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Terra Moscia

Ieri, con un ritardo di un paio di giorni, mi sono vista la quarta puntata di Terra Nova. Parliamo subito degli aspetti positivi: faccio un sacco di esercizio con l’inglese. Sì, perché ci sono attori americani, attori inglesi, tanti accenti…Fossi un insegnante di inglese lo farei vedere in classe. E poi…e poi basta. Fine aspetti positivi.
È che questa quarta puntata è stata davvero brutta, sotto molteplici punti di vista. Il problema è che, visto che siamo ancora alle battute iniziali, uno si aspetterebbe una tensione alta, e un bel po’ di riferimenti alla mitologia della serie. Invece niente, siamo già alla minestra riscaldata. La puntata sostanzialmente ricalca la precedente: se si sostituisce il virus misterioso con la pappa ai feromoni otteniamo la 1×03. Pensateci. La struttura e le tematiche sono identiche: problema, dottoressa + amichetto di vecchia data che collaborano, marito geloso, colpo di genio che porta alla risoluzione del tutto. Con l’aggravante che anche qua i personaggi iniziano a fare cose assurde: per esempio, Elisabeth nota subito che Jim non sta male, ma si dimentica la cosa per tutto il resto della puntata, salvo ricordarsene alla fine. Vogliamo dire che era rincoglionita dal morbo? Insomma, visto che lavora sul vaccino con un certo successo. E magari il marito potrebbe anche farle notare che tirargli un po’ di sangue e capire perché lui non si ammala è un buon punto di partenza. Comunque, qui il problema è più profondo: la serie non capisce quali sono i suoi punti di forza, e continua a concentrarsi sugli aspetti meno interessanti del tutto. Innanzitutto, qualcuno mi spieghi a cosa servono i dinosauri. Ho capito che se ne va un milione di dollari ogni volta che un dinosauro entra di striscio nell’inquadratura, ma se non puoi permetterteli, be’, non ce li metti. Misfits è tutta fatta con due lire, con effetti speciali risibili, ma è quanto di meglio abbia visto nell’ultimo anno. Se decidi invece di metterci i dinosauri, me li devi sfruttare. Perché, diciamoci la verità, la gente ha iniziato a vedere Terra Nova per quello: si aspettava qualcosa stile Jurassic Park, si aspettava tensione, casini a non finire. Invece sulla terra di Terra Nova – perdonate il bisticcio – ci sono meno dinosauri di quelli che c’erano sull’isola di Jurassic Park, e quelli che ci sono o sono dei rincoglioniti o sono innocui. Pensate agli ovosauri che, dovendo scegliere tra una leccata di nichel e un marines pronto a essere divorato, preferiscono…il nichel. Ci fosse mai un tentativo da parte di un carnosauro di sfondare la barriera di Terra Nova. Anche quando i nostri escono dal perimetro sembra che la cosa che li spaventi di più siano i Sixties. Allora, ripeto, non ce li mettere, i dinosauri. In ogni caso, l’ambientazione non è sfruttata per niente. Per dire, siamo nella terra di 85 milioni di anni fa, un posto molto diverso da oggi, che, si suppone, pulluli di virus con cui l’uomo non è entrato mai in contatto. Quindi, se proprio vogliamo parlare della malattia misteriosa, il topos dei topoi degli stereotipi della fantascienza, basta che mi fai starnutire un dinosauro vicino ad un uomo. Voilà la malattia. E invece no. Ci dobbiamo inventare il centro di ricerche che conduce esperimenti illegali sul DNA. Non si capisce poi perché siano illegali, visto che il tizio che li conduceva stava cercando una cura per una specie di Alzheimer. Cos’è, a Terra Nova per legge occorre schiattare per il morbo di Gordon o come cappero si chiama?
Infine, a fronte di spettatori che vogliono sapere cos’ha fatto Taylor nei mesi in cui è stato solo su Terra Nova, che fine ha fatto suo figlio, chi sono i Sixties e cosa sono soprattutto i geroglifici, gli autori perdono tempo intorno al triangolo più telefonato della storia. Non ce ne frega niente di Jim geloso, non ce ne frega niente che la moglie non si ricordi di lui e dei figli. E l’inglese deve morire male, malissimo, perché è il personaggio più irritante del mazzo, e ce ne vuole, perché sono più o meno tutti insopportabili. Taccio su Josh e Skyes, davanti alla scena del bacio Giuliano ha invocato l’arrivo di un tirannosauro. E come dargli torto…
Patetici, infine, i tentativi di richiamare Lost. A parte l’idea di partenza e alcuni particolari simili – pochi umani in un contesto alieno, gli Others/i Sixties, i mostri nella jungla – stavolta hanno cercato di rifare la hatch. Con risultati patetici. Lost è passato, e non tornerà mai più. È stato sicuramente un momento importante nella storia della televisione, ma per fare Lost ci vogliono molte idee, bravi sceneggiatori, ottimi attori e anche una faccia di bronzo non indifferente. Qui manca tutto: gli sceneggiatori lavorano al minimo sindacale, non si vede un’idea neppure a pagarla e gli attori…a parte Stephen Lang è la fiera del basito, soprattutto per quel che riguarda Josh e Jim. Che poi anche sul casting avrei da ridire. Tutti bellissimi. Anche Maddy, che dovrebbe essere la secchiona complessata del mazzo, è una stocco di ragazza che buttala. Ok, anche in Lost erano tutti fighi, ma c’era anche gente normale, che andava in giro per altro sbattuta, zozza e senza trucco. A Terra Nova, invece, è tutto pulito, lindo e perfetto.
Insomma, altro buco nell’acqua. Inizio a credere che la grande stagione dei telefilm americani si stia avviando al tramonto. Qualche anno fa avevi l’imbarazzo della scelta su cosa seguire: c’era Lost, c’era House, c’era Dexter, c’era Californication, Carnivale e via così. Adesso, a parte i sopravvissuti di quel periodo, io vedo il deserto creativo. Idee vecchie riciclate. Mentre invece sul fronte europeo le cose sembrano migliorare (anche se in effetti Borgia l’ha fatto Tom Fontana, che è americano, ma il resto, a partire dalla produzione, è europeo).
Credo che continuerò in ogni caso per qualche puntata. Innanzitutto per l’esercizio con l’inglese, e poi perché ho bisogno di qualcosa che mi sgombri la mente, di sera, e in mancanza d’altro…Ma andiamo male, molto male.

