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annegando

Roma allagata è uno dei miei ricordi più antichi. Non so nemmeno quanti anni avessi. Ho in testa quest’immagine di me assieme ai miei genitori, in macchina, mentre le vie sono un unico fiume in piena.
Da allora, a quel ricordo se ne sono sommate decine di altri. Ogni volta che piove, Roma si allaga. È matematico. E non stiamo parlando di semplici pozzanghere. Stiamo parlando di vie con dieci centimetri d’acqua che scorre, di guadi nei quali automaticamente le macchine affogano. Stiamo parlando di morti.
Stamattina mi sono svegliata con un tuono tremendo, per altro dopo una nottata in bianco perché Irene è stata male. Quando mia madre arriva a casa mia, è zuppa. Tempo dieci minuti, e mi chiama mio padre trafelato, dopo due ore e mezza di viaggio per fare venti chilometri, parlandomi di scene apocalittiche. Il risultato è che sono bloccata a casa. Dall’università non mi arrivano notizie: nessuno dei miei colleghi è online. Almeno qui, al quarto piano, l’acqua non arriva. Ma so di gente con la casa allagata e senza corrente.
Non è normale che in un paese che appartiene al lato fortunato succedano cose del genere. A Monaco andavo a lavorare con la bufera, treni, tram e autobus passavano senza problemi, una volta soltanto si sono congelati i binari e il tram è arrivato in ritardo. E intanto il bilancio è di un morto e un disperso. Un morto di pioggia. A Roma, in questo paese, si muore di pioggia.
Guardo fuori alla finestra, e penso che non solo questa città, ma quest’intero paese sta affogando. Dal grande al piccolo, niente funziona più, e mentre perdiamo un pezzo dopo l’altro, nei palazzi del potere chi dovrebbe cercare di salvarci porta a termine il sacco del paese, razziando tutto quanto è rimasto.
Non so se questa botta di pessimismo mi viene fuori dalle troppe immagini di violenza di questi giorni, o da questo cielo gonfio di pioggia. Il fatto è che sono stanca. Stanca delle cose che non funzionano, nessuna, stanca della mancanza di prospettive, stanca di ogni piccola cosa che diventa gigantesca.
E intanto aspetto. Di capire cosa fare oggi, se posso azzardarmi fuori da casa o è meglio che resti qui. Aspettiamo tutti, e forse lo facciamo da troppo tempo.

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Quel maledetto maledetto

Confesso di non aver guardato molte immagini del 15 ottobre a Roma. Non ne sentivo particolarmente il bisogno: quelle immagini lì si somigliano tutte, le abbiamo viste così tante volte e in così tante salse che io ci ho fatto il callo. Però, devo dire che alcune le ho guardate. È che non ci potevo credere che qualcuno le avesse scattate e qualcun altro avesse deciso di metterle tutte in fila.
Si comincia con la parata di madonne e cristi distrutti. Ora, il gesto in sé è stupido, non lo nego, ma non mi pare particolarmente più grave di sfondare la vetrina di un minimarket o dar fuoco ad una Punto del secolo scorso. Però, vuoi mettere la forza evocatrice di un’immagine del genere: l’odio che non risparmia nulla, che si accanisce contro il simbolo più alto del nostro sentire, quel crocefisso inerme…E quindi vai con immagini della madonnina rotta in tutte le salse, e sparate in prima pagina, ça vas sans dir.
Poi, la retorica dei nemici accomunati dalla violenza altrui. Ed ecco la galleria del celerino che accarezza la giovane manifestante. A me francamente pare quello schiaffetto ironico che a Roma si usa molto, seguito magari da un “ah bbella, vedi de datte ‘na carmata”, ma Repubblica ci dice che è la carezza che prelude al bacio (??).
Poi, su questo tema, baci e abbracci di giovani manifestanti. Titolo della galleria: volevano una manifestazione così. Chiosa mia: e allora vai in un albergo a ore, o fatti una passeggiata al Pincio.
Ora, perché questo profluvio di immagini mi fa arrabbiare? Perché gronda di retorica qualunquistica. Perché non è semplice atto documentale: è imposizione di uno sguardo. È una cosa che alcuni giornalisti fanno sempre: adeguare la realtà agli schemi preconcetti che hanno in testa. Quando andavo al ginnasio, partecipammo ad un progetto sulle mafie. Approfondimmo l’argomento, organizzammo anche una mostra e un evento a fine anno aperto a tutta la scuola. La cosa era in cooperazione con Libera, e forse per questo venne anche la stampa, il tg3, se non erro, comunque un tg Rai. Intervistarono un po’ di noi che avevamo lavorato sulla cosa, ma anche gente che non aveva la più pallida idea del perché fossimo là. Quando tornai a casa e guardai il servizio in tv, le interviste agli studenti erano tutte del tipo “‘a mafia è ‘na cosa bbrutta, cioè, tocca combatte’ ‘a mafia”. Confesso che ci rimasi male. Tra tutte le interviste, alcune a miei compagni di classe, che avevano detto cose intelligenti, persino necessarie, avevano pescato quelle che più facevano minus habens. Poi capii: al giornalista non interessava raccontare la nostra manifestazione, al giornalista interessava mostrare la gioventù moderna che non ha un cazzo da dire e si disinteressa. Coerentemente, aveva scelto quelle interviste che meglio si attagliavano a questa sua visione.
Ecco, le immagini delle gallerie citate (e il fatto che vengano tutte da Repubblica non è accanimento, è che io quello leggo per sapere che succede nel mondo) sono questo; uno sguardo parzialissimo che vuole ridurre la molteplicità, persino l’orrore di quel che è successo in piazza ad un frame preconfezionato: il vandalo cattivo, la gioventù che crede nell’ammòre, la situazione d’emergenza che unisce. E io, dopo quindici anni, continuo ad incazzarmici, come se non lo sapessi che funziona così.
Perché il titolo. Perché “maledetto” è l’aggettivo preferito dal giornalista pigro. Di fronte alla catastrofe, alla sfiga, o anche al disastro colposo, è tutto “maledetto”: le cronache dei nostri giornali grondano di “stanzoni maledetti”, “giorni maledetti”, “ore maledette”. Ma anche no, eh? Io non dico che l’occhio di chi racconta possa davvero essere oggettivo, e forse non sarebbe neppure giusto lo fosse. Ognuno racconta la sua verità. Possiamo però quanto meno evitare di buttarci a pesce tutti sull’unica disponibile, tipicamente quella più banale e trita?

