono sentita, e mi sento ancora, così piccola, fragile e stupida, con la mia cronica incapacità di non piagnucolare per ogni cosa, di non piangermi addosso ad ogni difficoltà.
È stato bello, bellissimo.
E, per altro, è stata anche la prima volta che qualcuno che non fosse amico o parente, ha fatto un regalo alla pesciolina. Lo vedete nella foto qua sotto. Con l’augurio che anche lei sappia sempre rimboccarsi le maniche, e dotarsi di quella forza che ogni tanto a me difetta, ma che cercherò con tutta me stessa di insegnarle.

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Basita
Sono basita. Che poi, da molti mesi a questa parte, è il mio stato perenne di fronte a certi eventi che accadono in ‘sto paese. Quel che mi basisce è la seguente notizia: per riassumere, Loredana Lipperini è stata denunciata per una recensione. Esatto. Una recensione ad un libro. La scusa la solita: diffamazione. Leggetevi la recensione. E ditemi dove sta la diffamazione. Ma tanto ormai sappiamo come funziona. I nostri politici in questo hanno fatto scuola: non sei allineato sul pensiero unico? Ti blocco querelandoti. Chissenefrega se vinco o perdo. Chissenefrega se hai detto il falso o il vero. Intanto ti ho chiuso la bocca. E comunque, quando ti assolveranno, avrai al massimo diritto a mezza riga in quarantesima pagina sul giornale locale. Un gioco a rischio zero che ci sta imbavagliando tutti, ma proprio tutti.
Io direi che a questo punto dovremmo leggerci in massa la recensione e Navi a Perdere, che per altro ho letto anch’io l’anno scorso, trovandolo avvincente e illuminante.

Ma un tempo il panico non andava evitato?
Stamattina, durante la mia parca colazione (no, calma, stamane ho avuto diritto al miele, le altre mattine solo gallette di riso :P ), leggo questo. Certo. Ormai hanno munto la pandemia oltre ogni possibile limite. Manca ormai solo che la gente ti ammazzi in strada per uno starnuto (in effetti l’altro giorno non mi sentivo tanto sicura sulla metro con la tosse…). Si può passare alla seconda psicosi annuale: l’influenza stagionale fine di mondo. Che ogni anno dovrebbe ucciderci a pacchi ma poi, non si capisce perché, non lo fa. Mah.
Ora, non sono un medico. Ma scoprire che l’OMS ha tolto la dicitura “malattia che causa un enorme numero di malati e morti” dalla definizione di pandemia per poter dichiarare lo stato d’emergenza di quest’anno (qui e qui i documenti a confronto), uno qualche domanda se la fa. Poi esce fuori che i tassi di mortalità sono paragonabili a quelli dell’influenza solita, e che addirittura il virus avrebbe circolato già nel ’97 e nel ’77 (ma non era nuovo?) e le domande si fanno sempre più inquietanti.
Evitare le infezioni è cosa buona e giusta. Avere piani per fronteggiare improvvise emergenze sanitarie è sacrosanto, così come preoccuparsi delle ricadute sociali di malattie fortemente contagiose. Ma giocare a spaventare la gente, no. Perché poi finisce che si fa sterilizzare un palazzo solo per evitare che gli abitanti ti lincino. Ma tanto ormai la strategia è quella: terre et impera, spaventa e comanda. Un gioco sempre molto efficace, ma condotto sul filo del rasoio. La paura, una volta scatenata, non si può più fermare.