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Sponsorizzato dal Family Day

Mi riferisco a Falling Skies e Terranova, il primo appena finito, il secondo appena iniziato. Ebbene, i punti di contatto sono molti, a partire da Spielberg che produce entrambi, ma il più evidente è che la famiglia è al centro di tutto. È un male in assoluto? No, certo. Anche Borgia parla di famiglia, ma lì siamo proprio su un altro pianeta. La cosa è un male se si decide di parlarne nel modo più becero possibile. Anyway, passiamo alle mie opinioni su questi due telefilm.

Falling Skies
Avete presente la vecchia pubblicità dello Jägermeister, quella di Degan prima che si desse ai conigli spellati spacciati per feti alieni? Era celebre per la frase “Bevo Jägermeister perché…perché…non so perché”. Ecco, io non so perché ho visto fino in fondo la prima stagione di questo telefilm. Avevo subodorato la moscezza complessiva del tutto fin dal primo episodio, ma ho insistito per tutte e dieci le puntate. Comunque, è un dato di fatto, l’ho visto tutto. Evidentemente, al di là di ogni altra considerazione, si fa vedere.
Comunque. Falling Skies non è brutto. A parte il fatto che, come al solito, i personaggi agiscono in modi assurdi quando si tratta di mantenere quel minimo sindacale di suspance sulla trama (avete due ragazzini che sono stati con gli Skitter un sacco di tempo e non gli fate manco una domanda al riguardo, neppure quando vi offrono la possibilità su un piatto d’argento, tipo quando Rick accenna al fatto che gli Skitter hanno un piano) non si può dire che sia scritta veramente male, e gli effetti speciali non sono male. Ok, la storia è vista e rivista, ma questo non è necessariamente un problema. No, il fatto è che Falling Skies ha il terrore di osare. Vuole, fortissimamente vuole essere un prodotto medio, senza una sorpresa che sia una, senza uno slancio. È un treno lanciato su un paio di binari dritti e senza attrito: procede in linea retta inanellando una quantità di stereotipi da far spavento. C’è veramente tutto, pare un film di Emmerich senza le catastrofi. C’è il padre costretto a far l’eroe, che fa sempre la cosa giusta, il figlio adolescente scapestrato, il bambino traumatizzato, il militare stronzo, il medico saggio, quella che si affida alla fede, pure la donna incinta. E non c’è alcuno sforzo di indagare dietro lo stereotipo. No, ognuno fa quel che deve, ognuno aderisce graniticamente all’etichetta che ha scritta in fronte. Se sono il buon padre, non farò mai una cazzata. Se sono il guascone un po’ stronzo e un po’ simpatico non scantonerò mai nella bastardaggine pura. Va da sé che di fronte a personaggi del genere il coinvolgimento dello spettatore è meno di zero. L’unico istinto che ho provato durante la visione era il desiderio viscerale che Lourdes, con la sua fede plastificata da predicozzo à la Settimo Cielo, morisse malissimo. Spoiler: non lo fa. Per il resto, non sono mai stata coinvolta nelle vicende dei nostri. Va aggiunto che nonostante l’ambientazione postapocalittica la tensione narrativa è zero. Non c’è angoscia, non c’è sensazione di pericolo. Le scene di azione sono noiose e tirate oltre il limite di sopportazione, le interazioni tra i personaggi assolutamente banali. E poi ci sono buoni sentimenti a pacchi. Ripeto, nessuno di questi elementi preso da solo sarebbe un problema: è l’averli messi tutti assieme e averli cuciti con una regia incolore, una scrittura scontata e una serie di interpretazioni appena passabili a rendere il tutto indigesto. Già La Guerra dei Mondi aveva sviscerato (male) il tema “padre con figli in mezzo alla fine del mondo”, e davvero non si sentiva il bisogno dell’ennesimo compitino sull’esaltazione della genitorialità. A breve scriverò un lungo post incazzato su questa santificazione della maternità (o demonizzazione dell’esperienza, a seconda dei contesti) che gira di questi tempi peggio dell’influenza. Comunque, sforzandosi con l’ernia, su 12 puntate gli sceneggiatori sono riusciti a partorire due (2) idee, una delle quali in finale di stagione, tanto per metterci un cliffhanger che tiri la visione della seconda. Io me la vedrò? Mah, tutto sommato penso di no.

Terranova
Terranova parte abbastanza bene, con un dispiego di mezzi che mi fa temere che il resto sarà fatto con due lire. Il mondo prossimo al collasso ha il suo perché, i dialoghi sono quel filo più credibile di Falling Skies. Poi, vabbeh, presto cominciano le dolenti note. Che sono le stesse di Falling Skies. Ancora la famiglia, e che palle. Padre, madre e due virgola cinque figli, per citare il John dei Simpson. All’inizio ho sperato che almeno il padre ce lo giocassimo. Purtroppo no, ed è uno dei personaggi più irritanti del mazzo. Lo schema è sempre il solito: padre eroico, adolescente problematico con daddy issues (mannaggia a Lost che ha spinto il format ai suoi estremi…), Lisa Simpson, bambina. In più c’è la madre, che in Falling Skies mancava. Ora, rimanendo alle prime tre puntate, nel complesso mi sembra che la scrittura sia migliore di quella di Falling Skies, e il contesto in generale più interessante, anche se non inedito. Soliti problemi di trama (ragazzini che escono fuori dal perimetro per bere senza sapere una cavolo di dinosauri e in generale di come sopravvivere fuori? E non sono mai morti? Ferormoni sintetizzati con le mani, suppongo, vista l’assenza di fabbriche acconce all’uopo?), ma la storia dei geroglifici attira, così come i velati riferimenti fatti ad essi dai vari personaggi. Ma proprio come Falling Skies, anche questo prodotto sembra pervicacemente essere “medio”: un po’ di sangue, ma non troppo, un po’ d’azione, ma non troppa, e che nessuno si azzardi a toccare il sacro stereotipo della famiglia, mi raccomando. E poi stavolta le interpretazioni degli attori a volte chiedono vendetta al cospetto di dio e degli uomini: il padre ha una faccia basita che neppure in Boris…Vedrò la quarta puntata, poi valuterò se vale la pena proseguire.

