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Finali

Comincio a credere di avere un problema coi finali delle serie. Fino ad oggi, ho portato a termine la visione solo di tre serie televisive: Lost, Dawson’s Creek e Battlestar Galactica. Ebbene sì, con un ritardo di due anni ieri ho visto il finale di Battlestar Galactica. Dall’incipit, avrete capito che non mi ha entusiasmata, esattamente come non mi hanno entusiasmata né il finale di Dawson’s Creek, né, come ben sapete, quello di Lost. Forse mi aspetto troppo dai finali di stagione, non lo so, ma finora l’unico finale che ho apprezzato è stato quello dell’ottava stagione di Scrubs, che non è il finale della serie, visto che ne hanno prodotta una nona.
Anyway. Ho fatto l’una ieri per capire quale fosse il piano dei Cyloni, ed è da quando mi sono svegliata che ci penso. So che alcuni di voi hanno seguito la serie, e mi piacerebbe discuterne un po’. Astenersi chiunque non abbia visto tutte le quattro stagioni, perché ci sono spoiler. Per questi ultimi, è una serie che vi consiglio molto: è tutto sommato breve, intensa, ottimamente scritta e girata, recitata da dio e con una colonna sonora da urlo. Vale la pena, insomma.
Torniamo però al finale. Suppongo che tutti quelli che stiano leggendo queste righe abbia visto tutta la serie. Dunque, a differenza del finale di Lost, quello di Battlestar quanto meno è molto coerente con tutto lo sviluppo della serie. Si parla di Dio dalla puntata uno, Caprica Sei non fa altro che dirci che è tutto un piano di Dio, quindi la sterzata religiosa finale è perfettamente coerente col tutto. In fin dei conti, delle infinite tematiche trattate in quattro stagioni, due sono le preminenti: la contrapposizione tra il credo politeistico umano e quello monoteistico Cylone e il rapporto uomo/dio. In fin dei conti, anche la ribellione di Cavil è esattamente quella della creatura di fronte al suo creatore. Quindi, quanto meno i conti tornano. Tornano anche le sottotrame, chiuse tutte con coerenza. Voglio dire, ce la menano con Hera dalla prima stagione, che si chiudeva proprio sulla culla che la conteneva, quindi piace vedere che il cerchio si chiude. Dà molto quell’impressione à la “sapevamo tutto fin da principio” che in Lost manca completamente, per dire. E probabilmente davvero sapevano tutto da principio, visto che si tratta di una serie che si sviluppa su un arco narrativo tutto sommato breve. Quattro stagioni sono poche, in fin dei conti.
E allora? Allora cosa non torna? A me non torna il tono del doppio episodio finale. Sembra scritto da altri autori. Ma dove sono finiti gli sceneggiatori che ci hanno fatto amare uno stronzo opportunista come Gaius? Gli autori che ci hanno consegnato un episodio così profondo e intenso come Crossroads? Battlestar per quattro stagioni ha saputo mostrarci un quadro desolatamente veritiero dell’umano; rinunciando a qualsiasi tipo di visione consolatoria, ci ha mostrato un’umanità vera e palpitante, continuamente combattuta tra un insopprimibile anelito all’ideale e la continua tentazione della caduta. Ogni episodio è sempre stato denso, pieno di sottotesto, vagamente allusivo a un mondo di significati nascosti. Come ogni singolo episodio precedente è stato ellittico, suggerito, tanto The Plan è quasi fastidioso nello spiattellarti la verità. Dio, che fino a quel momento è un elemento vago, sempre invocato e sempre sfuggente, diventa una presenza terribilmente palpabile. Due elementi dell’episodio chiariscono cosa voglio dire: la distruzione della colonia, che avviene perché la mano di un pilota morto, per caso, pigia un bottone, e la scomparsa di Kara. Ecco. Dio non è più quella fede vaga cui uomini e Cyloni si richiamano. È uno che materialmente fa pigiare un pulsante ad un morto, materialmente resuscita Kara per poi farla sparire. Ma dov’era Dio quando i Cyloni hanno sterminato gli umani? Qual era allora il suo piano? Tutto questo sangue, tutta questa morte solo per dare vita ad Hera, e permettere a noi di venire al mondo? Mi rendo conto che questo è LA domanda, quella che informa l’esistenza di qualsiasi uomo sulla terra. Ma la risposta di Battlestar non mi convince. Questo Dio che improvvisamente agisce e prende forma mi sembra un deus ex-machina. Perché risolve tutti gli snodi di trama. È Dio che distrugge la colonia, è Dio che ha fatto tornare Kara, è Dio che le indica la rotta per la Terra. Un Dio che mai prima, in Battlestar, si è palesato così chiaramente.
Ora, immagino che durante la visione di The Plan lo spettatore dovrebbe dirsi stupito che tutto torna. Avete presente quella sensazione lì che avete quando risolvete un enigma? Io ce l’ho quando vengo a capo di un problema di trama. Ce l’ho avuta di recente, costruendo il nuovo mondo in cui è ambientata la mia nuova storia. Una sera, tutto è tornato.
Ecco, di fronte alla canzone che non solo serviva a risvegliare gli Ultimi Cinque, non solo era la canzone dell’infanzia di Kara, ma fornisce anche le coordinate per raggiungere la terra (e, incidentalmente, è All Along the Watch Tower, che Bob Dylan scriverà la bellezza di 150 000 anni più tardi) io non ho pensato per niente che tutto tornava. Ho pensato che Dio ci stava mettendo una manona grossa quanto una casa. Questo è il vero, grosso problema di The Plan: che tutto diventa troppo chiaro, troppo palese. E anche un po’ buonista. Capirca Sei e Gaius che si devono amare per far tornare i conti – e ci peritano anche di dircelo esplicitamente, grazie ai due “angeli” che ce lo enunciano testuali parole – Cavil che, poverino, lui voleva solo vivere, e quindi mollerebbe subito Hera per l’immortalità, quando ci avevano fatto credere che il suo problema vero era la sua umanità, il corpo in cui l’avevano infilato e il destino cui i Cinque l’avevano condannato. Non lo so, mi rendo conto che è difficile da spiegare, ma tutto sembra risolversi in un lieto fine posticcio. Dentro di me è come se sentissi che doveva finire diversamente. Con la morte di Cyloni e umani, ad esempio, e la sopravvivenza solo di Hera, Gaius e Caprica Sei. In fin dei conti, non era quello che ci dicevano le profezie? Perché mi sembra che tutta la serie puntasse in quella direzione, che ci stese dicendo che gli errori non possono essere emendati, che il dolore non si dimentica e ci cambia. Invece qui sopravvivono tutti, e i cattivi invece muoiono: Tory schiatta, Cavil si suicida senza una motivazione ben chiara.
E poi il finale à la Lord of the Rings è francamente insostenibile; duecento dissolvenze a nero, duecento addii, duecento finali. Certo, ci interessa sapere che fine fa ogni personaggio, ma dilungarsi così tanto su ognuno di loro, e mostrare ogni finale come fosse l’ultimo, caricandolo emotivamente, distrugge il climax. E comunque Kara che scompare dicendo che ha finito il suo compito, come un supereroe di bassa lega, è qualcosa che avrei preferito non vedere.
Ma Battlestar è più grande persino del suo finale. È vero, la fine conta, ma certe volte non così tanto. Il quadro costruito in quattro stagioni memorabili resta, la capacità di scavare a fondo nella condizione umana è ineguagliato, almeno per una serie televisiva d’oltreoceano. Battlestar resta al di là delle cadute di stile, resta nel cuore e nella mente, un fulgido esempio di come il fantastico e la narrativa nel suo senso più puro sanno penetrare nelle questioni che contano meglio e più a fondo di molti prodotti ‘alti’, con velleità artistiche mancate di mezzo miglio. Battlestar resta, è LA storia, come tutte le grandi storie, che ci raccontano sempre la stessa cosa, senza però smettere di dirci cose nuove