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Elogio del web 2.0

Come un po’ tutti, io uso tantissimo internet. Intanto per lavoro, poi mi svuota la mente nei momenti di relax come nient’altro al mondo. A saper cercare è pieno di contenuti interessanti, ed è ormai l’unico posto dove sia palpabile un po’ di dissenso, dove passano certe notizie che i media generalisti tacciono, e via così.
Non ho invece una buona opinione del web 2.0, e comunque di tutti i fenomeni aggregativi che si vedono in giro per la rete. Cerco di spiegarmi. I blog sono cosa buona e giusta, i forum pure, e così tutte le altre espressioni del web che hanno come scopo la discussione e la produzione creativa degli utenti. È che in genere gli utenti ne fanno un uso sconsiderato. L’anonimato sta ammazzando internet alla velocità del lampo; invece di considerare come un’opportunità di confronto la facilità con cui sul web si può comunicare con chiunque, una larga fetta degli utenti usa blog et similia per prendersi soddisfazioni che in real life sono precluse. Sei anonimo, quindi puoi dire un po’ quel cazzo che ti pare a chi vuoi. Ecco allora i troll più o meno fastidiosi e più o meno intelligenti (in genere assai poco, mi duole dirlo), la creazione di conventicole di utenti che se la cantano e se la suonano, ridicolmente chiusi rispetto agli apporti dall’esterno, i blog che si trasformano in piccoli podi da cui il blogger pontifica verso una folla plaudente. Non è raro trovare persone che nei forum si esprimono in un modo, e nei blog in tutt’altra maniera, magari sullo stesso argomento, solo perché sul blog sono a casa, protetti dalla loro claque personale.
Ma vabbeh. Non è internet che è brutto, è la gente che in media è parecchio meschina.
Per quel che riguarda Facebook, siamo più o meno tutti d’accordo che è il regno della perdita di tempo. Piacevole, eh? Ma pur sempre perdita di tempo. La mia home è sempre intasata di risultati dei quiz degli utenti, quiz che poi faccio anch’io (in genere senza pubblicare i risultati, onde evitare di aumentare il rumore di fondo). Certo, è utile per mantenere i contatti con gli amici lontani; in effetti, a parte pochi casi, in genere tendo ad accettare amicizia solo da chi effettivamente conosco. Però, insomma, tutto sommato sembra una cosa abbastanza innocua. Invece mi sono accorta che può essere uno strumento potente.
Il primo segnale l’ho avuto la notte del terremoto a L’Aquila. Mentre i giornali online c’hanno messo un’ora buona per iniziare a dare non dico le prime informazioni, ma proprio la notizia, su Facebook eravamo tutti svegli a cercare di capire. Potevi tracciare la mappa del sisma seguendo i profili degli utenti che ne parlavano.
Questa volta è successo con la tragedia di Viareggio. C’è chi tiene continuamente aggiornato il proprio stato con le notizie dal luogo del disastro, chi posta le proprie impressioni. E in realtà lo stesso sta accadendo ancora anche con l’Abruzzo. Se vuoi sapere davvero come vanno le cose nelle tendopoli, non leggi i giornali, leggi i blog di chi ci vive. E anche la rivolta in Iran si tiene viva sulla rete, superando le maglie dei controlli. Senza più giornalisti in loco, è sui blog che si cercano notizie e nei twitter.
Non che questo possa soffocare i mezzi di comunicazione usuali; ma è sicuramente un altro canale di cui tener conto. La notizia dal basso: imperfetta, emotiva, ma per questo preziosa. Come centinaia di interviste in loco senza bisogno di alcun intervistatore.
Ho pensato allora che il web è davvero pieno di potenzialità, per la maggior parte purtroppo inespresse. Non credo si potrà mai cambiare il mondo dal web; chi lo usa in un certo modo è ancora una minoranza, e non tutti hanno le competenze tali da permettere di scremare la spazzatura da quel che invece è vera informazione (vedi la diffusione straordinaria di catene di Sant’Antonio di vario genere, da Bill Gates che ti regala 500 dollari per ogni mail inoltrata ad un amico al più classico “inoltra questo messaggio a venti amici o ti succederanno inenarrabili sventure”). Però di certo è diventato la voce di un certo dissenso, che non trova altre vie di espressione e dunque si sfoga online. È sul web che si alzano voci di protesta verso il premier e il suo comportamento verso i cittadini, è sul web che si discute della posizione della donna nella nostra società, è sul web che circolano le notizie che i telegiornali schivano.
Il web è uno strumento potente. Troppo potente per seppellirlo sotto la marea di inutile chiacchiericcio diffuso che domina al momento.

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Peter Pan Syndrome

Da qualche giorno sono preda del sonno e di uno scazzo devastante. Un po’ credo c’entri l’ora legale, che detesto da quando ero alta così (mimare un’altezza inferiore al mezzo metro), un po’ la primavera (o dovrei dire estate, a Roma fa veramente caldo da un paio di giorni a questa parte), un po’ non lo so. Però non ho voglia di fare niente. Persino mettermi a scrivere, la sera, mi costa un pochino di fatica, perché la voglia di giacere a quattro di spade sul divano è veramente prepotente.
In condizioni tali, è ovvio che il richiamo di qualsiasi attività attinente all’area semantica delle palesi cazzate esercita su di me un potere ammaliatore. Leggi: mi perdo facilmente in cose il cui senso nel creato è completamente incomprensibile. Tipo i test di Facebook.
Ora, sostanzialmente Facebook a me serve per restare in contatto con gli amici e per ripescare dal cilindro gente che non vedo da dieci anni e passa. Può sembrare un po’ triste, ma certe cose le scopro prima su Facebook e poi live al telefono.
Ma Facebook ha anche un lato oscuro della forza: i test. Ce ne sono a frotte. A quintalate. A miliardi. Io vorrei conoscere la gente che se li inventa. Che libro sei? Che cavaliere dei Cavalieri dello Zodiaco sei? E il nome di tuo figlio?
Li sto facendo tutti. È una specie di gorgo. Pausa caffè a lavoro. Ok, vengo subito. Prima però occhio alla rete. E paffete, mi ritrovo a cercare di scoprire quale senso sono. Breve pausa durante la riduzione dati. Ideale per scoprire quale carta dei tarocchi sei. Mi preparo a scrivere. Ma prima provo a scoprire quale mollusco mi assomigli di più.
Ho un’insana passione per i test. Fin da quand’ero alta così (mimare di nuovo il gesto di cui prima). Per quanto sappia che sono tutte cazzate, che sono cose ridicole e non servono a niente, poche cose mi rilassano come mettere crocette a domande improbabili tipo “Come immagini la tua vita futura? a. in crociera eterna intorno al mondo; b. in una capanna in cima all’Everest; c. in una casa in fondo al mare”. Credo di avere da sempre un’attrazione per tutto ciò che odora anche solo vagamente di cazzata. Per qualsiasi cosa che mi permetta di sentirmi bambina ancora un po’, per darmi l’illusione che non sono una persona seria e mai lo sarò. Se non nelle cose davvero serie, ovvio. Ma la vita è una cosa troppo importante per prenderla eccessivamente sul serioso. Chissà, forse ho solo la sindrome di Peter Pan.