Bonus Track
I Borgia

Dei Borgia di Tom Fontana posso dire solo tutto il bene possibile. È una serie ottima sotto molteplici punti di vista, e soprattutto riesce nel miracolo: appassionare con la storia degli intrighi di una famiglia rinascimentale. Finora una delle puntate più tese e appassionanti è stata quella sul Conclave. Sì, avete capito. Una puntata su una trentina di cardinali riunita in un posto chiuso per scegliere il papa. Sulla carta, la storia più barbosa della narrativa di tutti i tempi. Sullo schermo, un capolavoro di tensione narrativa.
Anche I Borgia parla di famiglia, e anche I Borgia ha i suoi stereotipi: la rivalità tra fratelli, il padre che ne preferisce uno all’altro, per dirne due. Ma il livello di profondità col quale le psicologie dei personaggi vengono indagate riempiono di nuovo senso figure tutto sommato note, archetipiche.
I Borgia mi fa appassionare alla storia, I Borgia mette in scena una galleria di personaggi indimenticabili, anche quando appaiono solo per breve tempo (Carlo VIII, ad esempio), I Borgia dimostra che se sei bravo, se hai mestiere puoi rendere appassionante qualsiasi storia, anche una intricata, complessa e sulla carta così poco catchy come quella de I Borgia. Perché la serie non cede al lato più ovvio della vicenda: Lucrezia non se la fa col padre o col fratello, ad esempio, visto che la storiografia ha accertato che la maggior parte delle voci che girano al riguardo furono messe in circolo dal suo primo marito. Eppure l’incesto fa audience.
Insomma, io ne sono entusiasta, e prego per una seconda stagione. Se è in programma una seconda stagione di Falling Skies, allora se devono fare almeno altre dieci de I Borgia.

Postille al post di lunedì
Non so, forse si leggeva tra le righe, forse no, ma manca un pezzo al fiume di parole che vi ho riversato addosso su tutta questa storia della Nonciclopedia. E ossia che un limite a quanto si può dire, online o nella vita vera, esiste, ed è stabilito per legge. Esistono l’apologia di reato, l’istigazione all’odio razziale, l’apologia del fascismo e via così. E questi sono i limiti invalicabili per chiunque faccia parte della società alla quale apparteniamo. Ma quel che penso è che se è giusto condannare Tizio quando esprime posizioni, che so, omofobe (anche se la legge non lo prevede, e questa purtroppo è un’altra, lunga e brutta storia…), non si può prendere la sua omofobia a pretesto per attaccarlo quando, che so, parla di filologia romanza. E poi…e poi basta. La cosa positiva del tutto è che ho imparato delle cose, la cosa negativa è che ho (ri)scoperto un sacco di cose brutte sul mio modo d’essere.

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Note al post di ieri

Flashback.
Paolo Barbieri: Ti mando l’immagine da mettere sul sito
Io: Sai che ho pensato? La metto e non spiego cos’è, così la gente impazzisce a capire cosa significa
Paolo: Ottimo! Vai, vai, ti reggo il gioco.

Alle 16.00 di ieri, baldanzosa, metto su l’immagine sul blog. Sono convinta che sia difficile capire di cosa si tratti, e che partiranno ipotesi di ogni tipo. Peccato che ho fatto l’upload dell’immagine senza modificarle il titolo, un titolo assolutamente inequivocabile: comincia con Fumetto…

Ebbene sì, il mio piano diabolico è naufragato, qualcuno l’aveva già capito, adesso ve lo dico anche io: l’immagine di Nihal da me postata ieri sarà la copertina della raccolta dei quattro fumetti dedicati alle Cronache. La troverete, suppongo in libreria, dal 25 Ottobre. Quindi, nulla, Nihal non è esattamente tornata. Diciamo che fa una nuova capatina in libreria con una veste nuova.

Per il resto, ieri ha fatto scalpore un mio tweet in cui affermavo che la quinta puntata di Cowboy BeBop, il mio anime preferito che sto riguardando in questo periodo, da sola vale più di tutto Evangelion. Lo so, lo so, questa storia di Evangelion sta diventando una specie di ossessione, ma fatemi divertire un po’. Per chi vuole saperne di più, qui c’è un post in cui spiego perché e percome io adoro Cowboy BeBop. A volte però, le immagini valgono più delle parole.

P.S.
Mi state ponendo molte domande sul contest: purtroppo io non sono la persona giusta per rispondervi. Non ho organizzato io la cosa, ho solo dato la disponibilità a leggere i racconti. Vi consiglio quindi di chiedere direttamente agli organizzatori, magari allo stesso link di ieri, ossia questo, visto che sotto il post c’è uno spazio per i commenti.

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Harry Potter e i Doni della Morte 2 – La Vendett…ah, no, quello era un altro film

