Sabato
Sabato ho fatto quella che con ogni probabilità sarà la mia ultima apparizione in pubblico, lo sapete. E sono stata a L’Aquila. Come avrete vagamente intuito dai post sulle mie vacanze dello scorso anno, sono piuttosto legata all’Abruzzo. È che è una terra così selvaggia e bella…Sì, i monti del Trentino sono straordinari, i panorami meravigliosi, ma devo dire che solo con la natura come ti puoi sentire sul Gran Sasso o in una semplice passeggiata di notte nel Parco Nazionale d’Abruzzo ti ci puoi sentire in pochi altri posti in cui sia stata.
Eppure, appena ho preso l’uscita l’Aquila ovest dell’autostrada ho realizzato che mancavo dalla città dalla bellezza di sei anni. Roba allucinante, considerando che quando c’ero stata mi ero innamorata, e avevo accarezzato l’idea di viverci, prima o poi.
Sono stata in una zona che non avevo mai visitato. Mentre scorrevano i cartelli (Collemaggio, Fontana delle 99 Cannelle) cercavo di sovrapporre i ricordi a quel che vedevo. E ho provato a non soffermarmi sulle crepe sui palazzi, sui muri sbrecciati, sulle finestre desolatamente buie la sera, quando sono andata via. Ne abbiamo avuta a pacchi di pornografia del terremoto, i nostri sguardi ormai non fanno altro che violare il privato di una città che avrà pure il diritto di andare avanti: senza dimenticare quel che è stato, ovviamente, ma anche senza restare intrappolata in certe definizioni da pessimo giornalista.
E sono approdata qui, presso il Campo Alenia Stazione gestito dai volontari di Nuova Acropoli. M’ha intristito pensare che era la prima presentazione che facevo in una città che tanto mi è cara. Voglio dire, sei anni per approdare qui, quando l’Aquila è stata per mesi a un’ora di macchina da casa mia, bella, fresca, intatta.
Devo dire la verità, è stata una delle presentazioni più piacevoli della mia vita. Un’esperienza intensa, stancante di certo, ma bella. La gente attenta, l’ambiente raccolto della tenda, e una certa aria di allegria. È che c’era un forte senso di comunità, come raramente ne ho percepiti. Gli spettatori non erano tutti ospiti del campo, ma si sentiva che per due ore siamo stati tutti uniti da qualcosa, persino io che lì non c’ero mai stata, e un’ora dopo avrei ripreso la via di Roma. E quel qualcosa che ci ha uniti non credo fossi tanto io. Sì, le mie storie di certo, ma non perché abbiano qualcosa di particolare, siano più potenti di altre o cose. Credo che ad unirci fosse una comune ricerca. Un bisogno di stare assieme nonostante tutto. E di comunicarsi qualcosa. Come se ad un tratto quel che dico sempre, che scrivere è partecipare con la propria, misera tessera, al mosaico della vita, fosse diventato più vero, tangibile. E se per me è stata un’esperienza di due ore, mi sono accorta che per gli Aquilani è ormai diventato un modo di essere, da sei mesi a questa parte, l’unica cosa che ti salva. Quando ognuno di noi ha poco, l’unica è mettere assieme quel poco, e se le domande sono soverchianti per il singolo, possono essere affrontate dalla collettività. È questo il senso del vivere assieme, il motivo che ha spinto gli uomini a raggrupparsi, in villaggi, paesi, città, metropoli. Un senso che col tempo abbiamo perso.