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Lost vs Misfits

Sono diventata ormai una dipendente da Misfits. Attendo con ansia il lunedì, quando registro la nuova puntata su Sky, e poi il martedì sera, quando me la riguardo, rigorosamente in lingua coi sottotitoli (fuori sincrono, sob…) in italiano.
Come tutti gli amori, nel complesso è una cosa piuttosto irrazionale. Certo, ci sono miriadi di motivi per amare un prodotto come Misfits, e per altro li ho già espressi. Ma tutto sommato quel che ti fa amare un telefilm piuttosto che un altro è qualcosa di impalpabile, quell’atmosfera lì, difficile da descrivere, e quel quid che risuona con qualcosa che hai nel profondo.
Comunque, questo cappellotto per spiegare perché torno a parlarne di nuovo. È che due sere fa mi stavo guardando la seconda puntata della seconda stagione, e mi è venuto da pensare una cosa.
Quando Lost è finito, lo scorso anno, molti ci dissero che sbagliavamo a disprezzare il finale; la verità era che Lost non era mai stato un telefilm sui misteri dell’isola, ma che riguardava invece lo sviluppo psicologico dei personaggi, ed era dunque giusto finisse proprio con la conclusione del percorso esistenziale di Jack. Che a questa cosa non credessi molto, già ho avuto modo di dirvelo. Mi sono convinta ancora di più che come spiegazione con me non funziona guardando proprio Misfits. Anche in Misfits c’è il mistero: cos’è successo davvero durante la tempesta? E con la seconda stagione, chi è l’uomo mascherato? E l’immagine che Curtis ha avuto del proprio futuro, che senso ha?
A differenza di Lost, però, in Misfits è chiaro fin da subito che non sono i superpoteri o i misteri il centro dello show: quelli servono a mantenere una certa tensione narrativa, a dare compattezza alle varie stagioni. Ma lo spazio che occupano all’interno del singolo episodio – in tutti gli episodi – è evidentemente marginale rispetto all’indagine psicologica dei personaggi.
La prima puntata di Lost finisce con Charlie che si domanda: ma dove siamo finiti? E tutta la puntata è stata centrata sull’isola, più ancora che sull’interazione tra i personaggi. La prima puntata di Misfits finisce invece con l’occultamento di due cadaveri, e nessuna domanda specifica sui poteri dei nostri. Curtis, Kelly, Simon, Alisha e Nathan accettano i loro nuovi poteri senza farsi particolari problemi. Piuttosto si interrogano su quel che hanno fatto, su come scampare la galera per omicidio. Mi sembra lampante la differenza.
Misfits è uno show sui personaggi, sulle loro interazioni, sul modo in cui guardano al mondo. E questo perché i poteri, la misteriosa tempesta, e anche l’uomo mascherato nella seconda stagione, sono elementi in più, ma non fondano la mitologia del telefilm. Nella puntata di lunedì scorso, per dire, ci interessano molto più Nathan e il fratello, piuttosto che Simon e Alisha che cercano di capire chi sia l’uomo mascherato. Anche perché su 50 minuti di episodio, una decina a dir tanto sono dedicati alla seconda trama. E io attendo con ansia il prossimo episodio non per sapere chi sia l’uomo mascherato, ma per vedere un po’ che combineranno stavolta i nostri, se Nathan e Kelly quaglieranno, come faranno Alisha e Curtis a stare insieme senza toccarsi, se Simon riuscirà ad uscire dal guscio.
Ho amato molto Lost, lo sapete, probabilmente lo amo ancora. Ma non per i personaggi, che, in tutta sincerità, non mi sono mai sembrati, a parte rari casi, così terribilmente memorabili. Ma per tutto quello che c’era intorno, per l’isola. E adesso amo Misfits, molto, proprio per i personaggi, così tremendamente veri, così fragili, così simili a noi, che è impossibile non affezionarsi a loro.

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Hunger Games

Ho finito pochi giorni fa di leggere Mockingjay, il terzo e conclusivo libro della saga Hunger Games di Suzanne Collins. Che la serie mi piacesse ho avuto modo di dirvelo in varie occasioni: dietro la copertina del primo volume c’è un mio strillo, la pubblicità del secondo, che tra l’altro è uscito da poco, la potete trovare nel segnalibro allegato a Gli Ultimi Eroi.
Ecco, adesso che ho letto la serie completa, posso dirvi senza timore che si tratta di una delle saghe più belle che abbia mai letto. Dopo aver chiuso il libro, a lungo m’è rimasta addosso una sensazione di tristezza e al tempo stesso quasi di pace. Pensi a questa cavalcata lunga tre libri, pensi a Katniss e a tutti gli altri, alla pace, alla guerra, al mondo di Panem e al nostro, di mondo. Poche volte sono riuscita a trovare in un libro tutto sommato per ragazzi un’analisi così veritiera, così spietata di cosa sia la guerra, dei labili confini tra i combattenti, su come il potere corroda sempre, e porti inevitabilmente alla follia. Niente viene edulcorato, tutto ci viene presentato nella sua cruda realtà. L’ultimo libro che ha saputo farmi sentire nella ossa la guerra è stato Macchine Mortali, di cui non finirò mai dir bene. Ecco, la saga di Hunger Games è così: spietata e vera, terribilmente efficace.
Ma se si trattasse solo di questo, forse i libri non sarebbero quei capolavori che sono. Hunger Games avvince. Hunger Games ti costringe letteralmente a leggere oltre, ad andare avanti, perché ormai vivi nella testa dei personaggi, sei loro, e davvero non puoi mettere giù il libro solo perché devi andare a lavorare, o perché bisognerà pur dormire ad un certo punto. E sapete che questa è una cosa che mi capita sempre meno spesso, di recente. Con Hunger Games mi è successo. I personaggi sono veri, vividi, ti interessa di loro, vuoi sapere come va a finire.
Insomma, io ve lo consiglio caldissimamente, è una delle cose più belle che si possono leggere di questi tempi, e dimostra che la fantascienza è vivissima, e ha ancora molte cose da dire sulla condizione umana e il nostro mondo.