Ieri sono andata a vedere Harry Potter. Penso sia la prima volta che vado a vedere un film il giorno dell’uscita. Non che ci tenessi così tanto: è che per ragioni logistiche era meglio andarci il primo possibile, se non volevo perdermelo.
Vi avviso che ci saranno degli spoiler, per cui, se non avete letto il libro o se non avete visto il film, leggete a vostro rischio e pericolo. Premetto anche che il libro l’ho letto una sola volta quattro anni fa, e ricordo veramente poco, per cui prendete con le pinze i confronti con la pagina stampata che farò.
Dunque, direi che tanto il film precedente era lento, basato più sulla costruzione dell’atmosfera e sull’indagine delle psicologie, tanto questo è azione pura. Avrei preferito un mix un po’ più omogeneo, ma se ben ricordo anche il libro è fatto così, e dunque c’è poco da lamentarsi. Per il resto, il film tiene botta, gestisce bene le varie scene madri, si fa guardare nonostante la lunghezza e ha anche una serie di bei momenti.
Mi è piaciuto molto l’inizio. In fin dei conti, la parte 1 e la 2 sono sostanzialmente un unico film, e quindi è giusto che non ci siano riassunti, e che anzi ci sia la mera riproposizione dell’ultima scena del film precedente. Ma non è tanto questo ad essermi piaciuto, quanto quelle brevi inquadrature iniziali di Piton. Piton è probabilmente il mio personaggio preferito di tutta la saga: a differenza di altri non ho mai smesso di pensare che avesse le sue buone ragioni per fare quel che fa, e anzi ero certa che avesse ucciso Silente dietro esplicita richiesta di quest’ultimo. Ecco, trovo che aprire su di lui abbia il suo bel perché: in fin dei conti è la figura più forte del libro, il plot twist che lo riguarda è fondamentale nell’economia della storia. E insomma, quell’inquadratura iniziale ce lo mostra in tutta la sua desolante solitudine: il vero eroe di tutto il cucuzzaro, odiato da tutti, disprezzato, e il cui coraggio resterà tutto sommato misconosciuto. Per sua volontà, per carità, ma pur sempre misconosciuto.
Splendide anche le scene del suo passato, soprattutto quelle dell’infanzia. Le ho trovate da brividi. Poi il flashback si perde un pochino, forse perché un po’ troppo lungo, per tornare ai fasti iniziali col montaggio alternato di Piton che parla con Silente di Harry e Piton che trova il cadavere di Lily. E quel pezzo, splendido, riportato identico a com’è nel libro: Piton che evoca il patronus e Silente che gli fa “After all this time?”, e Piton risponde con un’unica, lapidaria parola: “Always…”. Più passa il tempo più penso che il lavoro dello scrittore sia più che altro di sottrazione. Una scrittura efficace non ha bisogno di troppe parole, ma di poche e dense battute. Il lavoro sta tutto là: trovarle, e renderle più affilate, più ricche di senso che mai. E quell’always da questo punto di vista è magistrale. Onore al merito di Alan Rickman, ovviamente, che è un attore straordinario; la mobilità del suo volto nelle scene con Lily fa da perfetto contraltare alla gelida compostezza che ha sempre avuto nell’arco di tutti e sei i film precedenti.
Capitolo morti. Come ben sapete, non ho mai apprezzato il modo sbrigativo con cui la Rowling ha gestito le morti dell’ultimo libro: ok, siamo in guerra, la gente muore a pacchi, ma che un personaggio come Lupin se ne vada via così, con due parole, senza che neppure ne vediamo la morte e senza una scena che lo pianga decentemente, ecco, mi lascia l’amaro in bocca.
Il film sceglie di non andare oltre il libro, per cui le morti di Fred, Tonks e Lupin avvengono comunque fuori scena. Però c’è una scena che è dedicata loro. Poco, per carità, un’inquadratura, che però ci mostra il dolore dei vivi, quello di Harry Potter, e in qualche modo dà un significato a quelle morti. Avrei preferito qualcosa di più esplicito, almeno per Lupin, che tutto sommato era l’ultima figura paterna di Harry, ma è già qualcosa.
Quel che mi ha lasciata perplessa è il 19 anni dopo: già nel libro quella scena non mi era piaciuta particolarmente, non so perché; probabilmente avrei preferito sapere cosa succedeva nell’immediato, piuttosto che in un futuro così remoto. Comunque, nel film la cosa viene peggiorata dalla faccia da mal di pancia di Harry, Ron, Hermione e Ginny. Uno si domanda: ma che diavolo l’avete sconfitto a fare Voldemort che 19 anni dopo la sua morta state ancora tutti lì a deprimervi? Davvero non si capisce perché i personaggi debbano essere così malinconici, sembrerebbero avere una vita felice, e, ok, i morti, ma sono morti di diciannove anni prima, si spera che uno in diciannove anni se ne faccia una ragione.
Per il resto, rimango dei buchi: lo specchio, segato dai film precedenti e miracolosamente recuperato qui senza uno straccio di spiegazione, elementi della biografia di Albus Silente buttati lì nella prima parte del film e dimenticati per strada, e, come nel libro, del resto, i doni della morte che non si capisce bene a cosa siano serviti, a parte la Elder Wand, ovviamente.
Ultima nota di demerito, lo vado dicendo da parecchio tempo ma me ne convinco sempre più: la versione cinematografica de Il Signore degli Anelli ha ammazzato il cinema fantastico. È che il risorgimento del fantasy a cinema è iniziato troppo col botto: i film di Peter Jackson sono dei capolavori sotto molti punti di vista, e hanno segnato da allora lo standard per i film a venire. Standard che purtroppo non tutti sono in grado di raggiungere. Il risultato? Il 90% delle pellicole fantasy uscite dopo la trilogia di Jackson la plagiano nelle battaglie. Pensateci. Dal 2002 è tutto un fiorire di battaglie spiccicate al fosso di Elm, almeno nella messa in scena. L’arrivo dei Mangiamorte a Hogwarts sembra l’arrivo degli Uruk-Hai a Helm. E, non so voi, ma io mi sono scocciata di battaglie tutte uguali, di regie dinamiche con telecamere a volo d’uccello sugli eserciti schierati, di miriadi di fuochi che illuminano il buio. Forse sarebbe ora di prendersi una pausa e ripensare il cinema fantastico, non lo so, ma qualche idea nuova nella resa delle battaglie non ci starebbe per niente male.
Comunque, nel complesso io l’ho trovato un buon film, che non getta via i buoni spunti del libro, ma non riesce neppure ad andare oltre la pagina stampata, probabilmente per troppa filologia. Ma lo sapete come la penso sulle trasposizioni cinematografiche, e non a caso Il Prigioniero di Azkaban è probabilmente il mio film preferito.
Ah, dimenticavo, il bacio tra Ron e Hermione: secondo me, molto buttato lì. Sono sei anni che i due ci girano intorno, a tutto si conclude con questo bacetto nella Camera dei Segreti. Non saprei dire perché realmente non mi è piaciuta, ma non mi ha detto niente.
Anyway, questi sono i miei due cents sulla questione. Mi rendo conto che per molti di voi – che siete ahimé più giovani di me… – l’uscita di questo film è stata un evento epocale, ma io avevo vent’anni quando uscì il primo Harry Potter, e se devo pensare ad un film che davvero ha segnato il mio immaginario, mi viene in mente il già stracitato Signore degli Anelli. Però devo dire che questa lunga cavalcata cinematografica tutto sommato ha colpito anche me, e un po’ di nostalgia per la fine di una saga così lunga resta. Ora la parola a voi: visto? Piaciuto? I commenti sono tutti vostri.