P.S.
Oggi vi ricordo due cose. La prima è che avrò l’onore di presentare il libro di Tito Faraci “Oltre la Soglia”: il luogo è Mel Bookstore in Via Nazionale, l’ora le 18.00. Il libro, chevvelodicoaffa – mavvelodicouguale – è molto consigliato. A me è piaciuto davvero molto, per l’ambientazione, per la strepitosa idea iniziale, per i personaggi. Vi aspettiamo tutti!
La seconda è che oggi esce “Le Favole degli Dei”, primo, meraviglioso libro del Paolo Barbieri autore, oltre che disegnatore. Avrò l’onore di presentare anche lui, e così restituirgli un po’ di tutto quel che mi ha dato in questi anni. Il luogo sarà Lucca, il giorno domenica alle 12.30, presso la Sala Ingellis. Intanto prendetevi il libro, che è una pietra rara.

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Gli altri siamo noi

Quando ero bambina, nel palazzo di fianco a casa mia c’era una specie di fabbrica. In verità era uno stanzone chiuso da una saracinesca, in cui stavano stipati una decina di cinesi. Non li vedevi uscire mai. Con ogni probabilità lì dentro lavoravano e vivevano, e l’unico segno della loro presenza erano i pesci che mettevano a seccare di fuori, sugli alberi, per l’ira dei miei vicini di casa.
Per anni, la faccia dello sfruttamento del lavoro è stata questa; era un problema che riguardava sempre gli altri, mai noi. Altri gli sfruttatori, altri gli sfruttati. Ci vivevamo gomito a gomito, ma non ci interessavamo a loro: erano diversi, con noi non avevano niente a che spartire.
Poi, un giorno di ottobre, muoiono cinque donne, quattro operaie e una ragazza, la figlia dei proprietari della piccolissima fabbrica. Erano italiane, lavoravano per 4 euro l’ora, e lo facevano in una stanza del tutto identica a quella nella quale, quando avevo dieci anni, i miei vicini di casa cinesi consumavano vite completamente dedicate al lavoro. D’improvviso, non sono più gli altri. D’improvviso, siamo noi.
Con gli anni, le tutele sul posto di lavoro, quelle tutele per ottenere le quali persone, nei due secoli scorsi, hanno dato la vita, si sono assottigliate sempre di più. Non solo il lavoro in nero, ma anche forme di sfruttamento legale: per una persona della mia età è all’ordine del giorno avere contratti senza ferie pagate, senza malattia e con un versamento di contributi a dir poco irrisorio. Per tacere poi della mancata tutela della maternità, delle paghe da fame, del precariato perenne. A guardar bene, esiste una consistente fetta della popolazione, italiana e non (ha importanza?), che lavora in condizioni non dissimili da quelle di una fabbrica dell’800. Com’è potuto succedere? Un pezzo alla volta, come sempre, un’erosione costante e che non accenna a fermarsi.
Davanti al dolore del proprietario dell’opificio che ha perso la figlia, e che si ripeteva “è colpa mia”, uno dei mariti delle vittime ha risposto: “No, non è colpa tua, tu almeno gli avevi dato un lavoro”.
Vorrei riflettere a fondo su questa frase. Sulla mentalità che sottende, sulla disperazione che implica. Stare chiuse per 14 ore in una stanza priva dei requisiti minimi di sicurezza a confezionare maglioni per 4 euro l’ora, 4 euro l’ora, ripeto – per fare un paragone, per il mio primo lavoro part time mi pagavano un rimborso spese di 8 euro l’ora, e lavoravo non più di cinque, sei ore a settimana – viene considerato un privilegio, e chi te lo elargisce, un benefattore.
Ecco, io vorrei che il sacrificio di quelle donne ci portasse due consapevolezza: la prima è che non dobbiamo smettere di indignarci per cose come questa, che non dobbiamo pensare “va così, del resto anch’io ho un co.co.pro., anche io ho gli straordinari non pagati, anche io ho dovuto firmare una lettera in cui dichiaravo di non fare figli per i prossimi due anni”. Non è normale. Non deve esserlo. E se questo è il prezzo per il nostro benessere, allora il gioco non vale la candela. Niente vale un prezzo del genere. Secondo, che si parte dal singolo: siamo noi che avalliamo certi comportamenti. Siamo noi che ci adagiamo sul detto” così fanno tutti”. No. Così fanno gli altri. Noi dobbiamo cercare di essere diversi. Noi dobbiamo rispettare le leggi e la comunità in cui viviamo, dobbiamo batterci per anche gli altri le rispettino. La legalità è la risposta, l’onestà è la risposta.

