Sarà un post fiume. No, per avvisarvi. È che a volte in quattro giorni succedono cose che neanche in un anno. O almeno, hai l’intelligenza di viverteli con grande intensità, in modo da stamparteli dentro e ricordarli. Un viaggio è sempre un’esperienza di vita. I miei viaggi lo sono sempre stati. Non ricordo chi diceva che quando torni, poi, non lo fai mai davvero dal posto in cui sei partito, se il tuo viaggio ha avuto davvero un senso, se ti ha cambiato, se ha aggiunto un pezzettino alla tua vita. E devo dire che un sacco di volte non sono tornata esattamente a casa. E questo al di là della mia totale insofferenza per gli spostamenti, gli aerei, i treni, le macchine.
Dividerò il tutto in capitoli, così se vorrete potrete leggere un pezzo per volta quando vi va, o leggere solo qualcosa e tralasciare il resto.
Tanto per concludere il cappellotto introduttivo, vi ricordo la meta di quest’ultimo viaggio: Atene, per l’uscita in Grecia del mio primo libro.
1. La forza delle parole

Quando ti siedi alla scrivania e inizi a scrivere un libro, in genere non ponderi tutte le conseguenze del gesto. Nelle tue fantasie più sfrenate, leggeranno le tue fatiche al massimo i tuoi genitori e il tuo fidanzato, se proprio se un tipo estroverso i tuoi amici. E invece. Invece le parole, le storie, sono il mezzo di trasporto più veloce che ci sia. Se azzecchi la chiave, se per qualche misteriosa alchimia, che sia semplice fortuna o talento, riesci a far vibrare una certa corda, le tue storie prendono il volo, macinano chilometri su chilometri, e ti portano dove non avresti mai pensato di arrivare. I miei libri arrivano prima di me. Fanno il giro d’Europa, si affacciano in oriente, e toccano persone, sfiorano luoghi. E mi conducono con loro, metaforicamente e fisicamente. Da quando scrivo il mondo mi si è spalancato davanti, dall’Italia all’Europa. Ho scoperto luoghi di cui neppure immaginavo l’esistenza, persone che non avrei avuto altro modo di conoscere. E tutto perché uno racconta una storia, uno dei gesti più antichi e seminali che esistano.
Un sacco di anni fa, c’era gente in una penisola del mediterraneo che si raccontava delle storie bellissime, che, come mi ha detto qualche giorno fa VioVyb, dicevano già tutto sulla nostra natura di uomini. Milioni di persone sono cresciuti da allora con quelle storie, le hanno sentite proprie, ne sono stati influenzati volenti o nolenti. Siamo intrisi di miti, noi occidentali, ci portiamo dietro l’anima pagana di quei tempi nel nostro modo di pensare, persino nel nostro modo di pregare i santi. E un bel giorno, la mia misera storia, che deve tanto a quelle storie straordinarie, approda in quella penisola. È un cerchio che si chiude.
Eleusi è una città dell’Attica, famosa per il culto di Demetra.
Le Ondine sono divinità marine, figlie di Nereo.
Laio è il padre di Edipo, protagonista della più straordinaria delle tragedie greche, L’Edipo Re.
Learco è un altro personaggio mitologico dal destino sventurato, ucciso per sbaglio dal padre.
Per dire quanti debiti io paghi alla Grecia.
Per questo il mio ultimo viaggio ha avuto un sapore particolare, di ritorno a casa. Là dove tutto è iniziato. E non solo perché fisicamente noi come occidentali, noi come italiani addirittura, stando a quanto dice Virgilio, siamo nati lì. Ma perché le mie storie provengono anche da quei posti, e ad essi anelavano tornare.
2. Aerei e aeroporti
Non ne posso più degli aerei e degli aeroporti. Non è paura di volare, o non solo quello. È che gli aeroporti sono dei templi dedicati all’attesa senza costrutto. Una specie di limbo infernale in cui non sei in realtà in nessun luogo. Si assomigliano tutti: stessi negozi, stesso scintillare insopportabile di vetrine, stessi cartelli. Ok, ogni tanto cambia il carattere: a Roma caratteri latini, ad Atene caratteri greci. Ma stop. Gli aeroporti sono quei posti fatti apposta per farti desiderare ardentemente di tornare a casa. Anche se il viaggio è stato splendido, e, sbracata davanti al Tempio di Dioniso, sull’Acropoli, hai seriamente pensato di chiedere asilo politico. Non conta. Davanti al gate desolatamente vuoto sebbene l’ora dell’imbarco sia passata da un pezzo, pensi una cosa sola: voglio andare a casa.