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Di giovani ed eternità

Ieri ho visto il season finale della prima stagione di Misfits. Sono ufficialmente innamorata. Sei puntate senza una caduta di stile, anzi in crescendo. La dimostrazione che anche con quattro lire si possono realizzare prodotti degnissimi, anzi ottimi, se ci sono le idee. E le idee ci sono eccome, a pacchi.
Gli attori sono sempre all’altezza, scelti con cura, perfetti. E hanno le facce giuste. Questa è una delle cose che mi piacciono delle serie europee: gli attori non sono fighi allucinanti, che mai incontreresti per strada, come in una qualsiasi serie americana. Non so, in Lost, ad esempio, pare che siano sopravvissuti solo i bonazzi, fatta esclusione per il povero Hurley. Nelle serie europee no. I protagonisti sono persone comuni. Girando per il mio vecchio quartiere, è pieno di gente come Kelly. E anche Alisha, la “bella” del gruppo, è una ragazza carina, ma nulla di straordinario, niente che tu non possa vedere mentre fai due passi in città.
La scrittura è perfetta, senza sbavature. Certo, è volgare, ma è giusto che lo sia. Da cinque teppistelli pieni di problemi non ti aspetti un eloquio da principe del foro, ma il linguaggio della strada. E i continui riferimenti al sesso sono giusti: quando, se non nell’adolescenza, il sesso è il chiodo fisso, che spaventa e attrae, esorcizzato con la volgarità, sempre inseguito, a volte catturato, ma quasi sempre nel modo sbagliato?
Le location sono quattro in croce, ma filmate da dio. Lo squallore degli ambienti urbani, il grigio del cemento, il colore dei graffiti, l’acqua. Ambienti che dicono molto dei personaggi, che non sono mero sfondo, ma parte integrante della narrazione.
Musiche scelte sempre con attenzione, ossessive o dolci, tamarre o raffinate.
Effetti speciali dosati con cura, messi solo lì dove davvero serve.
Insomma, in sei episodi io non sono riuscita a trovarci un difetto. Finalmente una serie che parla di adolescenza senza ipocrisie, con pacchi di sano cinismo e humor nero, mostrandoci i giovani per quel che sono: gente che si cerca disperatamente, senza trovarsi mai. E non occorre essere cresciuti in borgata per riconoscersi in Nathan, Curtis, Alisha, Kelly e Simon. Siamo tutti stati come loro, alcuni di noi lo sono ancora. Io, per dire, lo sono ancora, forse l’adolescenza non mi abbandonerà mai, forse sarò sempre la ragazzina che proprio non ci riesce a crescere, e per questo scrive quel che scrive.
Il tutto è riassunto perfettamente dal discorso di Nathan, in cima al tetto, verso la fine dell’episodio. La libertà di sbagliare, l’ebbrezza di sentirsi eterni ed onnipotenti, il diritto a essere liberi. Non è questo che volevamo, quando avevamo sedici anni? E i genitori non ci facevano arrabbiare perché invece sapevano sempre la verità, e ce la sbattevano in faccia ogni volta che sbagliavamo? Ecco, il discorso di Nathan è questo. Vi incollo la clip qui sotto, perché vale; è in inglese, ma per quelli di voi che conoscono la lingua non dovrebbe essere troppo un problema, Nathan ha una parlata abbastanza comprensibile. Per quelli di voi che invece non capisco, sotto metto una mia traduzione approssimativa. Ho censurato un po’ di roba, giusto per preservare le menti dei più giovani :P . Enjoy

Questa tipa vi sta facendo credere che questo è il modo in cui dovreste essere. Non lo è. Siamo giovani. Siamo fatti per ubriacarci. Siamo fatti per comportarci male e sco**re fino alla morte. Siamo fatti per fare casino. Lo dobbiamo a noi stessi di fare davvero un sacco di casino. Lo dobbiamo l’uno all’altro. È così. Questo è il nostro tempo. Ok, qualcuno di noi finirà in overdose, o diventerà matto. Charles Drawin disse “non puoi fare una frittata senza rompere un po’ di uova”. Perché di questo si tratta – rompere uova – e per uova intendo fot***si il cervello con un coktail di prima classe. Se vi poteste vedere. Voglio dire, avete addosso dei fot**ti cardigan! Avevamo tutto. E abbiamo mandato tutto a put**ne meglio e più in grande di qualsiasi generazione prima di noi. Eravamo così belli…Siamo dei cogl**ni. E ho intenzione di rimanere un cogl**ne fino ai trenta, e magari anche dopo. E mi sc**o mia madre piuttosto che lasciare che lei, o chiunque altro mi levi questo!

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Misfits

Prima di cominciare col post di oggi, qui potete leggere un po’ di aggiornamenti sulla questione che abbiamo discusso ieri.