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Contro la rete

Che palle, un altro post autoreferenziale sulla rete. Sì, avete ragione. Probabilmente avrei dovuto tirar dritto col mio post su Falling Skies, ma il telefilm è così noioso che mi stavo annoiando anche a scriverne. Comunque.
Continua la querelle Vasco Nonciclopedia, ma, come osservato da Valberici su Twitter, tra due giorni nessuno se ne ricorderà più. Però val la pena fare qualche osservazione su cosa questa storia ci sta mostrando, anche se, ça va sens dir, non saranno osservazioni originali. La ha già fatte Lipperatura, per dire.
La cosa che trovo più interessante di tutta la faccenda è la mutevolezza della rete, che è direttamente mutuata dalla mutevolezza delle folle. Il web, d’altronde, è una folla 2.0, costituita da una piazza virtuale di milioni di individui. Appena scoppiato il caso, la rete si è divisa tra pro e contro. L’hashtag #vascomerda è stato il terzo più citato su Twitter nella giornata di ieri. L’hashtag in sé fa immediatamente capire che il confronto non è stato per niente civile, e che anzi la prima reazione della rete è stata trovare un colpevole: Vasco Rossi per alcuni, Nonciclopedia per altri. Tra l’altro, si è osservato il solito fenomeno, quello che ho visto riprodursi in miliardi di post e su un numero spropositato di forum. La cosa va così:
1. Caio dice la sua
2. una serie di persone commentano dicendo quanto ha ragione, lodando Caio
3. passati quei primi commenti di fisiologico apprezzamento, arrivano quelli che sono contrari
4. i primi messaggi contrari sono pacati, poi, man mano che il confronto procede, va tutto in vacca, si fa fuori tema e ci si inizia ad insultare.
Fateci caso. Succede sempre così. Ieri è successo allo stesso modo.
Altra cosa che ho osservato: fino a ieri sui blog era un profluvio di link contro la Legge Ammazzablog, tutti lì a copiare il post esplicativo di Valigia Blu. Poi, ieri, d’improvviso ci si accorge che, ehi, ma in rete c’è anche la diffamazione. E tutti giù allora a dire che la libertà di parola non è diritto di offendere, che c’è libertà e libertà. Forse ho capito male io, ma la legge Ammazzablog vuole proprio questo: limitare la diffamazione a mezzo web equiparandola a quella a mezzo stampa. Se qualcuno ha capito diversamente e vuole spiegare, ben venga nei commenti. Comunque, qui il fatto interessante è che si è passati da una crociata all’altra con grande disinvoltura.
Che conclusioni traggo da queste osservazioni? Che la rete è un mezzo, un mezzo potenzialmente potente, ma che ne stiamo facendo un uso veramente limitante. È come avere una Ferrari e andarci nel cortile di casa.
La rete innanzitutto semplifica, sempre, e lo fa perché tutti hanno voglia di parlare e nessuno di ascoltare. Meglio: perché tutti hanno voglia di sentirsi parte di qualcosa, di una fazione, di una petizione, di un movimento d’opinione. La rete ti dà la possibilità di sentirti un intellettuale impegnato con un semplice click: a volte basta il “Mi Piace” su Facebook. Ormai per molti è diventato un riflesso pavloviano, come quando ti inoltrano una catena di Sant’Antonio senza domandarsi se il bambino in pericolo di vita da due anni perché gli è caduta la televisione in testa sia poi sopravvissuto o meno. Per cui è molto più facile scrivere #vascomerda o #Nonociclopediafascista piuttosto che star lì a domandarsi il perché delle cose. E, pensateci, questo è quel che succede in una qualsiasi manifestazione di piazza, che sia la festa della parrocchia o uno sciopero. Le ragioni e gli intelletti dei singoli si sciolgono nella ragione della folla, che per forza di cose deve semplificare e tagliare con l’accetta.
La seconda osservazione è che a fronte dei due miliardi di mezzi utili per i quali la rete potrebbe essere usata, l’80% degli utenti la usa come sfogatoio personale. Io in primis, eh? Certo, cerco di interrogarmi sull’utilità di quel che scrivo qua sopra, ma oggettivamente ci sono miei post che non vanno oltre la mera narrazione del fatterello quotidiano. La gente va online per provare il sottile piacere di sfottere uno che per una qualsiasi ragione (fama, soldi, bellezza) nella vita reale ti sarebbe “superiore” (le virgolette non sono a caso). Vuoi mettere dirne quattro al Vasco? Non ha prezzo. E così, lentamente, le informazioni davvero utili affondano nel rumore bianco. Perché questa è la legge universale del web: troppe informazioni uguale nessuna informazione. Non siamo ancora arrivati al punto in cui l’informazione non è più “subita” come accade coi media tradizionali, ma “agita”, e non ci siamo arrivati perché la maggior parte di noi non è educata a cercare in rete le notizie vere nel mare magnum di gattini, insulti vari e bufale. Ogni volta che mi arriva la richiesta di parlare di un argomento particolare, entro in crisi: la notizia che mi è stata segnalata è vera? Ne so a sufficienza per parlarne? E via con le ricerche, cercando online informazioni dotate di una qualche autorità. Ma mi rendo conto che sono una mosca bianca: tanti prendono per vero qualsiasi cosa venga loro segnalata. Perché non ho mai parlato della legge sugli sconti sui libri? Perché non ne so a sufficienza, perché non sono riuscita a farmi davvero un’idea. Però mi rendo conto che dar fiato alla bocca e firmare una petizione online è più divertente.
La rete è stata indicata negli ultimi anni come la panacea ad ogni male. Ci hanno detto che è la culla della democrazia, che avrebbe cambiato il mondo. Così com’è adesso, e per l’uso che ne fa la gente, non è né democratica né rivoluzionaria. Vorrei aver fiducia nell’uomo e credere che in futuro le cose cambieranno, ma non vedo nessuno che cerchi di fare il primo, fondamentale passo per cambiare: educare all’uso della rete. I professori più illuminati al massimo leggono i quotidiani in classe (azione più che meritoria, ci tengo a sottolinearlo), figurarsi educare all’uso della rete. E con cosa, poi, visto che tutti sappiamo come sono combinate a livello di alfabetizzazione informatica le nostre scuole?
Per cui, nulla, perdonatemi se continuo ad essere scettica su questa rivoluzione dal basso, che finora ha prodotto solo un irritante baccano, una notte in cui tutte le vacche sono nere.