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Visioni estive

Sono orfana di serie tv. Finito Lost, in attesa tremebonda di un Misfits che chissà come sarà senza Nathan, sono alla ricerca di qualcosa con cui riempire queste serate di pausa che mi sto prendendo tra un libro e l’altro. Sì, perché ho finito la prima stesura del primo tomo de I Regni di Nashira, e lo sto facendo decantare un po’ in attesa dell’editing, e prima di pensare al quinto de La Ragazza Drago voglio riposarmi un pochino. Ho scritto un sacco, davvero, e forsennatamente. Ho bisogno di un po’ di pausa. Comunque, come al solito sto divagando.
I palinsesti estivi, si sa, non sono il massimo se hai voglia di vedere qualcosa di interessante. Ma per fortuna c’è Sky, che in vacanza ci va sempre a mezzo servizio, per cui qualcosa di interessante c’è sempre. In particolare, ho beccato due cose: Falling Skies e Borgia.
Dunque, Falling Skies. Il trailer prometteva bene, e l’attacco, con l’invasione aliena raccontata attraverso i disegni e i racconti dei bambini, era da applauso. Peccato che poi tutto appassisca abbastanza rapidamente. L’invasione aliena è un tema stra-abusato, se ne vuoi parlare devi inventarti qualcosa di nuovo, o essere un grandissimo narratore. Di nuovo in Falling Skies non c’è niente, e quanto a narrazione il ritmo in molti pezzi latita. I personaggi al momento sono più che altro etichette, per altro viste già in miliardi di altre produzioni simili: il padre saggio e coraggioso infilato in una situazione estrema, il bambino traumatizzato, l’adolescente inquieto, il militare stronzo. Al solito: va bene giocare con gli stereotipi, ma presentarceli invece così, senza un minimo di rielaborazione, fa solo sbadigliare. C’è qualcosa che si salva? Mah, nel complesso la serie si fa vedere, per quella piacevole sensazione di intrattenimento senza impegno. Tutto è abbastanza innocuo, e comunque i mondi post-apocalittici hanno sempre il loro perché. Ma per chi si è visto roba come Battlestar Galactica, o anche solo un Ken il Guerriero, siamo proprio su un altro pianeta, e per psicologia dei personaggi, e per efficacia della messa in scena.
Veniamo a Borgia. Allora, non è la serie americana con Jeremy Irons, ma un’altra europea uscita lo stesso anno. Quella che ho visto io è l’anteprima dei primi due episodi: gli altri andranno in onda a novembre.
Piccola parentesi: i Borgia sono una famiglia italiana. Come efficacemente detto altrove, nella loro storia non manca proprio niente: incesti, omicidi, papi con duemila amanti e ottocento figli, tutti gli ingredienti che fanno tanto feuilleton, insomma. Ecco, perché a nessun italiano è venuto in mente di fare una bella fiction sui Borgia? Ci hanno dovuto pensare i francesi, mentre noi continuiamo con le agiografie dei santi e dei poliziotti. Come lo sapete io ho i miei cult nella fiction italiana, ma resta il fatto che comunque papi, santi e forze dell’ordine se la regnano nella fiction. Vabbeh. Veniamo al merito della serie. Devo dire che m’è piaciuta. Due ore di ottimo intrattenimento. Si comincia maluccio, a dire il vero: a causa della caterva di personaggi che devono venire introdotti, per altro legati tutti da parentele multiple e dispersi in giro per mezza Italia, l’inizio è piuttosto confuso. Scene brevissime, si salta di continuo da Pisa a Roma, da una location all’altra, in una girandola che rischia di fare venire il capogiro allo spettatore. Rapidamente le cose però si assestano, e ci si appassiona quasi subito alle vicende dei bastardissimi Borgia, perennemente impegnati in due principali attività: fornicare possibilmente con minorenni o donne sposate e brigare per avere il potere assoluto. Bella la fotografia, belli i costumi, belle anche le ricostruzioni della Roma rinascimentale, che, per chi ci vive come me, sono un piacere per gli occhi. Ok, hanno l’aspetto di quadri ad olio, ma mi è sembrata un’ottima trovata per mascherare una CG non proprio sublime, mentre un po’ più grave è che di tanto in tanto i personaggi sembrino appiccicati su sfondi dipinti, ma è un’impressione che si ha giusto un paio di volte in tutto. Per il resto, nonostante gli intrighi tessuti dal futuro Alessandro VI siano abbastanza complessi, la narrazione è solida, e lo spettatore capisce tutto. I personaggi sono molto interessanti, e ben narrati nelle loro contraddizioni. Mi aspetto molto da Cesare Borgia, che pare un bel personaggio, di quelli tormentati e combattuti tra opposte inclinazioni. Poi, vabbeh, c’è un certo qual gusto per lo shock che lascia un po’ perplessi (il pappa che ciuccia dalla tetta, il sangue a ettolitri), ma tutto sommato è una porzione minoritaria del prodotto, e comunque rende bene il periodo storico, che – sebbene si fosse alle soglie del Rinascimento – era bello truce forte. Insomma, io mi sono divertita, e mi scoccia alquanto dover aspettare novembre per vedere il seguito.