Dunque, si torna all’antico, con un bel post di recensioni.
Dopo Lost, sono rimasta orfana. Sì, seguivo Dexter, ma non con la passione con cui mi avvicinavo a Lost; certo, c’era Desperate Housewives, che però dà una fruizione un po’ diversa, e comunque seguivo da prima del famigerato show di Lindelof&Cuse. Insomma, cercavo qualcosa di nuovo. La Fox ha cercato di ammaliarmi con torme di pubblicità: Glee su tutti (visto un episodio, carino, ma pretestuoso al massimo nel cercare con tutti i mezzi possibili e immaginabili di infilare tot canzoni in ogni puntata), e poi Walking Dead, Body of Proof, No Ordinary Family. E poi lui. Misfits.
Non lo so cosa mi abbia attirata. L’idea di base è qualcosa tra il ridicolo e il banale: cinque baldi giovanotti, riuniti per partecipare a un programma di rieducazione per minori – sono costretti ai servizi sociali per via di crimini che hanno commesso – durante uno strano temporale acquisiscono i superpoteri. Sostanzialmente la stessa idea alla base di No Ordinary Family. Solo che quelli sono good guys, questi sono i cattivi. Per cui, non è che l’idea mi attirasse più di tanto. Ma è una serie inglese, e i pochi episodi che avevo visto di Whitechapel e Life on Mars – anch’esse inglesi – mi avevano convito che in UK ci sanno fare. E così, un pomeriggio che ero costretta a casa perché mia mamma non poteva stare con Irene, ho visto il pilot.
Ora, io non lo so cosa mi abbia colpito così tanto. Ma il primo episodio mi ha convinta a seguire tutta la serie. Innanzitutto mi è piaciuta l’atmosfera scazzata e sottoproletaria, che grida UK da ogni poro. Non siamo in america, e la serie lo rimarca ogni tre per due, insistendo sul contesto degradato, e sugli antieroi che non sono duri dal cuore tenero, sono proprio relitti umani tout court. Qui non c’è nulla di edulcorato, non ci sono sconti. I nostri “eroi” sono cinque sociopatici che se li vedi per strada cambi marciapiedi. Credo sia questo il vero segreto della serie: un’atmosfera tremendamente realistica nella quale irrompe il sovrannaturale. Ma anche l’elemento da fumetto supereroistico viene trattato in modo assolutamente credibile: i Nostri fanno quel che faremmo noi se scoprissimo così, di punto in bianco, di avere i superpoteri.
Poi, finalmente un teen drama in cui i protagonisti sono ragazzi veri, non versioni ripulite e “adultizzate”. Questi sono adolescenti difficili come se ne possono incontrare davvero: sono sboccati, violenti, fissati col sesso, strafottenti, perduti. E ci si immedesima con loro perché sono vivi e vividi. Non per niente guardando la prima puntata – che al momento è anche l’unica che ho visto – mi sono ritrovata catapultata nella mia scuola media, la bellezza di diciassette anni fa, negli anni più difficili della mia vita. Io ce l’avevo in classe gente così: c’era un Nathan che ha fatto una brutta fine, e le Kelly abbondavano. E tutti noi, del resto, abbiamo mandato a puttane almeno una buona occasione come ha fatto Curtis. Ed è per questo che in qualche modo finiamo per voler bene a quei cinque poco di buono: perché magari li abbiamo incontrati nella vita vera, o perché siamo come loro, nei nostri angoli bui. Come loro siamo soli e disperati, sono il nostro lato oscuro, che non vorremmo mostrare a nessuno.
Insomma, a me sembra veramente promettente. Ieri ero tentata di vedere in diretta la seconda puntata, ma stavo lavorando – e molto bene – sul mio prossimo libro, quello off Mondo Emerso, e non volevo interrompere la vena. Comunque, se non sarà stasera, presto vedrò il secondo episodio, e allora inizierò a capire se ne vale davvero la pena, o è solo un fuoco di paglia.

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La sindrome di Lost – seconda (inattesa) parte

L’annata letteraria è iniziata molto bene, devo dire, sia perché sto leggendo molto, sia perché le cose che leggo mi piacciono. Stamattina ho finito Le Luci nelle Case degli Altri, romanzo delizioso che mi sento di sicuro di consigliarvi, e mi è tornato in mente ancora il post di ieri. Attenti che c’è qualche piccolo spoiler.
A parte la considerazione che se c’è una cosa che ad andarla a toccare si solleva un vespaio, quella è Evangelion: il post parlava di XY, o comunque portava avanti un discorso generale, e invece s’è finiti a parlare solo di quello. Ma, a parte questo, Le Luci nelle Case degli Altri mi permette di prendere ancora in mano il problema di come le trame vengano usato – o abusate – per veicolare determinati messaggi.
Il libro in questione è un puro mainstream, però è narrativa. Certo, l’importante sono le psicologie dei protagonisti, ma i loro percorsi vengono portati avanti tramite una trama, una trama che per altro ha al centro un mistero. Il mistero in qualche modo spinge tutta l’azione, ne è il motore immobile, permea le pagine.
Che succede però? Che alla fine la risoluzione del mistero non è importante. Non è importante per la protagonista, non lo è per i numerosi comprimari. È il senso del libro, il suo significato più profondo. Ma. Ma il libro termine con un’appendice, due pagine in cui i pruriti più “gossippari”, se vogliamo, del lettore vengono esauditi, e il mistero risolto. Ecco. Questo è un racconto portato avanti come si deve. Il libro sta perfettamente in piedi anche senza le due pagine finali. In questo senso il mistero è il McGuffin di cui parlava ieri un commentatore: porta avanti l’azione, in qualche modo le dà il là, ma la sua risoluzione non è indispensabili ai fini dello scioglimento e dell’intreccio e del senso del libro. Le ultime due pagine sono un surplus, una giusta chiosa che permette di aggiungere un ulteriore punto di vista alla vicenda.

Non lo so, a volte penso che forse sono troppo conservatrice, che invece di essere una scrittrice di trenta anni ne sembro una di sessanta, quanto a intolleranza sulle regole del narrare storie. Ma per me un’opera letteraria deve essere compatta: va bene Il Pasticciaccio, con un inizio ma senza fine, perché l’assenza della risoluzione al giallo trova una perfetta corrispondenza e nella filosofia del libro e nella sua lingua, in un fantastico gioco di risonanze in cui il contenuto rimanda alla forma e viceversa, ma appunto che le cose tornino, alla fine, che uno non senta di aver perso tempo in un viaggio senza scopo.