Un’ora di ritardo sulla tratta Roma Atene, due su quella Atene Roma. Il volo dura un’ora e quaranta minuti. E non è manco questione di compagnia aerea. Su un’ora di volo la Lufthansa m’ha dato due ore di ritardo. Forse sono sfigata io. Non lo so. So solo che mi prende a male pensare che tempo dieci giorni e mi tocca un altro volo, stavolta con scalo. Qualcuno si ingegni a inventare il teletrasporto, per favore.
3. Atene

Se dite che state per andare ad Atene, di sicuro qualcuno vi terrorizzerà. Vi diranno che è un posto dove il caldo toglie il fiato. Vi diranno che c’è un inquinamento allucinante e un casino folle. Vi diranno che tolta l’Acropoli, che comunque, sotto sotto, non è poi ‘sto granché, non c’è niente.
Ok. Non ci credete. A fare caldo fa caldo. Il sole picchia di brutto, e c’è una luce incredibile. Avevo visto una luce così accecante solo in Sicilia. Il sole è una presenza tangibile, sull’Acropoli persino al tramonto tutto è di un bianco abbacinante. Fare foto è stato complicatissimo. Dall’ombra alla luce ci sono variazioni incredibili, cambi di esposizioni e sensibilità che non avete idea. Ho la macchina fotografica piena dello stesso soggetto ripreso con duecento impostazioni diverse. Ma è secco. Infinitamente più secco che a Roma. Per questo si sopporta. Io, donnina incinta col fiatone perenne, sono riuscita a sopravvivere muovendomi per Atene alle due e mezza del pomeriggio. Per dire. Il termometro segnava 36 gradi tondi tondi.
L’inquinamento di Roma è peggio. Quando vado in centro torno tipicamente con la gola in fiamme. Ad Atene no. Il traffico c’è, e il casino è quello di una qualsiasi paese mediterraneo. Se siete stati a Napoli o sulla costiera Amalfitana, o comunque sul mare da Roma in giù, avrete capito cosa intendo. È il caos della gente come noi, nata sotto ginepri e pini marittimi, che in estate ci chiudiamo nella stanza dello scirocco per sopravvivere all’afa, e di sera mettiamo le sedie in mezzo alla strada per sparlare coi vicini.
E L’Acropoli è indescrivibile. L’Acropoli è l’inizio e la fine di ogni cosa. È un posto che entri e sai di appartenerle. Altro che “niente di che”. Poi ci tira un venticello fantastico, che viene dal mare, e c’è quell’odore dolce e resinoso di macchia mediterranea. E anche se togli l’Acropoli, Atene è sempre un bel posto. Per i vicoli, la luce, i mercati, la generale aria di allegria. L’ultimo avamposto dell’occidente, aperto all’oriente, odorosa si miele e mare, speziata, piena di gusti forti. È un posto in cui è bello stare. È un posto da visitare.
3.1 Cose che voi umani…
Una mattina ce ne siamo andati in questo mercato. Che non è quello della foto. Lì è sotto l’Acropoli, vicino alla Biblioteca di Adriano, in quella zona caratteristica di Atene che si chiama Plaka. L’ho messa perché mi piace, secondo me coglie lo spirito della città. Ma comunque. Siamo andati in questo mercato. Che vende principalmente carne e pesce, e, nelle zone esterne a quella coperta, anche spezie, frutta secca et similia. È un’esperienza unica. Ci puoi fare uno studio dell’anatomia, in quel mercato lì. Quarti di capretti e conigli, maialini da latte, conigli, interiora di ogni genere appesi a ganci. Larghe fette di carne, coltellacci che tagliano quarti di bue…Un trionfo di sangue e carne, una cosa che detta così probabilmente fa impressione, ma che è così colma di vita, di rituali antichi e moderni, di sapori e odori…I conigli macellati sono completamente scuoiati, come da noi (sì, lo so, non è una bella immagine

) fatta eccezione per le zampe e la coda, che mantengono la pelliccia. Mi hanno detto che i macellai lo fanno per fugare il dubbio che non di coniglio si tratti, ma di quelli che da qualche parte si chiamano conigli dei tetti…che per altro i gatti ad Atene sono magrissimi. Non so perché. Assenza di topi? Evoluzione genetica?