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Le Rose di Versailles

Sull’onda del revival tardo-adolescenziale, mi sono fatta comprare da Giuliano tutto il fumetto di Lady Oscar. Il primo numero l’avevo comprato a Lucca a novembre, mi era piaciuto molto e così ho voluto il resto, che arrivato tipo una settimana fa.
Ora, in verità da bambina Lady Oscar lo vedevo, ma non è che fosse proprio il mio cartone animato preferito. A dirla tutta, mi metteva l’ansia. Troppo cupo, troppo drammatico, mi angosciava tutta quella gente che non faceva altro che intrigare, ammazzare e soffrire. Quando ero adolescente, le mie amiche se lo vedevano e lo adoravano. Io all’epoca ero persa dietro Sailor Moon, per cui passai. Ma quel cartone animato cupissimo, con una protagonista femminile così atipica e forte mi aveva colpita, anche se non ne ero consapevole.
Mi stupisco sempre di come, tra tutte i rimandi e le fonti che la gente intravede nei miei libri, nessuno becchi mai Lady Oscar. Sebbene Nihal non abbia più o meno niente di Oscar e Sennar si guardi bene di assomigliare ad André, il loro rapporto è molto simile a quello dei due protagonisti di Versailles No Bara. Questa cosa l’ha colta solo Giuliano. Gli altri non la vedono. Strano, perché a me sembra lampante.
Comunque. Mentre scrivevo La Setta degli Assassini ed ero felice esule in Germania – un posto al quale di recente non riesco a pensare senza il magone, dannazione… – mi rividi tutta la serie tv con Giuliano. E me ne innamorai. C’era veramente tutto: amore, morte, grandi ideali. Era grande narrazione popolare, che per altro mi aiutava a indagare un periodo storico di cui ricordavo davvero pochissimo (lo confesso, sono una tragedia in storia…). Il passo dall’anime al fumetto è stato piuttosto lungo, ma è arrivato.
Ok, tutto sommato alcune scelte sugli snodi principali di trama, e anche sulla sceneggiatura, diciamocelo – quell’”Una rosa è una rosa anche se essa sia bianca o rossa. Una rosa non sarà mai un lillà” ha fatto sospirare più o meno tutta la mia generazione, me compresa, anche se avevo la bellezza di 24 anni – rendono nel complesso l’anime superiore al fumetto. Però, ragazzi, il fumetto resta un’opera davvero “massiccia”. È un monoblocco tematico, di una compattezza paurosa, un controllo di trama saldissimo e personaggi enormi. Tra l’altro, pubblicato negli anni ’70, doveva essere una rivoluzione non da poco: uno shojo con la protagonista che era un guerriero e si vestiva da uomo, in cui la gente si picchiava e che aveva al centro un episodio storico raccontata in dettaglio quasi filologico. Considerato il contesto e tutto, io lo trovo semplicemente un capolavoro. In questi quattro giorni di lettura è stato una droga. Nonostante il disegno ormai datato e le concessioni alla svenevolezza. È potente, c’è poco da fare, di una potenza che molti dei fumetti che vanno per la maggiore oggi si sognano. Eh sì che ormai siamo più scafati. Eppure quella donna che passa una vita intera a cercarsi, che agisce sempre spinta da motivazioni interiori forti, da una ricerca per nulla banale di se stessa, del proprio posto nel mondo, della verità, è qualcosa che colpisce con la forza di un pugno. Ed è terribilmente attuale. Perché nonostante il femminismo dovrebbe essere tutto sommato ormai acquisito, il modello imperante non è quello di Oscar; al massimo è Maria Antonietta, che l’unica libertà che può concedersi è di sognare su un amore impossibile, e per il resto annullarsi nel suo ruolo di madre.
Non so, sarà il periodo in cui l’ho letto, sarà il riverbero di tutte le riflessioni che ho fatto quest’anno, e forse anche di quello che ho scritto negli ultimi mesi, ma mi ha colpita profondamente. E non solo per il triangolo o la straziante storia d’amore, ma anche per la molteplicità di temi collaterali. Ad esempio, ne viene fuori un ritratto tremendo dell’uomo di fronte alla Storia. Perché alla fine tutti gli attori messi in scena sono semplici uomini, dalla regina ad André, persone che per varie ragioni non sono libere. La ragion di stato, la società, la Storia, impongono loro dei ruoli ai quali sentono di non poter aderire. E caso vuole che proprio questo sia uno dei temi di cui ho scritto in questi mesi. E le loro vicende finiscono spazzate via dalla potenza della Storia: la forza della fumetto sta anche in questo, che dalla prima riga sai che andrà a finire male, perché il mondo dorato di Versailles sta per essere spazzato via, perché fai il contro alla rovescia fino a quel 13 luglio 1789 che ha cambiato i destini del mondo, e non solo della Francia. Il fato dei protagonisti è segnato, perché si trovano a vivere intorno ad uno snodo della storia, e non a caso la sensazione che più travolge i personaggi è l’impotenza. L’impotenza del singolo di fronte alla massa, davanti al meccanismo inarrestabile che porta gli ultimi a diventare i primi e viceversa, in una ruota crudele che dall’inizio della storia dell’umanità non ha mai smesso di girare. Il piccolo mondo di Versailles che viene messo in scena nel primo numero ci commuove e ci fa tremare le vene dei polsi, perché sappiamo già che è destinato a sparire da lì a pochi anni. Le individualità dei personaggi si sciolgo nell’insensatezza della folla, che non ha pietà, che non ha testa, dominata com’è dagli istinti più bassi, più basilari. In questo senso, è magistrale la chiusa del fumetto, su Fersen linciato dalla folla. È la fine di ciascuno dei personaggi di questa vicenda: ognuno di loro è finito fagocitato dagli eventi, i suoi piccoli sentimenti si sono sciolti nella grandezza di un dramma collettivo. Per questo il fumetto e l’anime sono così intensamente tragici, così terribilmente grandiosi.
Insomma, è stata proprio una bella lettura. Una lettura istruttiva, direi, come succede un po’ con tutti i libri, o i fumetti, in questo caso, che colpiscono molto, nel bene o nel male. E m’ha lasciato addosso una gran voglia di rivedermi il fumetto, che attaccherò non appena avrò finito I Cavalieri dello Zodiaco.