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La sindrome di Lost

Non è mia abitudine recensire i libri che non mi hanno entusiasmato. Lo era, non lo è più. Non lo so, è che da scrittrice mi sento in imbarazzo a criticare gli altri: ho così tanti difetti io che mi sento come chi guarda la pagliuzza nell’occhio altrui senza accorgersi della trave nel proprio. Capirete allora perché il post che state per leggere arriva a distanza di cinque giorni dalla lettura del libro in questione. C’ho dovuto pensare, ecco. E alla fine mi sono convinta a fare un’eccezione. Perché? Più che altro perché il libro in questione mi permette di fare un po’ di riflessioni di carattere generale, che esulano da una recensione vera e propria. Per altro, dell’autore in questione ho letto solo questo libro, che così, a naso, mi sembra piuttosto atipico per la sua bibliografia. Per dire, non mi azzardo proprio a giudicare l’autore da questo libro qua, che anzi m’ha fatto venir voglia di leggerne altri di suoi.
Innanzitutto, il titolo del post. È preso da una recensione su internet. Il libro recensito è XY di Veronesi. L’ho rubato perché, chiuso il libro, il mio parere era proprio quello del titolo: Lost ha fatto scuola. In verità, la sindrome di Lost andrebbe più correttamente chiamata la sindrome di Evangelion. Hideaki Anno è stato il primo a costruire una trama in cui l’evento misterioso è meramente pretestuoso: per venti puntate il regista ti tiene lì facendoti credere che si sta parlando di misteriosi angeli che stanno attaccando la terra, e invece nelle ultime sei ti spiega che aveva giocato, che il vero tema era l’evoluzione psicologica di Shinji, per cui la trama degli angeli viene del tutto abbandonata. Lost fa lo stesso: per sei stagioni ti fa credere che si stia parlando dei misteri dell’isola. Negli ultimi due episodi ti rivela invece che stavamo parlando dei legami che i personaggi avevano sviluppato tra loro. I misteri dell’isola? Ecchissenefrega, erano solo specchietti per allodole.
XY è molto più onesto. Parte facendoti in effetti credere che il nodo centrale del libro sia il misterioso evento accaduto a Borgo San Giuda, ma dopo un’ottantina di pagine (su 394 che ne conta il libro) il lettore scafato ha già capito che il mistero rimarrà tale, e che il problema sono la psichiatra e il prete, il loro rapporto, i loro problemi. Per cui, riflettendoci, XY non può essere del tutto ascritto al genere. Se non fosse che tutto il resto dell’impalcatura del romanzo scricchiola: infilare un evento grottesco e impossibile al centro dell’intreccio non aiuta certo a dare credibilità al discorso generale scienza vs fede. Voglio dire, in un contesto realistico come quello in cui si svolge la vicenda, che senso ha infilarci un massacro senza senso logico, che evidentemente in un mondo così strutturato non può avere luogo? La sospensione della credulità se ne parte per la tangente e il discorso complessivo perde di mordente. Voglio dire, meglio articolare un discorso sull’assurdità dell’esistenza partendo da un fatto plausibile, piuttosto che da uno ovviamente privo di logica. Mica ne mancano di fatti cui è difficile dare un senso nella nostra vita di tutti i giorni: non stiamo a interrogarci sul senso della morte, per dire, dall’alba dei tempi? Sarebbe stato banale? Dipende. Tutte le storie in principio sono banali.
Comunque, la sindrome di Lost si esplica altrove. Un terzo del libro ci parla della salute psichica della gente del Borgo. Il prete e la dottoressa ci si spendono un sacco, per altro in un mondo in cui a nessuno frega niente delle conseguenze psicologiche che l’evento ha avuto sugli abitanti del paesino, mentre loro non vogliono ignorare la tragedia, anzi, la vogliono mettere al centro della loro analisi. La sottotrama viene completamente dimenticata alla fine del libro. Che fine fanno gli abitanti di Borgo San Giuda? Boh. Guariranno? Impazziranno tutti? Perché a nessuno gliene frega più niente? Soprattutto, perché era così vitale, fino ad un attimo prima, tener conto di quanto era successo – se proprio non si voleva capirlo, come fa il prete – e ora invece non ha più importanza? Perché curare la gente di Borgo San Giuda era una cosa vitale, e adesso non lo è più?
Comunque, come dicevo in apertura di post, il discorso è più generale. Esiste la letteratura di genere, esiste il mainstream. Non sto dicendo che i due filoni non possano ibridarsi, e dar luce a qualcosa di nuovo. Dico solo però che se vuoi ibridare il genere, prima lo devi conoscere. A differenza del mainstream, il genere è codificato, e se vuoi romperne le regole, puoi farlo solo dopo averle assimilate. Nessuno parte dipingendo come Pollock: un onesto artista tipicamente inizia copiando dal vero, impara le tecniche, si fa il mazzo con la pittura naturalistica e solo allora, dopo aver compreso le regole, le rompe. E non le rompe perché fa figo (si spera). Le rompe perché le ha superate, le rompe perché le ha comprese e la vita è sempre gettare il cuore oltre il muro, un passetto più avanti.
Questo per dire che scrivere di genere non è quella cazzata che tutti pensano. Stare entro certi paradigmi ed essere al contempo originali, riuscire a dire qualcosa di nuovo usando stilemi che hanno migliaia di anni non è da tutti. E infatti non tutti ci riescono. E se decidi di prendere in prestito alcune regole del genere, dovresti attenertici.
Cosa c’entra tutto questo con XY? XY prende il prestito il mistero e l’inconoscibile dal thriller. Le prime ottanta pagine si strutturano proprio come un giallo: c’è l’evento inspiegabile – due, a essere precisi -, c’è il tentativo di indagine. Fin da principio è chiaro che l’elemento thriller servirà a dimostrare una certa tesi. E fin qui ci siamo. Il genere veicola dei contenuti esattamente come il mainstream, questo è un fatto assodato. Il problema è che il discorso viene poi portato avanti coi modi del mainstream: ossia non tramite la trama, ma tramite la mera indagine psicologica dei personaggi. In soldoni: per 300 pagine assistiamo più che altro a dialoghi, di cui uno, lunghissimo, e, lo ammetto, anche bello, anche avvincente a suo modo, che di pagine ne prenderà almeno 50. Perché questo è un problema? Perché il lettore si aspetta una certa cosa, e poi all’improvviso è costretto a resettare i propri circuiti mentali, a fruire di un’altra cosa che da lui richiede un altro tipo di approccio, proprio un’altra lettura. Il risultato è un ibrido che non fa altro che frustrare il senso del discorso generale, che ne esce pericolosamente sminuito. Senza contare che i lettori più ingenui si sentiranno presi in giro: gli hai promesso una cosa, li hai attirati col mistero, e poi li hai lasciati a bocca asciutta. Io non credo che questo fosse nelle intenzioni di Veronesi, anzi. A considerare il libro nel suo complesso direi che l’intento era solo quello di tentare una via nuova, in un gioco assolutamente onesto e scoperto col lettore. Ha fatto un esperimento, una cosa di sicuro inedita. Solo che secondo il mio parere, questa cosa non funziona. Avrebbe funzionato se fosse stato solo un thriller, o solo un mainstream. Così traballa. Un po’ meno onesta m’è parsa la casa editrice, che su questa storia del mistero c’ha montato un intero sito, che ti induce a credere che davvero conti qualcosa ai fini della trama sapere che Perla Formento soffre di sintomi depressivi ed è affetta da attacchi di panico.
Il succo della storia? Sperimentare è bene, e il libro nel complesso è godibile, l’ho letto in tre giorni senza annoiarmi – anche se in effetti avevo parecchio tempo libero, non avevo la rete e la tv non era un’opzione sul tavolo – ma nel complesso non funziona come un buon ingranaggio dovrebbe fare, e il “messaggio”, per usare una parola un po’ desueta e anche fastidiosa, non è esposto così bene da far dimenticare le pecche. E che la sperimentazione dovrebbe farla chi le regole del gioco le mastica da parecchio, e le conosce.