Per le spezie e la frutta secca, non si può avere la benché minima idea della varietà. Ci sono negozietti piccoli stipati fino al soffitto di bustine di ogni genere e specie. Hanno bastoncini di cannella che sono rami veri e propri, giganteschi, frutta secca d’ogni genere e duemila varietà diverse di olive. Piccole, grandi, verdi, nere, secche, in salamoia, tutte buonissime. Un trionfo di sapori e odori. Ho comprato un mix di spezie che ha profumato la mia camera d’albergo in una serata sola. Confesso invece di aver dovuto desistere sulla soglia del mercato del pesce. Ok, la gravidanza non è una malattia, ma ormai ho l’odorato di Spiderman, e l’odore di pesce mi dà parecchio fastidio, tanto che ho persino difficoltà a mangiarlo.
3.2 Atene by night
Una delle cose più piacevoli di questo viaggio sono stati i miei ospiti, di cui per altro parlerò diffusamente più in là. Non avete idea di quanto sia diverso visitare un paese in solitudine, con unica guida quel che si trova su internet, e farlo con la compagnia di qualcuno che lì ci vive. La prospettiva cambia completamente. Anche perché viaggiare significa anche incontrare altri popoli, e fare nuove conoscenze, e per conoscere davvero lo spirito di un luogo quattro chiacchiere con chi quel posto lo rende vivo le devi scambiare. Per questo non sarò mai abbastanza riconoscente nei confronti dei miei ospiti, che sono stati davvero incredibilmente gentili e pazienti con me.
E poi, uno che in una città ci abita ti può portare in posti di cui ignori l’esistenza. Come questo bar, che sta sull’Hilton di Atene. A parte che già l’albergo in sé è un bel guardare (avete presente il Boomerang del gioco da tavola Hotel? La forma è quella lì), al tredicesimo piano c’è una terrazza, e lì c’è un bar. Lo spettacolo che si gode da lassù è quello della foto di apertura. Una cosa da brividi. Appena sono salita e mi sono affacciata alla balaustra m’è mancato il fiato. L’Acropoli, in tutto il suo sfavillante splendore e nella sua austera eleganza, che naviga sul mare di luci della città di notte. Perché poi Atene è sconfinata, riempie tutta la piana, una città completamente bianca che si stende verso il mare. C’era un bel vento che ci ha ripagato del caldo della giornata, e questo panorama meraviglioso, che non ti stancavi di guardare.
3.3 L’Acropoli e annesso museo
Ovviamente, l’Acropoli è una tappa obbligata. Ci siamo saliti di pomeriggio, in modo da avere un po’ più di fresco. Ugualmente tutto splendeva di un bianco abbacinante. Il marmo con cui sono costruiti gli edifici sull’Acropoli è molto diverso da quello cui siamo abituati a Roma; il risultato è che il Propileo, L’Eretteo e il Partenone hanno questa splendida sfumatura rosata che al tramonto diventa ancora più evidente.
Ora, innanzitutto già è splendido il colle dell’Acropoli; una rocca rocciosa e aspra, punteggiata di ulivi, che si innalza dai declivi più dolci sui quali la città è adagiata. C’è qualcosa di sacrale nella sua posizione e nel suo aspetto, nella via impervia che vi conduce, nelle mura austere che la circondano. Probabilmente fu per questo che gli ateniesi decisero di costruire proprio lì i loro templi.
Poi, quando ci metti piede, ti rendi conto che sai facendo un viaggio nelle tue origini. Visitare l’Acropoli non è solo guardare un po’ di rovine, stupirsi per l’immensità del Parenone o per l’eleganza dell’Eretteo: è fare un pellegrinaggio mistico, rendere omaggio alle sorgenti del nostro essere, a quel luogo nel quale siamo stati forgiati come persone, in cui il nostro essere pian piano si è sviluppato. E in questo senso è ancora un luogo sacro, un posto cui ci si avvicina con atteggiamento orante. È come tornare dalla propria madre.
Tutto sommato mi ha stupito il grado di conservazione del tutto. A Roma, per esempio, se uno guarda il Colosseo si rende conto di quanto il marmo sia smussato, i contorni poco netti, la costruzione in complesso massacrata dagli anni e dall’incuria dei secoli passati, nonché dagli innumerevoli furti; buona parte della Roma più moderna è fatta con la calce tirata fuori dai marmi dei Fori e del Colosseo. Le colonne del Partenone invece hanno mantenuto intatto il loro splendido colore, e gli angoli delle incisioni sono perfetti, acuti, inalterati. Tutto si staglia con straordinaria precisione sul bianco della roccia e l’azzurro profondo del cielo.