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Due cose che mi sono piaciute

Scopro subito le carte. Ho iniziato a vedere Squadra Antimafia 3 perché Sandrone ne è l’editor. E quando ho visto la prima puntata, era roba come tre o quattro anni che non vedevo fiction italiana. Avevo persino abbandonato Montalbano, un po’ perché i libri mi piacciono sempre meno, un po’ perché…no, non lo so. Forse m’ero solo stufata.
Alla prima puntata, mi sono subito esaltata per Rosy Abate. Tutta la storia di come ritorna in Italia m’aveva veramente galvanizzata: voglio dire, troppo figa. Alla seconda puntata ho apprezzato i riferimenti precisi e puntuali alla realtà: innanzitutto il tema dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici, che come sapete mi è molto caro, poi l’accenno l’eutanasia. Alla terza, ci stavo già dentro.
Lo posso dire? Lo dico. Mi sono veramente appassionata. Perché è un prodotto fatto veramente bene: ha tutto quel che deve avere una buona serie televisiva, la trama appassionante, l’azione, i bei personaggi, e, ripeto, la guardi e impari anche qualcosa. Cosa vuoi di più? Ah, e poi è una storia di donne, e che donne. A tirare le fila di tutto son sempre loro: LA mafiosa, LA poliziotta, persino il politico corrotto, con tanto di toy boy, è una donna.
Ho atteso l’ultima puntata con trepidazione: stirerà mica le zampe l’Abate? E De Silva? Si salva? E l’enigmatico deputato? Mi ammazzerete mica Leo, che se lo fate, giuro, vi picchio? Io in genere le puntate le guardo in differita: la sera scrivo, per cui me la registro, e me la vedo in pillole le sere successive. Non avete idea dei giramenti quando mi sono accorta che la registrazione mi aveva saltato gli ultimi 60 secondi. Ok, era evidentemente l’epilogo della narrazione, e dunque gli snodi principali di trama erano stati risolti, ma ugualmente io volevo quei dannati, ultimi 60 secondi. E in effetti poi li ho ottenuti, e che cavolo.
Mi spiace in effetti parlarne solo ora, a serie finita, ma ha visto in giro i dvd delle prime due stagioni, che sto pensando di recuperare, e suppongo quindi usciranno più in là anche quelli di questa terza. Io vi consiglio di recuperarli, perché merita. Io intanto aspetto la quarta :P

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Lo devo confessare: non è una buona annata libraria. Non so se sono io che sono diventata più esigente, più scassapalle o cosa, ma quest’anno ho incrociato sulla mia strada parecchi libri che non mi sono piaciuti più di tanto. In genere, su una media di quaranta libri l’anno, quelli che davvero mi deludono saranno un 10%. Ecco, quest’anno su 19 saranno almeno 10 o giù di lì. Stavo quasi pensando di buttarmi sul sicuro, che poi sarebbe I Promessi Sposi – lo so che al 99% degli italiani fa schifo, ma a me piace molto – quando ho preso in mano Un Calcio in Bocca Fa Miracoli, che, come saprete, mi sono procacciata in quel di Torino. Anche qui, ho iniziato a leggere perché Il Ruggito del Coniglio a me è sempre piaciuto un sacco. Ma, vista la sfiga con le letture che sta segnando questo 2011, ero un po’ titubante.
Mi è bastato l’attacco.

Sono un vecchiaccio.
Dovrei dire che sono una persona anziana, come mi hanno insegnato i miei genitori per i quali chiunque, anche un infanticida antropofago, arrivato a una certa età meritava rispetto.
La verità, però, è che sono un vecchiaccio.

Che gli vuoi dire? Non ti puoi che innamorare subito. E infatti.
Non è solo un libro di piacevolissima lettura, divertente e ben scritto. È un libro che ti lascia addosso qualcosa, quella dolce malinconia che in genere segna il passaggio all’età della ragione, quando capisci che non sei immortale, e ad un certo punto la giostra smetterà di girare.
Pur scegliendo un registro tutto sommato leggero, punteggiato di commenti caustici e battute, il libro dice – e bene – cose molto più profonde di tanti altri tomi che si prendono infinitamente più sul serio, e poi sbagliando bersaglio di un chilometro.
E poi per una volta c’è un quadro onesto della vecchiaia: né negazione del tempo che passa, né triste crogiolarsi nel vittimismo da nonno badante munito. Solo tanta, mesta consapevolezza che il meglio è alle spalle, ma che questo non significa affatto che non si possa continuare a dir no, e a essere se stessi fino alla fine.
Io l’ho trovato veramente delizioso. Me lo sono centellinato, questo libro, e adesso che l’ho chiuso, come sempre coi libri che ho amato, lo spingo verso altri lidi, perché le belle cose diventano ancora più belle quando le si condivide in tanti. Per cui, nulla, vi consiglio anche questo. E se non vi fidate di me, buttate un occhio di persona.