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Confini

Questo post di oggi di Sandrone va alla grande con questo mio che state per leggere.
Dunque, l’università vuole invitare una ricercatrice cinese. Non è una cosa esotica. Come immaginerete, l’università invita ospiti stranieri di continuo. La cosa, che poteva sembrare di prim’acchitto banale e piana, si è lentamente trasformata in una corsa ad ostacoli. Ci vogliono dei documenti. E vabbeh, posso capire. Ci vuole una lettera d’invito, in carta intestata. Poi ci vuole la fotocopia della carta d’identità e del passaporto – tutti e due rigorosamente – di chi invita, il passaporto fotocopiato dal lato della firma. Poi ci vuole una lettera, in originale, in cui l’ospite conferma in prima persona di ospitare l’invitato dalla data tot alla data tot. La lettera d’invito mi lascia basita. Dopo tutti i dati di chi ospita (nome, cognome, lavoro, nazionalità, recapiti di ogni genere) in tono minatorio la lettera ricorda che chi ospita è

consapevole delle conseguenze previste dall’art. 12, comma 1, del Decreto Legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) che dispone: “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie attività dirette a favorire l’ingresso degli stranieri nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del presente testo unico è punito con la reclusione fino a tre anni e con una multa fino a 15.500 Euro”

Dopo di chi seguono generalità di chi viene invitato, corredate da recapiti di ogni genere anche qui, e poi tutta una serie di garanzie:
1. occorre indicare dove alloggerà la persona
2. occorre depositare una cauzione a titolo cautelativo
3. occorre dichiarare di poter pagare le spese mediche in caso di infortunio di qualsiasi genere
4. occorre dichiarare l’arrivo dello straniero alla Polizia entro 48 dall’ingresso sul suolo italiano, e all’Ufficio Stranieri entro 8 giorni dall’arrivo

Il risultato è che è un mese che si combatte per ottenere tutti i documenti. Per esempio, la fideiussione bancaria è problematica, dato che ogni cifra che esce da un ente pubblico richiede tonnellate di carta che la giustifichino.
Più passa il tempo e meno io le capisco, queste cose. È proprio il concetto di frontiera, che mi sfugge. Mi sembra un’inutile limitazione della libertà personale, che per altro non serve certo a bloccare i criminali che vogliono entrare o fermare l’immigrazione clandestina. Serve solo a bloccare chi vuole viaggiare per lavoro o per piacere, intrappolandolo in una rete di carte bollate e burocrazia varia. E pensare di fermare così l’immigrazione non è diverso dal credere di poter arginare le onde del mare a mani nude.
Ogni tanto sogno un mondo in cui la circolazione delle persone sia libera, in cui ciascuno possa stabilirsi dove gli pare e piace, e si scelga uno stato che lo rappresenti davvero, e l’essenza dell’uomo non sia legata al posto in cui per caso è nato. Un posto migliore, dove lo scambio di usi e costumi sia incentivato, invece che demonizzato manco fosse l’origine di tutti i mali. Ma figurati, è una pia utopia. E forse lo scopo di tutta questa trafila è tenerci ciascuno confinato nella sua personale prigione, nello stato che devi amare perché ci sei nato, e se sei nato dal lato sbagliato del mappamondo, problemi tuoi. Forse ci vogliono divisi e impauriti, ciascuno arroccato al suo pezzetto di terra, all’oscuro di quanto vasto e splendido sia il mondo, e in quanti modi diversi l’essere umano sia declinato a seconda della latitudine.

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Le vittime secondo Feltri

La Norvegia continua a tenere banco. Scusate, ma per me questo evento segna un punto di svolta imprescindibile: qualcosa, molto deve cambiare dopo quel che è successo a Oslo e Utoya. Comunque. Purtroppo ci sono chiari segni che invece c’è gente che non è disposta a mettersi in dubbio neppure di fronte all’evidenza dei fatti. Del resto, sono venti anni che ci dicono che la realtà non esiste, esistono solo le opinioni.
Oggi, su Il Giornale esce il seguente editoriale di Feltri. Saltate pure il commento sopra, leggete direttamente le parole di Feltri, che sono più significative di qualsiasi discorso.
Ora, è evidente che c’è una fetta dell’Italia che di fronte al terrorismo di destra si sente a disagio. Si tratta di imprinting, credo. Fin da piccoli gli hanno insegnato a reagire di fronte all’uomo nero, quando ne vedono uno bianco entrano in crisi. Notare prima di tutto che in generale i terrorismi di matrice islamica non sono mai frutto di pazzia: sono la diretta conseguenza di una “religione criminale”, l’Islam tutto. Se invece un ultranazionalista norvegese compie una strage, è un matto. E questo purtroppo vale sia per i giornali come quello di Sallusti che per quelli più seri, tipo Repubblica o Corriere della Sera. Comunque. Feltri fa il passettino oltre. Breivik è un pazzo, e vabbeh, ma non avrebbe potuto fare quel che ha fatto se non ci fosse stato un minimo di collaborazione da parte delle vittime. Lo spostamento di responsabilità è presto compiuto: Breivik è pazzo, dunque non è neppure del tutto responsabile delle sue azioni, mentre i savissimi ragazzini di Utoya, a causa presumibilmente dei valori malati che li hanno riuniti sull’isolotto, non sono stati capaci di reagire, tutti presi dal salvarsi la pelle piuttosto che cercare di compiere un gesto eroico e salvare gli altri. Testuali parole “è incredibile come, in determinate circostanze, ciascuno pensi solo a salvare se stesso, illudendosi di spuntarla, anziché adottare la teoria più vecchia (e più efficace) del mondo: l’unione fa la forza”.
Avete capito? Se Utoya è stata una mattanza è colpa dei giovani che sono “incapaci di reagire”, come da titolo. O tempora, o mores.
Ora, qui non si tratta più nemmeno di un patetico tentativo di sviare l’attenzione dai fatti, che ci dicono chiaro e tondo che Breivik ha idee politiche che non si discostano molto da quelle della Lega, almeno sui massimi sistemi, tanto è vero che nel suo documento programmatico si definisce affine al movimento. Qui è direttamente vilipendio di cadavere. Qui è mancanza assoluta di rispetto per le vittime e i sopravvissuti. È mancanza di vergogna, una virtù che al Giornale è sempre difettata, ma mai in modo così osceno, così diretto, così intollerabile.
Siccome le cose devono cambiare, occorre dire alto e chiaro che noi non siamo più disposti a berci in silenzio editoriali del genere alzando le spalle, come abbiamo fatto finora. Non si può più dire “che ti aspetti dal Giornale, che ti aspetti da Feltri”, non possiamo più girare pagina. Ci dobbiamo indignare. Dobbiamo recuperare il sano senso dell’indignazione, e dobbiamo dirla a chiare lettere. Alle parole d’odio, a ciascuna di esse, dobbiamo contrapporre le nostre: che chiamino le cose col loro nome, che non abbiano paura neppure di mettersi in dubbio, se necessario, perché il dubbio è l’unica cosa che ci salverà, alla fine. Ma che non abbiano neppure paura di dire la verità. E la verità è che le parole di oggi di Feltri sono uno sputo in faccia alle vittime, e un patetico tentativo di giustificare l’ingiustificabile.
Vergogna.
Vergogna.
Vergogna.