La cosa che mi è piaciuta di più è l’Eretteo, quello con le famose cariatidi che avrete tutti presente. Non è imponente come il Partenone, e se ne sta in una posizione più defilata, ma è così elegante, così austero nella sua silhouette slanciata. Un luogo ombroso dove è piacevole sostare.
E poi ci sono i teatri. Quello di Erode Attico e quello di Dioniso. Leggi le targhe che li presentano e scopri che quelle tragedie che ti hanno appassionata da ragazzina, e che ancora adesso ti fanno tremare il cuore, sono strate rappresentate lì per la prima volta. Lì è passato Sofocle. E quelle scale che stai facendo avranno visto, chissà, i piedi di Socrate, la cui figura ti ha sempre affascinata. Sono passati tutti di lì, e sebbene il tempo abbia cancellato le orme dei loro passi, quel che resta dei loro corpi, sono ancora con te, in quel che sei e in quel che pensi.
Per quel che riguarda il museo, si passa al regno della botta di culo clamorosa, o probabilmente dell’acuto calcolo da parte dei miei ospiti. Fino a un po’ di tempo fa, i reperti trovati sull’Acropoli erano ospitati da un museo piuttosto piccolo, decisamente inadeguato alla mole dei reperti. Il 21 giugno, mentre io atterravo finalmente all’aeroporto Venizelos, veniva inaugurato il nuovo, fantastico museo dell’Acropoli. Che io ho visitato ieri.
Atene è un po’ come Roma. Appena scavi, vengono fuori rovine di un po’ tutte le epoche, dalla preistoria ad oggi. È il destino dei luoghi così intrisi di storia e così antichi, abitati fin da tempi remoti. Per cui, costruendo il nuovo museo sono saltate fuori le rovine di un’intera città, con tanto di suppellettili varie. Riempiono la sala d’ingresso, che è immensa. Il resto, sono reperti ritrovati sull’Acropoli, anche questi risalenti alle diverse epoche della civiltà greca. E, anche stavolta, è stato l’Eretteo con le sue cariatidi a catturarmi completamente. Una cosa interessante del nuovo museo è che i reperti non sono addossati al muro. Non so, se siete mai stati ai Musei Capitolini avrete presente che lì le statue sono in fila lungo le pareti. Questo significa che se ne può tipicamente osservare solo il lato A, almeno per la maggior parte di esse. Al Museo dell’Acropoli ai reperti ci si gira intorno, e le cariatidi possono essere ammirate a 360°. E ne vale la pena. La ricchezza del panneggio delle vesti, la cura straordinaria con cui sono state scolpite le complicate pettinature, l’idea del movimento che riescono a rendere nonostante la complessiva ieraticità della figura. Un capolavoro.
Poi ci sono i fregi del Partenone. In pratica l’ultimo piano del museo è una riproduzione 1:1 della pianta del Partenone, orientata come il tempio, e contiene tutto quanto si è salvato del fregio dello stesso. Che è un’opera ciclopica: considerate il fregio dei due frontoni, poi le metope del fregio esterno e di quello interno. Alcune sono ancora sul Partenone, altre se l’è prese il British Museum (è una lunga storia…) una sta al Louvre, e le restanti, per fortuna, sono ancora ad Atene. Sono la maggior parte, ma devo dire che l’assenza di quelle del British Museum si fa sentire, sebbene ci siano dei calchi che impediscono l’interruzione del flusso del racconto. Perché, ovviamente, il fregio racconta una storia: la lotta tra Atena e Poseidone per il patronato sulla città e la nascita di Atena sui due frontoni, la Gigantomachia, L’Amazzonomachia, la Centauromachia e la Guerra di Troia sul fregio esterno, le feste Panatenaiche e la loro preparazione in quello interno. Una specie di libro su pietra, insomma.
Ho provato a cercare di immaginare l’intera decorazione sul Partenone, ed è qualcosa che la mente stenta a concepire, pur con l’ausilio di tutte le ricostruzioni e i modellini di questo mondo. Doveva essere qualcosa da togliere il fiato.