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Maschere

Ieri avevo scritto un post di cui ero davvero orgogliosa. Mi ero divertita un fracco, mi sembrava interessante e ben fatto, e l’avevo programmato per le nove di stamattina. Parlava della strategia del terrore, di come la paura venga usata a fini politici. Sì, ok, niente di nuovo sotto il sole, è un tema che ho già trattato molte altre volte, ma, non so, stavolta mi convinceva di più. Poi però è successa questa cosa dell’India, e, come dire, mi è sembrato inopportuno. E l’ho congelato. Ora giace nel limbo dei post salvati, e non so se e quando lo pubblicherò.
Sono quattro anni che ho un blog. Quando l’ho aperto avevo un bisogno fisico e impellente di scrivere. Avevo post scritti in testa per riempire mesi e mesi di blog. Se rileggo adesso quella roba stento a riconoscermi, e non capisco come potessi trovarli persino belli, interessanti. Poi i miei libri hanno venduto tanto, ed è comparso questo specie di muro tra me e questo posto. Quando entro qua dentro e inizio a scrivere la mia parte scrittrice prende il sopravvento sulla mia parte umana, e quel che dico non è più quel che io nella mia interezza sento, ma quel che Licia Troisi autrice de Le Cronache del Mondo Emerso filtra, e scrive.
Credo sia questa la cosa più strana e fastidiosa del successo. Che costruisce maschere. Finisci per vederti così tanto negli occhi di chi ti legge, di chi ti ama, che ti sdoppi. E comprendi perfettamente che c’è un tuo io pubblico, e un tuo io privato. Questo accade anche a chi non scrive o non è famoso. Ce lo ha insegnato Pirandello un sacco di tempo fa. Ma quando così tanta gente crede alla tua maschera, quando così tante persone ti costruiscono addosso questo alterego, allora l’avatar finisce per diventare qualcosa di terribilmente tangibile, di vivo e vero.
Perché non sono io che mostro la parte più piacevole di me in pubblico. È la gente che decide, tutta assieme, di guardare in me il riflesso di ciò che ha provato quando mi ha letta. Sono gli altri che mi costruiscono, che mi vedono per quel che forse non sono.
E questo si riflette su questo posto. A parte quando parlo di politica o del mondo (e lì l’io pubblico e quello privato si danno allegramente la mano), quando scendo nel privato mi sento improvvisamente fuori posto. Proprio perché la gente costruisce la mia maschera, più stringente diventa il bisogno di celare qualcosa agli occhi del pubblico. E non perché sia vergognoso, o dia di me un’immagine che non mi piace. Semplicemente perché è intimo. Ci sono cose importanti, belle e brutte, che mi sono successe e che non ho mai scritto qui sopra. Cose da cui esco pian piano solo ora (e dio voglia che se ne possa uscire definitivamente, prima o poi) che mi hanno cambiata, che hanno radicalmente modificato il mio modo di percepire le persone che amo, ma che non trovano posto in questo blog. E più passa il tempo più il novero delle cose di cui mi sento di parlare qui sopra si riduce. Non sono neppure riuscita a raccontare davvero i tre giorni coi miei amici, o il mio compleanno. Perché in un mondo che reclama le mia storie e la mia vita, che a volte sembra succhiarmi via linfa vitale, io ho bisogno di tenere delle cose per me.
Ora, cosa tutto questo voglia dire non lo so. Non sto scrivendo l’epitaffio di questo posto, che continuo ad amare troppo per poterlo abbandonare, ma sto solo seguendo il cambiamento. E forse sono un po’ influenzata anche dalla visione di Dexter, che altro non è che un lunghissimo discorso sulle maschere e sull’identità, che ci invita a interrogarci su chi siamo, su quanto possiamo agire su quel che siamo e su come dobbiamo rapportarci con i costumi che la gente ci cuce addosso. Alla fine Dexter È ciò che gli altri vogliono. Così abituato a fingere, a dissimulare, resta al suo posto e sopravvive non per reale amore per la vita, ma per gli altri, per quel che Rita, Deb e gli altri vedono in lui. E so già che alla fine ci sarà identità perfetta tra la sua immagine, faticosamente costruita, e il suo io. Perché a volte fingere è essere.
Ecco. Per me non sarà mai così. Ci saranno sempre luoghi oscuri a me sola noti, in cui potranno entrare poche persone, le sole cui tenga veramente, perché la mia faccia la mostro solo a chi amo.

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