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Il nemico dentro

Ci avevamo creduto davvero tutti. Era stato il primo pensiero. Il mio, almeno. Che fosse un attentato di Al Qaeda o chi per lei. Certo, mi viene da sghignazzare sulla prima pagina di Libero, ma poi mi fermo a pensare, e da ridere non c’è proprio niente.
L’attentato di Oslo e Utoya offre miriadi di spunti di riflessione, uno più tremendo dell’altro. La prima cosa che ha colpito me è stato il riflesso pavloviano del pubblico: sono stati i musulmani. Ci hanno cambiato la testa. Questi dieci anni hanno modificato il modo in cui percepiamo la realtà intorno a noi. Ci hanno insegnato cosa temere, ci hanno indicato il nemico, e noi – anche quelli più illuminati, quelli che hanno rifiutato questa cazzata dello scontro di civiltà dal primo momento – siamo stati ben lieti di adeguarci. Perché in fin dei conti è nella nostra natura: delimitare noi stessi rispetto agli altri, come se per poterci definire avessimo bisogno di tracciare il confine tra ciò che siamo noi, e quel che sono loro. Senza un nemico ci sentiamo persi, perdiamo il senso di noi stessi. Senza qualcuno da odiare, perdiamo consistenza.
E poi all’improvviso succede che il male viene incarnato da uno di noi. Sì, uno di noi. Bianco, cristiano, l’aspetto del bravo ragazzo. Ce lo siamo trovato accanto al matrimonio dell’amico, è stato in mezzo a noi per tutto il tempo, ha condiviso i nostri ideali, ha vissuto la nostra vita. Quando lo vediamo, non siamo in grado di tracciare un chiaro confine tra noi e lui, perché quando lo guardiamo negli occhi, ci vediamo riflessi.
Uno come noi un bel giorno ha fatto saltare Oslo, e con la massima calma ha massacrato 90 ragazzi della sua stessa età.
In generale, in questi casi si dice che è un pazzo. Io a questa tesi non ho mai creduto. I savi sono capaci di azioni indicibili, i pazzi per lo più fanno male a loro stessi, checché ne dica la cronaca, che ogni volta che c’è un crimine tira fuori la depressione. Breivik non è un pazzo. È un frutto di questa società. Solo che non sappiamo spiegare cosa l’abbia creato.
I soliti noti tirano fuori i colpevoli ovvi, quelli che l’ignorante medio tira sempre in ballo: i videogiochi, la musica metal. Videogioco anch’io, e sento anch’io rock e metal, ma non mi è venuta mai voglia di massacrare qualcuno.
La verità è che la risposta non ce l’abbiamo. Nessuno sa realmente dire cosa fa di noi all’improvviso dei mostri. Ci immaginiamo la Norvegia come un posto perfetto, dove le cose funzionano davvero, con uno stato sociale forte, libertà, integrazione per tutti, e in più una natura splendida, soverchiante, a ricordarti che sei solo un puntino nell’universo. Ma già leggere quel che Lindqvist e Larsson hanno da dire sulla Svezia fa sorgere il dubbio che anche in Scandinavia le cose non siano esattamente perfette, che c’è qualcosa che va in profondità, qualcosa di realmente marcio nel modo in cui viviamo.
Io la risposta su questo male che abbiamo dentro non ce l’ho. Dico solo che dieci anni a sentir gente come Bush parlare di “lotta del bene contro il male”, a dirci che la società occidentale è superiore a quella di quei buzzurri degli arabi, che dunque si meritano le nostre bombe, non ci hanno fatto per niente bene. Anni fa se sputavi veleno contro i rumeni o i marocchini la maggior parte della gente ancora ti guardava storto. Adesso no. Adesso che gli xenofobi siedono in parlamento, non ti vergogni più a dire che i marocchini se ne devono andare “fora di ball’”. Perché il razzismo trova giustificazione in tutte le autorità che l’hanno sdoganato, rendendo l’opinione dell’uomo qualunque programma elettorale.
Ma la colpa non è solo di chi sparge odio. La colpa è di chi non sa dare un’alternativa. Continuo a credere che le idee si sconfiggono con altre idee. Questi dieci anni dimostrano che chi parla di rispetto, di accettazione della diversità come ricchezza, non ha saputo far penetrare a fondo queste idee. La sua voce è sempre apparsa debole davanti a quella di coloro che presentavano la soluzione facile: li ammazziamo tutti e via. La colpa è anche nostra, che abbiamo scrollato le spalle davanti a chi deumanizzava l’immigrato irregolare solo perché non aveva il permesso di soggiorno, che ci siamo voltati dall’altra parte quando a Sarno partiva la caccia al nero. Perché le nostre parole non sono forti abbastanza? Perché ci continua a crescere questo vuoto dentro, e io so che lo percepiamo tutti, anche se uno su diecimila imbraccia il fucile, ma lo sentiamo tutti? Non lo so. Ma sarebbe ora che ce lo chiedessimo.