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Un eroe contemporaneo

E qui occorrerebbe aprire con questa. Solo che non è che ci azzecchi poi tantissimo col resto, ma ugualmente non potevo esimermi, dato il titolo.
Con colpevole ritardo, ho scoperto Boris. Le prime puntate le vidi su Cielo, ed erano praticamente tutte della seconda stagione. Incuriosita mi presi il cofanetto della prima, me la vidi da sola, e adesso me la son rivista con Giuliano. Inutile dire che ci siamo appassionati al volo. Non ci addormentiamo se non ci spariamo almeno due puntate a sera. È che quel set è una metafora così dannatamente efficace di come vanno le cose in questo paese che uno non può non solidarizzare. Con tutti, per altro, vittime di un meccanismo inesorabile che spinge verso il basso, livellando ogni guizzo di creatività, ammazzando sul nascere ogni ambizione. Ma quello che ci ha fatto davvero innamorare è stato Renè Ferretti. C’è qualcosa di tragico e di grande, in Renè. Perché Renè non è uno che non è capace di far di meglio, non è che Gli Occhi del Cuore 2 sia il massimo che sa fare. La tragedia sta proprio qui: lui è uno bravo, ha fatto cose, continua a farle, a volte, come il famigerato cortometraggio sulla formica. Ha vinto persino premi. Ed è approdato infine a quell’inferno i terra di produttori maneggioni, direttori di rete fantozziani e attori cani. E la passione e la bravura ogni tanto emergono, nella sua capacità di far fronte all’ennesima richiesta assurda di Corinna, all’ennesimo delirio di Stanis, al pugno con cui dirige una cosa che gli fa oggettivamente schifo, piegandosi a tutti i limiti di una professione infame. È uno che le cose brutte le fa di proposito. Perché è quello che gli chiedono, perché i mezzi sono quelli, perché il sistema è così, e non ci puoi fare niente.
Ok, la facilità con cui si piega al compromesso ricorda fin troppo bene quella caratteristica tutta italiana di dire “le cose sono così, non posso fare altro che adeguarmi”. Non glielo ha imposto il medico, di girare Gli Occhi del Cuore. O forse no? Il mutuo da pagare ce l’hanno tutti…Ma la sua tragicità sta proprio nel fatto che nonostante tutto è uno bravo, e lo resterà. E per questo è una specie di eroe. Perché tutte le bastonate del mondo non gli tolgono il talento, che di tanto in tanto sfoga in solitaria. Perché in fin dei conti resta un puro. Fa uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare, no?
A volte mi sono messa lì a pensare chi sia il “cattivo” nella serie. Perché tutti sono fin troppo consapevoli di star girando monnezza. Duccio la farebbe pure una fotografia migliore, servisse a qualcosa, Lopez passerebbe pure alla fiction di qualità, se la rete decidesse che venderebbe. Sono tutti incastrati in un meccanismo perverso che li costringe a dare il peggio. Ma quando si va a cercare chi quel meccanismo l’ha creato, non si trova. I vertici di rete? Il pubblico che si beve le peggio schifezze? Non si sa. Semplicemente è così, da sempre. E la tragedia è questa.
Non so, a me pare che la metafora sia fin troppo scoperta. Sono anni che chiniamo il capo e facciamo il meno che possiamo convinti che sia così vuole la maggioranza. Non andiamo a votare, che tanto il nostro voto è inutile a fronte di quello degli altri. Ci facciamo raccomandare per non dover aspettare tre mesi per una TAC, perché tanto è così che funziona. Ci rassegniamo ad una televisione inguardabile perché siamo convinti che così piaccia alla maggioranza. Ma chi sono questi altri? Chi è che ha cominciato? Chi è stato il primo che ha imposto il peggio come norma? Ma sarà mica che siamo topi che non solo si sono costruiti la trappola da soli, ma continuano a tenerla ben oliata e funzionante?
Io non lo so se il mondo della fiction è come Boris. L’Italia di sicuro lo è.

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Musica, maestro!

La giornata è iniziata un po’ storta, ma pare si stia lentamente riprendendo. In ogni caso, per darmi (e darci) la carica, vi lascio la mia personale ossessione musicale degli ultimi tempi: i Pound.
Ne avevo già parlato, per chi di voi mi segue da molto. Nel 2009 hanno fatto uscire il loro primo album, che mi ero colpevolmente persa. L’ho recuperato qualche giorno fa e ormai gira in loop sul mio Mac. A me piacciono davvero tanto, soprattutto What I Fear the Most. In fin dei conti mi riguarda.
Enjoy

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Commentiamo il telefilm del giorno: Misfits 02×06

Ok, mi rendo conto che inizio ad essere stucchevole. Due post in due giorni sui telefilm sono troppi. Però non posso farci niente. Per il resto la mia vita è avvitata su lavoro astronomico e lavoro letterario; i dettagli del primo non penso possano interessarvi (il grafico che presenta un’anomalia, il talk da preparare…) e sul secondo sono io che non me la sento di dirvi niente, perché sono in fase di stesura del mio nuovo libro, ambientato in un mondo nuovo di zecca, e voglio mantenere un po’ di suspence. Restano libri e telefilm, ogni tanto un po’ di musica.
Per la verità, non voglio fare un vero commento della sesta puntata della seconda stagione di Misfits. È straordinaria, come le undici che l’hanno preceduta. Ormai adoro Nathan, vorrei un Simon di pelouche da coccolare la sera, mi capita di identificarmi nelle insicurezze di Kelly e vorrei tanto abbracciare e consolare Alisha. No, quel che mi ha colpita sono state alcune scelte narrative. Il diavolo di nasconde nei particolari, ma pure la cura degli stessi fa la differenza tra chi le storie le sa raccontare e chi no.
Per questo, vorrei parlarvi dei primi minuti della puntata. Si possono descrivere l’essenza di un personaggio, la sua storia, le sue ossessioni e il suo destino in tre minuti scarsi muti? Se sei un autore di Misfits, sì. Allego prova video.

Io una cosa così la chiamo in un modo solo: perfezione. Del montaggio, innanzitutto. L’alternarsi delle ripetitive, ossessive scene della colazione, inframmezzate a quelle del lavoro di questo oscuro ragazzino inglese: ci parlano di una vita alienante, tutta tessuta intorno alla ripetizione ossessiva di gesti ormai senza senso. Trenta secondi per dirci chi è il Nostro, e cosa pensa. Poi, stacco su di lei. Il sogno di un riscatto, dell’interruzione del ciclo eterno di una vita senza senso. E qui interviene la musica. Che cambia di colpo, raccontandoci i palpiti del nostro Milk Guy. Poi, stacco sull’evento cardine: la tempesta. E di nuovo la musica, in un crescendo grottesco. E interviene la recitazione. Lo sguardo del nostro protagonista nel momento in cui capisce qual è il suo potere ci dice tutto: sono modifiche minime dell’espressione, un sorriso accennato, una luce nuova negli occhi. E lo spettatore capisce tutto: che il Milk Guy ha smesso con le sue colazioni desolate e solitarie, che non ci saranno più latte e cereali, e che ha chiuso anche col suo lavoro del cazzo, e che la tipa che prima lo ignorava, beh, adesso forse ci sta.
Questi tre minuti, dai quali sento di avere da imparare una caterva gigantesca di cose, dicono tutto di Misfits, un prodotto girato con quattro attori in tre location, costato presumibilmente due lire e mezzo, ma così denso e pieno di idee da far paura. Misfits fa spavento per il grado estremo di consapevolezza, per la padronanza assoluta del mezzo, e per il rifiuto categorico di cedere al compromesso. Per questo piace. Perché osa.
Potrei poi dilungarmi sulle battute di Nathan – che tra l’altro fa la sua porca figura in smoking – oppure sull’immagine geniale di Super Madre Teresa che muore impalata sul premio che le hanno dato per la sua bontà, ma non aggiungerebbe nulla al tutto.
Io vorrei, vorrei davvero essere così brava a raccontare storie. Temo purtroppo non lo sarò mai.

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