4. Parlare inglese

Quando avevo sedici anni, questa forse la sapete già, partecipai ad un forum mondiale della gioventù organizzato dalla FAO, parallelamente al “forum dei grandi” che si teneva a Roma in quel periodo. All’epoca sapevo solo il francese, e per quattro giorni mi sono ritrovata a parlare solo quella lingua, tra amici africani e libanesi. Il mio francese non era un granché, ma la voglia di comunicare tanta, per cui mi buttavo e cercavo di parlare il più possibile. Tornai a casa che sognavo in francese, e mi veniva automatico parlarlo ogni tanto.
Ad Atene è stato un po’ lo stesso. L’inglese mi piace. Guardo la maggior parte delle serie tv che amo in lingua originale, se posso leggo libri in inglese, ed è la mia lingua di lavoro. All’università ho studiato su libri in inglese, gli articoli li scrivo in inglese. Nonostante questo, per me non è esattamente una lingua viva. È che non ho davvero occasione di usarla e parlarla. Mi capita solo ai congressi, e anche lì me ne sto defilata, parlo solo se interrogata e per il resto faccio il mio talk cercando di limitare i danni. Perché, sostanzialmente, mi vergogno del mio inglese. O meglio, ho paura ad usarlo. Penso che tutti lo sappiano meglio di me, penso che il mio faccia schifo. Molto Licesco, se ci pensate. La prima volta che ho sentito l’editor della casa editrice greca è stato a telefono, e mi è preso il panico. Cioé, non solo parlare inglese, ma pure per telefono. Ma devo dire che me la cavai, postai anche trionfante la notizia sul mio facebook.
Stavolta ad Atene non avevo scuse. O tiravo fuori il mio inglese o facevo scena muta. Per cui, per quattro giorni non voglio dire che ho parlato solo inglese ma quasi. Ed è stato un po’ strano, un po’ faticoso e un po’ esaltante. Parlare della tua personale poetica, di cosa pensi del fantasy, della tua scrittura, in una lingua che non è la tua è incredibilmente difficile. Se l’avete mai provato sapete a cosa mi riferisco. Ma la possibilità di parlare di questi argomenti con persone che hanno ovviamente un punto di vista differente, scambiarsi opinioni, confrontarsi, è esaltante. Ti dà l’idea di avere il mondo a portata di mano.
È vero, non è detto che dovunque tu vada l’inglese di salverà. In Spagna lo usi col 50% della popolazione, con gli altri ti arrangi, in Russia forse anche meno. Ma è la tua ancora di salvezza. Il tuo unico modo per cercare di capire un po’ il mondo e le infinite popolazioni che lo abitano. E in Grecia funziona bene, devo dire. D’altronde, loro non doppiano i film: li vedono in lingua coi sottotitoli. Che fa una bella differenza, direi.
5. La cucina
In genere, quando si pensa a cucine estere particolarmente buone, uno si butta sempre su quella francese. Nel mondo credo sia più rinomata di quella italiana. Ora. La cucina francese non è male. Les escargots sono molto buone, le crȇpes suzettes hanno il loro perché. Però, per il mio palato, le culture dell’olio d’oliva sono assolutamente superiori a quelle del burro. Non c’è proprio paragone. Per quel che riguarda il mio gusto, nulla può battere il trionfo di sapori della cucina dei popoli mediterranei, così ricca, gustosa, piena di inventiva. Profumi, odori e colori che non sono mai trovato nel nord europa, per dire. E a me la cucina bavarese piace, ve lo ricordate. Ma la cucina greca è ad un altro livello.
Per dire, sono diventata dipendente dallo tzatziki. È una cosa troppo buona. È una salsa di yogurt e cetrioli, così dannatamente fresca, così terribilmente profumata d’aglio…Ho deciso che devo imparare a cucinarla. Oppure la baklava, così deliziosamente mieloso. Il miele c’è un po’ i tutti i dolci greci, così come la frutta secca. Essendo un amante di entrambi potete immaginare la mia gioia. La mattina di lunedì mi sono svegliata con in bocca sapore di tzatziki e baklava. Mi rendo conto che l’abbinamento può sembrare piuttosto azzardato, ma ne avevo mangiato un sacco di entrambi.