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Alla morte di Amy Winehouse, è stato facile per molti dire che è una vergogna che la morte di una tossica faccia lo stesso scalpore di quella di novanta ragazzi ammazzati senza un perché in Norvegia.
Io invece non mi sono indignata manco un po’. Perché se migliaia di persone si sono sentite toccate in questi giorni dalla morte di una cantante, forse c’è un motivo che vale la pena indagare, qualcosa che ci dice molto su chi siamo e cosa vogliamo.
Non sono mai stata una fan della Winehouse, e avrò sentito di suo due canzoni al massimo. Ma la sua parabola discendente, orgogliosamente esibita a titoloni sui giornali, a beneficio di tutti coloro che guardavano le sue foto ubriaca, la deridevano, e così per due ore potevano sentirsi migliori di qualcuno, mi ha sempre messo addosso un’angoscia senza pari.
Anche Amy era una che il nemico se lo coltivava dentro, pervicacemente e con una coerenza di fondo da far spavento. Aveva talento, la possibilità di essere tutto ciò che voleva, e ha preferito buttarsi via in ventisette anni di scelte sbagliate. E alla notizia della sua morte, ho percepito esattamente quel che diceva John Donne nel lontano XVI secolo: “la morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità”. Perché ho visto nel suo dramma il riverbero, moltiplicato centinaia, migliaia di volte, di qualcosa che anch’io conosco, che ognuno di noi conosce. Quel vuoto. Quell’avere tutto, e non riuscire a goderlo. Quel perdersi senza sapere perché, quella sensazione di non potere, non riuscire ad essere felici, nonostante tutto. Io so che anche voi lo conoscete, che tutti lo conoscono. il nostro nemico.
Ecco. Le gente piange Amy Winehouse anche per questo: non perché “la società dello spettacolo, la perdita di valori” e le altre stronzate pseudo-sociologiche che ci ammanniscono in questi casi, ma perché la sua ansia di distruzione la conosciamo bene. È una di noi che non ce l’ha fatta. E ci domandiamo perché noi invece ci siamo salvati.
A molti probabilmente sembrerà una mancanza di rispetto parlare di due argomenti così difformi, addirittura quasi accomunarli, nello stesso post. Io però li ho vissuti così. Due facce della stessa medaglia. Due forme di quel nemico che ci cresce in seno, come società e come individui, e che non riusciamo mai a cogliere davvero. Fino a quando non ci addenta.

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C’eravamo tutti

anche se voi vi credete assolti
siete lo stesso coinvolti.


Io non c’ero. Ma non è una scusa valida. C’eravamo tutti, perché quel luglio del 2001 ha tracciato nuovi confini, ha riportato indietro le lancette dell’orologio, e ci ha mostrato che l’impensabile può accadere, quando in molti, troppi, si girano dall’altra parte.
Dieci anni fa mia nonna materna era ancora viva, e quel luglio ero a casa sua. Seguivo la manifestazione alla tv, perché lì internet non c’era. E se all’inizio ero lieta, fiduciosa, solidale, lentamente mi incupii, mi rattristai, e infine capii che qualcosa stava cambiando per sempre, quando seppi che Carlo Giuliani era morto.
Erano giorni di dieci anni fa, e adesso, a distanza di tutto questo tempo, io non lo so se abbiamo capito la lezione, se davvero siamo più consapevoli di allora, se abbiamo capito davvero il senso di ciò che è successo in piazza, e poi soprattutto alla Diaz.
La democrazia è cosa fragile, e basta poco, basta girare lo sguardo dall’altra parte, e si precipita nella sospensione di ogni diritto, nel semplice e vigliacco abuso del più forte del più debole. Perché un poliziotto che manganella un ragazzo straniero che dorme in una scuola è un vigliacco, non lo so si può definire altrimenti.
Che quei giorni di luglio siano ben altro che acqua passata lo si evince dal fatto che molti degli imputati per i fatti della Diaz sono stati promossi, e che su tutti gli imputati, pur condannati in secondo grado, pende il rischio di prescrizione. In Italia, ricordiamolo, non esiste il reato di tortura, come se qui non fosse possibile, come se qui non fosse successo già.
Qualcosa per non dimenticare.
Alcune testimonianza sui fatti della Diaz e di Bolzaneto
Quella Notte alla Diaz, di Christian Mirra
Piazza Alimonda, di Francesco Guccini
Genova Brucia, di Simone Cristicchi

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Altre cose che non dovrei dire