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Harry Potter e i Doni della Morte

Ieri sera ho festeggiato il compleanno andando a vedere Harry Potter e i Doni della Morte. Sotto casa mia. In italiano. Ragazzi, quando hai un figlio riuscire a fare una cosa del genere in mezzo alla settimana ha del miracoloso, quindi questo spiega perché abbia festeggiato in un modo che al 90% della gente sembra a dir poco usuale. Comunque. Erano la bellezza di tre anni che non vedevo un Harry Potter in italiano, non ricordavo neppure le voci…Ma la cosa non mi ha dato particolarmente fastidio. Preparatevi, perché al solito la recensione non sarà spoiler free.
Il giudizio generale è: infinito. Sarà che la sera sono stanca, sarà che ieri sera ero particolarmente stanca, sarà che ad un certo punto ho iniziato ad accusare un terrificante mal di schiena, ma più o meno all’ora e venti minuti ho iniziato a pregare per la fine. Non che sia davvero colpa del regista. Qualcuno di voi forse ricorderà che all’epoca diedi un giudizio molto lusinghiero de I Doni della Morte. Che vi devo dire, m’era piaciuto. Probabilmente era tutta colpa della figura titanica di Snape, o di quel paio di momenti bellissimi che il libro aveva (la morte di Dobby, Harry che va a sconfiggere Voldemort…). L’avevo promosso. Col tempo ho cambiato idea. Siamo alle prese con i soliti problemi del post Calice di Fuoco: libri che si protraggono oltre il tollerabile, farciti per lo più di un sacco di riempitivi, in attesa che accada un macello nel finale. Ah, e quel dark di cui sinceramente avrei fatto volentieri a meno.
Il film non riesce ad andare oltre questi limiti, con l’aggravante che tratta solo la prima parte del libro, per gli amici La Tenda. Sì, perché la tenda da campeggio è la totale protagonista del tutto. Harry, Hermione e Ron ci passano un sacco di tempo a struggercisi. Che, per carità di dio, è giusto anche che lo facciano: sono braccati, non hanno un indizio che sia uno sugli horcrux, Voldemort ha praticamente preso il potere…ma era veramente necessario perdere centinaia di pagine (e di conseguenza minuti nel film) dentro a quella cavolo di tenda per farci capire tutto questo?
Riflettiamo. Che succede in questo film? L’azione sta praticamente tutta all’inizio, che infatti è la parte migliore. Poi, dopo un’ora di proiezione circa, tutto inizia a stagnare. Con straziante lentezza scopriamo che serve la spada di Grifondoro, poi, ma sempre piano, mi raccomando, scopriamo cosa sono i doni della morte. E poi…poi il film finisce.
Ripeto, non è colpa del regista. È colpa del plot del libro. Ma il regista poteva magari scegliere altri escamotage per mostrarci che Harry non sa che fare, invece di mostrarci la vita quotidiana di Harry e Hermione in tenda per buoni quaranta minuti.
Per il resto, non ho mai amato particolarmente tutto il dark che la Rowling ha iniziato a infilare nei suoi libri a partire dal quinto. La cosa bella della saga era che era divertente, infarcita di un humor gradevole. Era una fiaba, per cui l’orrore c’era, certo, ma contestualizzato, e per questo non faceva paura. Dal quinto in poi, Harry Potter sì dà pure lui a questa mania del dark, per cui più è oscuro più è figo. Intendiamoci, da madre di eroine con ultra-complessi e con vite super-travagliate e sfigate non è che posso dire di avere qualcosa contro il dark; solo che in alcuni contesti non c’azzecca, e Harry Potter è uno di questi.
Il film pigia al massimo sul pedale oscuro. Già il logo iniziale, arrugginito, ci fa capire l’andazzo, per non parlare del proclama del ministro della magia con cui si apre il film. Ok, è bello mostrare la solitudine – soprattutto esistenziale – dei nostri (Hermione che dice a Grimmauld Place “Siamo soli”, e dissolvenza in nero, per dire, un momento riuscitissimo), accentuata anche da questo trionfo di panorami solitari, immensi, e gelati. Solo che non pare più Harry Potter. Sembra un film indipendente americano sulle adolescenze problematiche.
Però, dicevo, la prima ora tiene. Si menano come non ci fosse un domani – e in effetti potrebbe non esserci – e rimane comunque il tempo per qualche siparietto comico-ironico. Per dire, onore al casting per la scelta dei tre grigi impiegati del ministero dei quali i Nostri vestono i panni. Ecco, la parte al ministero è davvero fatta bene, un mix riuscito di azione, thriller e comicità. Tralasciamo che sa un po’ di deus ex machina che il ciondolo sia al collo della Umbridge giù al tribunale, ma non lo sia dentro l’ascensore, quando la donna è sola coi Nostri. Ma vabbeh.
Però, dicevo, dopo quella parte lì il film si spegne.
Sì, Harry sulla tomba dei genitori. Sì, la cerva nel bosco che indica la posizione della spada di Grifondoro, ma sono picchi emozionali che emergono da una palude di Tenda. La morte di Dobby non l’ho trovata così riuscita. Ma dio mio, c’è buio per un buon 70% del film, la morte dell’elfo me la devi proprio fare con tutta quella luce in mezzo ad una spiaggia? Per dire, eh. Nel libro l’avevo trovata molto toccante. Qui…boh.
Poi c’è il problema morti. Nel libro muore un sacco di gente, ma muore in modo estremamente sbrigativo, anche quando si tratta di personaggi importanti. Spero che il prossimo film rimedierà alla pecca, ma le morti appena enunciate e fuori scena del ministro della magia e di Malocchio non mi fanno ben sperare. Ok, il ministro della magia non è esattamente un personaggio cui Harry era affezionato. Ma se in Italia morisse Berlusconi suppongo che le reazioni della gente non sarebbero quell’alzata di sopracciglia che si vede al matrimonio di Fleur. Comunque meglio per me non indugiare in pensieri sconvenienti…(scherzo, eh? Io non ho mai augurato la morte a nessuno, me ne guardo bene, manco il peggiore dei bastardi se la merita). Malocchio già era un po’ più importante, e muore off screen. Vabbeh. Almeno ogni tanto Harry & co. lo nominano.
Bello il finale. Ovviamente il pericolo maggiore per un film che tratta di mezzo libro è quello di fare un mezzo film che ti lascia così. Ok, sì, rimane un mezzo film, ma la conclusione è davvero ben fatta: arriva nel punto di climax emotivo (la morte di Dobby) e avviene su una scena di sicuro impatto, che ben chiude questa prima parte e apre furbescamente alla seconda, e dà anche una compiutezza al tutto: in fin dei conti, ‘sto film ha parlato della quest di Voldemort della bacchetta.
E ora, la vera ragione per cui oggi ho parlato di questo film. Più o meno quando la mia schiena stava urlando che non ne poteva più, che era veramente straziata, e io ero al quarto sbadiglio in venti minuti, Hermione inizia a leggere la storia dei dei tre maghi. E d’improvviso da Harry Potter vengono catapultata in una dimensione parallela, completamente in un altro film, un film meraviglioso, per altro. La parte animata che racconta la storia è un capolavoro di perfezione formale ed emotiva: i colori, la forma delle silhouette, la musica, le scelte registiche sono perfette. Mi è venuta la pelle d’oca mentre guardavo.
Possono cinque minuti riscattare un film intero? Se sono cinque minuti così, sì, lo possono eccome.