M’è piaciuta l’allegria dei volontari e del pubblico, m’è piaciuto sentire quell’accento che alle mie orecchie meridionali appare sempre un po’ simile a quello campano. E stamattina, pensando a quel che avrei scritto oggi, ho pensato che in fin dei conti sono andata fin lì ad imparare qualcosa. Molte cose. Tra cui una che avevo scritto tanti anni fa. Che la speranza non è una cosa data, che c’è o non c’è. Non esistono situazioni in cui è possibile trovarne e situazioni in cui non esiste. La speranza è una cosa che ci diamo, il più grande dei doni che possiamo farci. Va costruita, ricercata con pervicacia, creata. Siamo noi la nostra speranza. E quando, tra le domande che mi sono state fatte, mi hanno chiesto cos’è il coraggio, questo avrei dovuto rispondere: che il coraggio sono un gruppo di volontari che tirano su un campo nel quale non dimenticare chi siamo e cosa ci fa vivere, che dal nulla creano una biblioteca per chi ha perso tutto, che dalla propria casa pericolante va a salvare i libri, che senza un tetto sulla testa è capace di ridere, di rimboccarsi le maniche, di lavorare per la comunità, e che pensa a quando tutto sarà tornato alla normalità, e non sta lì ad attendere che semplicemente accada, ma fa di tutto perché quel domani si realizzi, e al più presto. E mi sono sentita, e mi sento ancora, così piccola, fragile e stupida, con la mia cronica incapacità di non piagnucolare per ogni cosa, di non piangermi addosso ad ogni difficoltà.
È stato bello, bellissimo.
E, per altro, è stata anche la prima volta che qualcuno che non fosse amico o parente, ha fatto un regalo alla pesciolina. Lo vedete nella foto qua sotto. Con l’augurio che anche lei sappia sempre rimboccarsi le maniche, e dotarsi di quella forza che ogni tanto a me difetta, ma che cercherò con tutta me stessa di insegnarle.
Basita
Sono basita. Che poi, da molti mesi a questa parte, è il mio stato perenne di fronte a certi eventi che accadono in ‘sto paese. Quel che mi basisce è la seguente notizia: per riassumere, Loredana Lipperini è stata denunciata per una recensione. Esatto. Una recensione ad un libro. La scusa la solita: diffamazione. Leggetevi la recensione. E ditemi dove sta la diffamazione. Ma tanto ormai sappiamo come funziona. I nostri politici in questo hanno fatto scuola: non sei allineato sul pensiero unico? Ti blocco querelandoti. Chissenefrega se vinco o perdo. Chissenefrega se hai detto il falso o il vero. Intanto ti ho chiuso la bocca. E comunque, quando ti assolveranno, avrai al massimo diritto a mezza riga in quarantesima pagina sul giornale locale. Un gioco a rischio zero che ci sta imbavagliando tutti, ma proprio tutti.
Io direi che a questo punto dovremmo leggerci in massa la recensione e Navi a Perdere, che per altro ho letto anch’io l’anno scorso, trovandolo avvincente e illuminante.
Ma un tempo il panico non andava evitato?
Stamattina, durante la mia parca colazione (no, calma, stamane ho avuto diritto al miele, le altre mattine solo gallette di riso
), leggo questo. Certo. Ormai hanno munto la pandemia oltre ogni possibile limite. Manca ormai solo che la gente ti ammazzi in strada per uno starnuto (in effetti l’altro giorno non mi sentivo tanto sicura sulla metro con la tosse…). Si può passare alla seconda psicosi annuale: l’influenza stagionale fine di mondo. Che ogni anno dovrebbe ucciderci a pacchi ma poi, non si capisce perché, non lo fa. Mah.
Ora, non sono un medico. Ma scoprire che l’OMS ha tolto la dicitura “malattia che causa un enorme numero di malati e morti” dalla definizione di pandemia per poter dichiarare lo stato d’emergenza di quest’anno (qui e qui i documenti a confronto), uno qualche domanda se la fa. Poi esce fuori che i tassi di mortalità sono paragonabili a quelli dell’influenza solita, e che addirittura il virus avrebbe circolato già nel ’97 e nel ’77 (ma non era nuovo?) e le domande si fanno sempre più inquietanti.
Evitare le infezioni è cosa buona e giusta. Avere piani per fronteggiare improvvise emergenze sanitarie è sacrosanto, così come preoccuparsi delle ricadute sociali di malattie fortemente contagiose. Ma giocare a spaventare la gente, no. Perché poi finisce che si fa sterilizzare un palazzo solo per evitare che gli abitanti ti lincino. Ma tanto ormai la strategia è quella: terre et impera, spaventa e comanda. Un gioco sempre molto efficace, ma condotto sul filo del rasoio. La paura, una volta scatenata, non si può più fermare.