Io non ho mai capito quelli che criticano le star che si lamentano della perdita della loro privacy. Quelli che ogni volta che un’attrice, un cantante fanno presente che non sempre hai voglia di sorridere alla folla plaudente, farti le foto con loro, avere a che fare coi paparazzi ogni minuto della tua giornata, subito partono con il consueto rosario di “eh, è la fama, hai voluto la bicicletta e mo’ pedali, però ti piacciono i soldi”. Sarò un’ingenua, ma ho sempre pensato che quando uno fa l’attore o il cantante abbia più che altro voglia di recitare e cantare, e che la fama sia una cosa che viene dopo, una specie di effetto collaterale. Con questo non voglio dire che non ci siano quelli per i quali la fama è l’obiettivo; ce ne sono, ma quelli magari non si lamentano di essere stati ripresi dai paparazzi mentre fanno gli sporcaccioni alle Maldive. È che quest’idea che il personaggio pubblico, poiché tale, deve incassare in silenzio e col sorriso sulle labbra ogni tipo di angheria mi sembra una concezione vagamente punitiva della fama: hai voluto essere famoso? E allora paghi con l’annullamento della vita privata. Ripeto, sono sicura che c’è un sacco di gente che vuole essere famosa e basta, ed è ben lieta di dare in pasto il proprio intimo alla folla. Ma c’è anche tanta gente che vorrebbe fare solo il proprio lavoro.
Mi viene in mente questa cosa riguardo agli scrittori e alla famosa querelle “gli scrittori devono accettare le critiche negative, anche quando sono stroncature”. Che, per carità, se ci fermassimo qui, se affermassimo solo questo, forse potrei quasi essere d’accordo. Solo che molti estendono il discorso in due direzioni: gli scrittori devono anche accettare gli insulti (“questo libro è una merda”, “è roba da minorati” e via così) e gli scrittori devono essere persone simpatiche che anche quando le insulti ti rispondono un sorriso e magari ti dicono anche “beh, sì, hai ragione, sono una merda, scusa che vado un attimo a scudisciarmi di là per espiare”.
Tempo fa, qualcuno scrisse a Neil Gaiman lamentandosi che Martin sul suo blog non dava alcuna informazione circa la prossima uscita de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco. Poneva poi delle domande sulle responsabilità che uno scrittore ha nei confronti dei lettori. La discussione è qui. Gaiman rispose con una frase che mi si è scolpita in testa: “Martin is not your bitch”, tradotto “Martin non è la tua puttana”.
Uno scrittore è una persona, e, in quanto tale, ha il diritto di essere scorbutico, insopportabile, stronzo, così come gentile, carino, amichevole. Ognuno ha il suo carattere, con quello nasce, e con quello si rapporta col mondo. Soprattutto, il carattere non dovrebbe influire sul godimento dei suoi libri da parte del pubblico, né dovrebbe servire a giustificazione di comportamenti del tipo “hai un brutto carattere, ergo ti insulto alla morte”.
Quando leggo un libro, cerco una storia, non cerco un amico. So che Salinger ci ha ingannati tutti, con quella storia del “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.” Purtroppo non funziona così. L’unica cosa che l’autore ti dà è una storia. Non una spalla su cui piangere, non un amico, non un juke box che sforni storie a tuo piacimento. La persona dell’autore, l’ho detto un miliardo di volte, non è allegata al libro, neppure quando ti fanno credere che sia così. Per esempio, io so che la Mondadori ha venduto le Cronache allegando la storia dell’astrofisica che scrive fantasy: ma la persona Licia non si riduce a questo stereotipo. La persona Licia non si riduce neppure a quel che scrivo sul blog, perché per ogni parola che vergo qui ce ne sono miliardi che mi tengo dentro. Ci sono cose importanti, brutte, gravi, belle che mi sono capitate in questi dieci anni da personaggio pubblico che qui non hanno mai trovato posto, e mai lo troveranno. E sono cose importanti, che fanno di me la persona che sono. Per dire. Io lascio trasparire di me solo quel che sento di poter condividere con la comunità dei lettori, perché so che la rete è una cosa bella, ma è anche pericolosa, e per non farsi male va saputa usare. E anche se vi sembra che non ci sia filtro tra il mio intimo e il web, penso duecento volte alle cose che scrivo in rete, fosse anche uno stupido Tweet.
Ma sto divagando. Voglio dire che lo scrittore, per il solo fatto di aver scritto un libro, non ha l’obbligo di essere come i lettori lo vogliono. Neppure i suoi libri hanno l’obbligo di seguire i dettami che i lettori gli impongono. Martin non ha l’obbligo di scrivere un tot di libri l’anno, G.L. D’Andrea non ha l’obbligo di mostrarsi in rete come la gente lo vuole. Quello tra un libro e un lettore che lo apprezza è un incontro casuale: uno scrittore scrive quel che sente, quel che ama, e questo è l’unico modo che ha di rispettare il suo lettore, l’unico obbligo, se vogliamo, cui deve sottostare, e il lettore per qualche ragione risuona con quel che lo scrittore ha scritto. Se questa risonanza non ha luogo, non è colpa di nessuno. Non ha senso prendersela con lo scrittore, né tanto meno con la sua persona. Non ha senso neppure prendersela con l’editore, o con il lettore. Non ha funzionato, punto.
Senza contare che io ho imparato tanto anche dai brutti libri, tanto è vero che mi sono fatta un punto di non fare mai recensioni negative. Preferisco spingere i bei libri, mi sembra più costruttivo. I brutti o cadranno da soli nel dimenticatoio, o comunque avranno un loro pubblico, e chi sono io per mettermi a questionare i gusti altrui?
Ma, soprattutto, ripeto, quando uno decide di scrivere non firma un patto col demonio nel quale c’è scritto: offrirai la tua persona in sacrificio al lettore. No, non è così. Uno scrittore scrive per condividere qualcosa, ed è sua discrezione cosa condividere. Si attende ovviamente le critiche negative, e in qualche modo le accetta. Di buono o di cattivo grado sono fatti suoi, e nessuno può accusarlo di non saperla prendere con sportività. Ma assolutamente non è tenuto a far buon viso a cattivo gioco quando lo si insulta. Mi spiace, per quanto vi abbia deluso, lo scrittore non è la vostra puttana.

P.S.
Visto che nel complesso ho come l’impressione che questo sia il mio post meno compreso di sempre – per colpa mia, eh? evidentemente non mi sono spiegata bene – vi spiego da cosa è nato. È presto detto: dalla lettera di questo (è un po’ vecchio, lo so, ma l’ho riletto di recente) e di questo.
Per il resto, non ho di che lamentarmi sulla mia privacy, e se mi incontrate per strada mi potete salutare, non mordo, qualcuno da queste parti credo possa anche testimoniarlo :P