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Donne, immigrati, satira. In una parola, Vieni via con Me

E anche oggi la consueta esegesi di Vieni via con Me. Non è accanimento. È che io, ogni lunedì sera, esco un po’ modificata dalla visione, e il desiderio di parlarne, di condividere le mie osservazioni, è sempre fortissimo.
Stavolta, tra le tante cose, quella che mi è piaciuta di più è stato lo spazio dedicato alle donne. È sempre commovente per me vedere in tv donne che escono dallo stereotipo imperante: l’ho pensato quando sono andata ospite a Nero su Bianco, e mi sono trovata davanti una Casella professionale, seriamente interessata a me e al mio lavoro, l’ho pensato ieri sera, quando per una volta le donne non erano lì a fare le grechine – per usare una definizione efficacissima usata nel libro Sii Bella e Sta’ Zitta -, ma a parlare della condizione femminile, uno dei problemi in assoluto più ignorati nella nostra società.
Non ho trovato la Bonino poi molto incisiva: ha detto cose giustissime e condivisibili, ma anche lei non è riuscita a sfuggire alla tentazione del comizio. Io mi domando se scrivere una lista è davvero così impossibile per un politico. Invece sono state tremende e terribilmente efficaci le parole della Camusso, che ha portato alla luce una realtà che non si conosce o si preferisce ignorare. Infinite sono le declinazioni della discriminazione della donna sul lavoro, qualsiasi esso sia, che sia tra le mura di casa o fuori. E c’era una tale rabbia, in quell’elenco, che l’ho trovato adeguato persino a me, che tutto sommato sul lavoro mi sono sempre trovata bene, ma comunque devo fare i conti col tempo che manca, con l’estrema difficoltà di conciliare il mio essere madre, moglie e donna con tutto il resto.
Splendido anche l’elenco letto dalla Morante. Verissimo. Mi odio quando mi capita di uscire la sera e ho paura di prendere la macchina. Mi odio quando rientro, e non ho il coraggio di mettere l’auto in garage per la paura di quei pochi metri del sottoscala, chiusi tra due porte, dove se uno vuole farti del male può farlo indisturbato. Mi odio ogni volta che penso che certi vestiti posso metterli solo con Giuliano, perché così so che la gente non mi guarderà troppo, non mi considererà una puttana. Vorrei essere libera, vorrei essere abbastanza forte da non aver paura, ma non ci riesco. Perché gli stupri esistono, perché gli uomini spesso ti guardano come un oggetto. E sono sicura che questi pensieri li facciamo tutte, che ciascuna di noi ha paura e non vorrebbe. Quando finirà? Non lo so. Ma presentarci per quel che siamo, come persone dotate di talenti e capacità, non come meri corpi che esauriscono le loro attrattive in un paio di tette e due chiappe, è un passo. Per questo ieri sera è stato importante.
Capitolo Maroni. I politici in quella trasmissione ci azzeccano come i cavoli a merenda. Finora l’unico che mi è piaciuto è stato Vendola, come ho già avuto modo di dire. Gli altri si rifiutano di parlarne il linguaggio, non vanno lì a indurre riflessioni, vanno lì a dare stantie risposte preconfezionate con lo sterile stile del comizio. Maroni ha detto la sua, una sua che aveva già ripetuto nei tg e in duecento trasmissione diverse in una settimana. A Vieni via con Me è andato sostanzialmente a vincere il suo braccio di ferro vigliacco con uno scrittore di trent’anni che dalla sua ha solo la forza delle sue parole. E il bello è che l’ha anche perso. Innanzitutto perché non c’era nulla di efficace nel suo discorso, tranne un tardivo apprezzamento per l’operato di magistratura e forze di polizia. Poi perché Fazio non s’è voluto far mancare un accenno alla polemica, e perché Saviano non s’è fatto mettere i piedi i testa, e ha ribadito, nel suo secondo monologo, la “parola dello scandalo”, quell’interloquire che a Maroni proprio non va giù. Comunque, contento il ministro…
Infine, Guzzanti. Io Guzzanti lo adoro. Io sono cresciuta con l’Ottavo Nano, Pippo Chennedy Show, Il Caso Scafroglia. Io Guzzanti l’ho visto dal vivo, ed è straordinario. Secondo me Guzzanti si magna tranquillamente l’ultimo Benigni, Rossi e Luttazzi. E non mi ha delusa per niente. Intanto, ho apprezzato molto che decidesse anche lui di presentarsi con un elenco. Peccato per la brevità del tutto, ma sono state risate a scena aperta. Un grande. Trentatré battute tutte memorabili, ma credo che “La camorra contro Saviano: la scorta ci impedisce un contraddittorio” sia da antologia.
E per quella storia dei senza voce, per una volta abbiamo ascoltato questi tremendi immigrati che vengono qui a far nulla, a rubarci lavoro e donne. E non mi dite che queste sono voci che ascoltiamo, perché in genere uno o ha il vicino di casa di colore, o raramente in tv vede un clandestino o un rifugiato. Vende poco a livello politico, diciamo così.
Insomma, un altro lunedì in cui è valsa davvero la pena. Meno male che non tutta la tv è così, o non riuscirei più a scrivere dopo cena :P .