La pita, poi, che è una specie di pizza in genere bella oliosa, è imperdibile. Ma vogliamo parlare delle insalate? Una festa per gli occhi, col rosso dei pomodori, il viola delle cipolle, il nero delle olive e il bianco di quella splendida fetta di feta che in genere sta in cima al piatto, il tutto colorato da un filo di olio dorato. Un giorno ho provato la versione cretese: da Creta vengono questa specie di fantastiche freselle (sono identiche a quelle che si trovano in campania) che vengono ammollate nell’acqua. Sopra c’era una cascata di pomodori tagliati fini, capperi, olive e una pioggia di bianca feta tritata. Estivo, fresco e assolutamente sostanzioso.
Comunque, l’esperienza definitiva a livello di cucina l’abbiamo fatta la sera di martedì. I nostri straordinari ospiti, infatti, ci hanno portato in questo ristorante che serve piatti cucinati usando solo materie prime che esistevano all’epoca degli antichi greci. Via quindi pomodori, patate, zucchero et similia. Vicino ad ogni piatto del menù, un brano classico nel quale la ricetta veniva citata. Vi dico solo che abbiamo mangiato solo con cucchiaio e coltello, perché la forchetta è di origine bizantina. C’era persino il menù in greco antico, che ormai mi risulta incomprensibile più o meno come quello moderno (ah, i bei tempi della maturità, quando traducevo Platone e Omero…). È stata un’esperienza straordinaria. C’era molto agrodolce, e io adoro l’agrodolce. Giuliano si è innamorato di questo piatto, la fava (ok, lo so, per un romano suona male
), che è una crema di un legume piuttosto raro in Italia, la cicerchia. Mi sono procurata una bustina anche di quella, così provo a preparargliela. Io invece sono rimasta rapita dal vino col miele, una vera delizia. Prima che qualcuno insorga circa il mio attuale stato (non si beve in gravidanza!), rassicuratevi, era un bicchierino da aperitivo. È praticamente il primo alcol che bevo da quando sono incinta, anche se in verità potrei bere un bicchiere di vino al giorno.
Ora mi sono messa in testa di cucinare un giorno una cena greca. Mancheranno probabilmente gli odori di quella terra, e sì, lo yogurt greco che si trova in Italia è cugino di quello che si vende in Grecia, ma ci voglio provare. Così, per ricordare un viaggio che è stato anche un pellegrinaggio del gusto.
6. La presentazione
Quando ho cominciato la mia attività di scrittrice, le mie presentazioni erano posti un po’ desolati. La prima, in quel della Fiera del Libro di Torino, contava sulle 20 persone, ma ce ne furono altre, dopo, con assai meno astanti. Ne ricordo una in cui eravamo tipo in tre.
Niente di strano. Sei un pischello, nessuno ti conosce, devi ancora farti il tuo pubblico. In genere questa situazione si ripresenta all’estero. Non sei esattamente Dan Brown, per cui in genere è un successo se nella tua prima presentazione fuori dai confini patri conti venti, trenta presenze a incontro. Per cui potete immaginarvi lo stupore quando mi sono trovata davanti la folla di cui la foto. Non avrei immaginato una presenza così massiccia di pubblico neppure nelle mie fantasie più sfrenate. Eravamo all’Istituto di Cultura Italiana, per la cronaca, e, sempre per la cronaca, se trovo tempo entro stasera posterò un po’ di foto ulteriori sul sito. Per altro mi accorgo adesso che eravamo tutti vestiti di nero, tipo gran sera
.