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Il bello della rete

Questo post credo di averlo già scritto in passato. E neppure una volta sola. Perché lo riscrivo? Perché l’argomento è tornato di attualità di recente, perché a furia di autocensurarmi finisce che qui sopra non ci scriverò più per un sacco di tempo, e allora…
La rete, dunque. Il recente raggiungimento del quorum al referendum ha fatto gridare un po’ tutti al miracolo. È la rete che ci salva, è la potenza della libertà di circolazione di idee del web che ha permesso questa grande vittoria della democrazia!
Ora, ok, sì, forse l’asse dell’informazione si sta spostando. Sempre più persone non la fruiscono più a livello meramente passivo (media generalisti), ma in forma più attiva: si vanno a cercare le notizie online, diffondono quelle che gli interessano. E questa è cosa buona e giusta. Ma.
Ma innanzitutto è andato a votare il 54 % circa degli aventi diritto. Che non mi sembra una stratosferica vittoria della democrazia. Resta il consueto zoccolo duro di un 30% di elettori che non vota mai. Perché non gli interessa, perché so’ tutti uguali, perché è domenica e vado al mare.
Poi, dubito che il quorum sarebbe stato raggiunto con quesiti referendari con minore impatto emozionale: voglio dire, qui si parlava di nucleare, il Satana dei nostri tempi, e dell’acqua pubblica. Nessuno mi toglie dalla testa che tanta gente è andata a votare convinta che se poi passava il no sul quesito del nucleare avremmo avuto esplosioni atomiche come se piovesse in Italia.
La gente poi si è fatta un’idea anche dallo sproposito di manifesti in giro per le città, dal volantinaggio della gente…insomma, anche coi metodi “vecchi” della politica.
Ma veniamo alla rete. Cos’è la rete? La rete, per usare l’efficace metafora che lessi nella firma di un utente di un forum qualche tempo fa, è quel posto che ha dato voce a gente che altrimenti non avresti ascoltato neppure in fila al cesso. Purtroppo temo sia vero. E mi ci metto anch’io nel mucchio.
Facciamoci un esame di coscienza. Andiamo online per cercare notizie, per divertirci leggendo, o per poter dire la nostra? Io non ho alcuna remora a dichiarare che ho iniziato ad interessarmi ad internet quando ho scoperto i forum: non mi sembrava vero di poter postare da qualche parte le mie lunghissime e deliranti recensioni dei film de Il Signore degli Anelli, o le disamine puntuali delle puntate dei Cavalieri dello Zodiaco. A volte neppure leggevo le opinioni degli altri. Postavo la mia e aspettavo: che qualcuno mi dicesse “cavoli, hai proprio ragione, bel post”, e aggiungesse una sua riflessione. Siccome non credo di essere l’unica a pensarla così, sono convinta che parecchie altre persone sono online per la stessa ragione: esprimersi. Senza contare che un buon 80% degli italiani ha ambizioni letterarie, perché è sostanzialmente convinto che mentre per dipingere ci vogliono anni di studio, e qualsiasi altra attività artistica richieda competenze specifiche, scrivere no: cavoli, ce lo insegnano a scuola, a scrivere!
I blog, da questo punto di vista, sono il massimo. Anche il blogger più improponibile trova almeno dieci o venti utenti che lo leggono con piacere e plaudono a quel che dice. Perché la rete si organizza così, per cluster: persone simili si ritrovano assieme, e fanno amicizia, beandosi di far parte di un gruppo in cui la si pensa più o meno tutti allo stesso modo. E ovvio, però, che appena si forma un cerchio, come spiegava efficacemente Frate Guglielmo ad Adso ne Il Nome della Rosa – lo so, lo so, ho sempre gli stessi riferimenti culturali – qualcuno ne resta tagliato fuori. E il bello sta proprio lì. Che la comunità appena formata si sente diversa, migliore da tutti quelli che ne restano tagliati fuori. È una dinamica che ho osservato in tutti i forum che ho frequentato, e che alla fine mi ha spinto ad abbandonarli tutti.
Pian piano ci si trasforma in una piccola accolita di persone che hanno in mano la verità. L’affermazione del gruppo passa anzi proprio attraverso il formarsi di una consapevolezza di essere un insieme delle persone con delle specificità che differenziano dalla massa, e dare addosso a chi non la pensa allo stesso modo è un modo per rinsaldare l’appartenenza al gruppo.
Succede ovunque online, pensateci. Basta fare un giro su un qualsiasi forum che parla, che so, di musica. I nuovi arrivati spesso vengono direttamente respinti e sbeffeggiati. Chi ama, invece dei Pinco Pallo, i Pallo Pinco è automaticamente uno che non capisce un cazzo di musica e via così.
L’attrattiva di un mondo fatto così è evidente. Nella vita reale la spinta all’omologazione è fortissima: siamo tutti soggetti al bombardamento da parte di modelli pervasivi, ai quali tutto sommato cerchiamo di omologarci. Vogliamo essere come gli altri, e non lo siamo mai. Online, protetti anche dall’anonimato, che ci permette di rifarci una verginità, di mostrarci del tutto diversi da quel che siamo, se vogliamo, possiamo sentirci diversi, appartenenti ad un’accolita di esseri superiori che sanno, che hanno capito.
Tutto quello cui stiamo assistendo in questi giorni non è altro che questo. Piccoli gruppi che rivendicano la loro diversità, e per farlo, come succede in tutte le comunità umane, si devono trovare un nemico, qualcuno da sbeffeggiare. E non illudiamoci. Senza blog e senza forum la rete sarebbe morta. A parte per il porno, certo. Vogliamo parlare, parlare, parlare, senza prenderci la briga di ascoltare. Proprio come vogliamo scrivere, senza doverci annoiare a leggere.
Io, alla fine, mi sono sottratta. Ho abbandonato tutti i forum che ho frequentato perché dopo un po’ non ne potevo più della gente che faceva il bullo coi newbies, perché non sentivo il bisogno di far parte di nessun gruppo, e soprattutto non volevo prendermela con nessuno. Mi sono rintanata nel mio blog. Dove posso dar sfogo alla mia voglia di scrivere, che resta la pulsione più forte della mia esistenza. Parlare, dire, raccontare. Certo, leggo altri blog, ma non intervengo mai. Perché praticamente sempre finisce che c’è qualcuno contro qualcun’altro, e il qualcun’altro è tipicamente quello estraneo, che non sta alle regole, che semplicemente ha detto “ma io non sarei d’accordo”. E i linciaggi di massa non mi piacciono neanche un po’.
Voi direte, anche noi siamo un gruppo. Probabile. Ma io non credo mai molto a quel che di bene dice la gente di me. So che domani verrà fuori qualcun’altro che gli piacerà più di me, e tutto quel che dico, tutti i post su cui avrete assentito, saranno dimenticati. E poi, siamo un gruppo aperto, via. C’è gente che va e gente che viene, e tutto sommato ho cercato di non dire mai “noi contro loro”. È poco? Probabilmente sì, ma, sapete, si comincia dal piccolo, o almeno io sono convinta che sia così.

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