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Inception

ATTENZIONE – POTREBBE ESSERCI QUALCHE SPOILER…

Sulla scorta del sentito consiglio del sempre ottimo Fab – a proposito, ascoltate la puntata di stasera di Fantasy On Air, c’è anche un mio minuscolo contributo – e delle recensioni viste in giro, venerdì sera sono andata a vedere Inception.
Ora, confesso che questo non è un periodo in cui ho voglia di film cervellotici. Sono nel mood da trame lineari, da film abbastanza leggeri, che fanno passare quelle due orette in spensieratezza. Per questo non ero convintissima della visione. Perché l’ultimo film di Nolan che ho visto è stato Memento. Molto bello. Originale. Con una struttura da paura. Ma adesso non potrei. No, proprio non potrei mettermi lì a vedere una cosa del genere.
Fatta la premessa, devo dire che invece mi sono ricreduta. Inception è il film d’intrattenimento perfetto. Quando uno va a vedersi un thriller, un film d’azione a cinema, si aspetta una cosa così. Peccato che una cosa così esca una volta ogni due anni se hai culo, spesso anche di me. In cambio, effetti speciali a paccate, trame con voragini paurose, sceneggiature risibili.
Intendiamoci, i suoi difetti Inception ce li ha. Ok, i personaggi non è che siano esattamente la profondità personificata. Anzi, a parte Cobb, per la maggior parte sono dei chiari stereotipi: il preciso, la fanciulla piena di grinta, il piacione, il figlio mazzolato dal padre magnate…Ok, c’è un eccesso di spiegotti. La prima mezz’ora di film è come l’enunciato di un teorema: sta lì a porre le premesse necessarie per la visione. Ok, qualcosa non torna: perché quando loro son tutti lì sballottolati nel pulmino non si svegliano? Il chimico dice esplicitamente che la droga permette di essere risvegliati se si casca di lato, o in avanti, o indietro.
Ma sapete una cosa? Chissenefrega. Tutti questi difetti non inficiano il piacere della visione. E questo è il punto di qualsiasi opera che faccia della trama il veicolo principe della sua poetica. La coerenza, la verosimiglianza non potranno mai essere assolute: dio è quello che crea un mondo in cui tutto torna perfettamente dal punto di vista logico, o non staremmo qui a indagarlo con la matematica e la fisica. Un regista, uno sceneggiatore, uno scrittore una cosa del genere non sarà mai in grado di farla. Ma se è bravo, se è davvero un affabulatore, riuscirà a farti sospendere l’incredulità quel tanto che basta a passare sopra alle inevitabili incongruenze. Se stai a chiederti come fa un professore di Harvard a buttarsi da 3000 m usando come paracadute un telone tenuto su con le mani, beh, evidentemente lo scrittore non è stato abbastanza bravo a coinvolgerti con la trama. Ma non è il caso di Nolan. Nolan ha un controllo assoluto, spaventoso della materia che tratta. I film di Nolan sono monoblocco, hanno una compattezza che fa spavento. Tutto torna. E non nel senso che non ci sono le incongruenze. Nel senso che la trama è chiusa, sa in ogni momento dove sta andando, e soprattutto c’è una corrispondenza assoluta, impressionante tra forma e contenuto. Pensateci. The Prestige parlava di magia, ed era strutturato esattamente come un numero di magia: c’è la promessa, c’è la svolta, c’è il prestigio. Memento parlava di memoria, e come la memoria è frammentato: infatti tutto viene percepito esattamente come lo vede Leonard. E così Inception è un sogno. Dopo un po’, dopo molto poco, inizi a guardare tutto cercando di capire. È un sogno? È la realtà? Sono in grado di distinguere? Questo perché la prima mezzora ti spiazza, catapultandoti in un gioco di scatole cinesi. Da allora sei catturato. Da allora sogni anche tu. E in questo senso il finale non è un semplice “non sapevo come concludere, ho finito così”, come ha detto qualcuno. No. È che il film parla dell’impossibilità di distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, e dunque lo spettatore non può capire se sta sognando o è sveglio. Fa parte del gioco.
Per il resto, ogni cosa nel film è piegata alle esigenze dello sviluppo della trama. Non c’è un elemento stilistico che non serve l’intreccio. Il rallenty. L’odioso bullett time, che in Matrix ci piaceva anche, ma dopo è diventato un must di ogni film d’azione, per cui se non c’è la scena in bullett time non à action. In Inception serve. Sta solo dove ha un senso. E non vi sto a spiegare il perché, dovete vedere il film. E non ha un senso stilistico: no no, serve proprio ai fini della trama. Gli effetti speciali. Il cancro del cinema d’intrattenimento. Li infilano ovunque, sempre più grandiosi, sempre più verosimili, sempre più francamente pallosi. Ormai ho visto tutto a cinema. Voglio dire, la scorsa settimana mi sono rivista le 12 ore delle versioni estese de Il Signore degli Anelli. Un film di quasi dieci anni fa. Da allora non è stato fatto un solo reale passo avanti negli effetti speciali. ISDA m’ha già fatto vedere tutto. Ecco, in Inception ci sono pochi effetti speciali, tutti al servizio di scene ad effetto che servono ai fini della trama. Eppure, ragazzi, siamo nel mondo dei sogni, poteva inventarsi roba assolutamente allucinatoria, lisergica. Invece no, perché l’aspetto visivo non deve distrarre dall’intreccio, che è il vero fulcro di tutto. E, intendiamoci, le scene da whoa! ci sono, per quanto quella che mi ha colpita di più – il treno, per chi ha viso il film – sia in fin dei conti la più banale. Ma non stanno lì a distrarre lo spettatore.
Anche il fatto che i personaggi siano stereotipi è una cosa completamente voluta: che c’è di male nell’archetipo? Voglio dire, saranno quattro in tutto le storie che si possono raccontare, e due sono di formazione, per cui tutto il resto è chiosa, punto di vista dell’autore, capacità di affabulazione. Nolan piglia un tema seminale (cosa è vero? Cosa non lo è? Posso fidarmi della mia percezione?), cinque personaggi stra-abusati, e ci costruisce su un piccolo gioiello, che proprio per il suo essere così archetipico, ti acchiappa dall’inizio alla fine.
Poi possiamo parlare di tematiche più profonde. Nolan parla sempre di ossessioni. Il Leonard di Memento è ossessionato dalla vendetta, Batman è ossessionato da un distorto senso di giustizia, Angier e Borden sono ossessionati dall’illusione perfetta, e dalla loro rivalità. E Cobb è ossessionato da Mal. Il gioco è scoperto, ce lo dice Cobb stesso, nella frase più famosa del film: “Qual’è il parassita più resistente? Un’idea. Una singola idea della mente umana può costruire città. Un’idea può trasformare il mondo e riscrivere tutte le idee”.
E poi possiamo anche dire che Nolan ha la straordinaria capacità di costruire una mitologia: crea mondi pieni di elementi in qualche modo seminali, simbolici, che restano nella mente dello spettatore. I tatuaggi sul corpo di Leonard, la trottolina di Cobb. I nomi stessi dei personaggi richiamano questa dimensione archetipica (l’archietto, il chimico, il falsario).
Insomma, un gran bel film. Ok, non un capolavoro. Ma una cosa dalla quale ogni scrittore di genere ha un sacco da imparare.

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