La sorpresa non è comunque stata solo la folla, che pure è stato un bel colpo. La sorpresa è stata la partecipazione della gente all’evento, e le parole che quella sera sono state dette. Innanzitutto ho avuto modo di conoscere la traduttrice del mio libro, Evi Tsekoura (l’avrò scritto bene? In greco è Εύη Τσεκούρα, vedete un po’ voi). È sempre bello conoscere i traduttori. In qualche modo ti rendi conto che fanno parte del processo creativo assai più di quanto un lettore possa immaginare; quando parlano di un libro che hanno tradotto c’è sempre una sorta di affetto nelle loro parole, che per uno scrittore è qualcosa di fantastico. Voglio dire, il traduttore ti dà voce in un’altra lingua, un processo complicato, passibile di moltissimi errori, un traduttore, un bravo traduttore, in un certo qual modo “riscrive” la tua storia per un altra mentalità, per altre terre e altri popoli. Per me è stato fantastico ritrovare nelle parole di Evi una serie di tematiche che avevo cercato di infondere nei miei libri. Fare lo scrittore, soprattutto di genere, a volte è un po’ frustrante. Ovviamente il tuo primo obiettivo è divertire il pubblico, lo sai, ma questo non significa che tu non abbia anche l’aspirazione a “dire qualcosa” con la tua storia. Si scrive per comunicare emozioni ed idee. Ma non sempre questa cosa viene colta. Un sacco di volte passa solo la mera trama, e tutti, nel bene e nel male, si concentrano su quella. Ne abbiamo parlato una sera anche con Elias Chountalas, che è stato la persona della casa editrice con cui più ho interagito in questi giorni, e che poi è il ragazzo all’estrema sinistra del tavolo. Per la cronaca, nella foto postata Evi è la seconda da sinistra. Questo può anche significare che non sei stato abbastanza abile da riuscire a mettere in luce il contenuto, ovviamente. Fa parte del gioco. Per questo per me è stato fantastico sentire che alcune, parecchie delle cose che mi stavano a cuore mentre scrivevo la storia di Nihal erano passate, ed erano passate persino per qualcuno che vive a migliaia di chilometri dal posto in cui quelle storie sono state scritte. Per qualche istante mi sono illusa di essere riuscita in una piccola parte del compito che più o meno ogni scrittore si propone: essere un pochino, almeno un pochino, universale.
È stato molto interessante ascoltare anche Stella Pekiaridi (pure qua, non sono sicura della traslitterazione…la vedete all’estrema destra del tavolo, in foto), che ha parlato dei problemi della traduzione in generale, e del fantasy in particolare.
Non so, a volte ho l’impressione che il fantasy sia preso un pochino più sul serio all’estero che qui in Italia. Sento fare molti più discorsi sui contenuti, sulla discendenza dalla mitologia, e altre cose “serie” del genere che in Italia in genere la gente dice sottovoce, per tema poi che qualcuno le rida dietro. Lunedì sera sono passate da noi al pubblico con grande naturalezza. Per cui, alla fine, quando è toccato parlare a me, ho cambiato il discorso che mi ero preparata (preparata è una parola grossa; avevo pensato a due o tre cose da dire, poi in genere vado a braccio). Perché ho capito delle cose ascoltando gli altri relatori, mi sono resa conto di quanto per me fosse importante essere lì, ed esserci in quel momento. Tra l’altro la cosa divertente era che avevo una traduttrice simultanea (bravissima, la vedete al mio fianco della foto, la sig. Stratou, sempre traslitterazione perdonando). È stato molto piacevole poter seguire passo passo quando veniva detto intorno a me. Non c’è stato un momento in cui mi sia sentita tagliata fuori, la lingua non era un problema ed è stato uno spasso.
Ma c’era ancora una sorpresa per me. Ora, quando nessuno ti conosce, quando per altro sei pure in terra straniera, non è che le curiosità a tuo riguardo abbondino. È un classico che alle prime presentazioni nessuno ti faccia domande. Almeno, in Italia funziona così. In Grecia non direi. C’erano un sacco di mani alzate. Qualcuno non è neppure riuscito a fare la domanda perché abbiamo dovuto chiudere l’incontro per esaurimento del tempo. C’è stata anche l’immancabile “quanto conta l’astrofisica nella tua scrittura” che mi fanno veramente dappertutto, dagli Appennini alle Ande, tanto è vero che l’ho anche detto.
Insomma, è stata una serata dannatamente piacevole, calda, in cui mi sono sentita accolta. Non è mica poco. E le persone dell’Istituto di Cultura Italiana, gli organizzatori, sono stati fantastici. Davvero, sono tornata da questo viaggio con debiti di riconoscenza giganteschi verso un sacco di persone. Non avete idea di quanto sia bello vedere la passione premiata, l’impegno riconosciuto, e tutto funziona come deve, tutto gira per il verso giusto. Ed è stato fantastico provare queste sensazioni così lontano da casa.
Il resto del post potrete leggerlo domani (oggi non ho fatto in tempo
). Nel frattempo, un paio di notizie.
Sulla home page di Repubblica.it potete sentire un mio breve e sconnesso commento sulle tracce dell’esame di maturità. Il link è questo.
Meltin’ Pot ha pubblicato una mia intervista; la potete leggere qua.
Infine, sul sito della Panini c’è un’anteprima del secondo numero del fumetto dedicato alle avventure di Nihal. Il link è questo.
A domani!