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Ghigliottina

Come un po’ tutti in questo periodo, almeno nella rete, anch’io non ho potuto fare a meno di guardare il video di Brunetta che sfancula – perché è questo il termine esatto, diciamocelo – i precari della pubblica amministrazione e di Stracquadanio che dà dei fancazzisti a quattro milioni di italiani.
Io ormai non mi meraviglio più di niente, questo esecutivo evidentemente non ha senso del pudore né cervello, perché qui si parla ormai anche di opportunità politica, e guardo tutto con triste distacco, sperando che la storia prima o poi faccia giustizia di questa gente, che invece che a governare un paese dovrebbe stare a fare lavori meno di concetto, per i quali sono evidentemente più tagliati. E con questo triste disincanto ho pensato che questi due episodi somigliano tanto alla famosa leggenda di Maria Antonietta di Francia che, di fronte al popolo affamato, risponde “che mangino delle brioches!”. Ecco, Brunetta & co. dicono quel che dicono per il semplice fatto che un italiano vero, un precario, un lavoratore, non l’hanno mai visto. Non hanno idea di che significhi trovare solo contratti a progetto sottopagati e senza tutele sindacali fino a 40, 50 anni, e nel frattempo cercare faticosamente di farsi una famiglia. Non hanno idea di cosa voglia dire studiare venti anni, prendersi una laurea e un dottorato e poi sentirsi dire dallo stato che il tuo lavoro non serve, che sei un parassita. Abituati a farsi avanti a forza di trucchetti, interessati solo al loro smisurato ego (“stavo per vincere il Nobel”, dice Brunetta in un video che non sono riuscita a vedere fino in fondo, perché mi vergognavo per lui), vivono uno scollamento totale dalla realtà. In questo sono i degni epigoni del loro capo, quel Berlusconi che per vent’anni ha reso realtà il bipensiero di Orwelliana memoria, creando a uso e consumo di milioni di italiani una realtà alternativa in cui c’erano i comunisti e i magistrati cattivi, e lui che ci salvava dal male.
E proprio come la frase di Maria Antonietta, le parole di Brunetta e Stracquadanio fanno venire il voltastomaco, perché rappresentano il disprezzo più totale per schiere e schiere di persone che non solo si fanno un culo così ogni giorno, rinunciando al sogno non di diventare veline o calciatori miliardari, ma semplicemente di farsi una famiglia, ma devono anche sentirsi insultati. Perché se questo paese non è affondato è grazie alla schiavitù dei precari, che fanno girare l’economia. La ricerca la fanno i precari, per restare all’ambito che conosco meglio. Via i precari, fine della ricerca. Esistono interi enti in cui di cinquanta impiegati 48 sono precari, e di questi 40 sono co.co.pro., la forma legale di schiavitù.
Ma passiamo anche a quelli che nessuno vuole difendere, i dipendenti pubblici, quelli che a Brunetta fanno evidentemente ribrezzo, ma che anche all’italiano medio – che pure a quello aspira, un posto nel pubblico impiego – fanno abbastanza senso. Mio padre è un dipendente pubblico. L’ultima volta che l’ho visto tornare a casa alle 14.30 era quando avevo sei anni e giù di lì. All’epoca si lavorava anche il sabato, ma solo mezza giornata, così lui riusciva a tornare per le 14.30. Se andava bene. Se c’era da lavorare, si rimaneva.
Mio padre torna a casa tutte le sere alle 19.00, mio padre va a lavorare anche quando sta male, per fargli prendere una settimana di malattia c’è voluta la cataratta, e solo perché oggettivamente non ci vede. E questa è la sua vita da più di trent’anni. Eccolo qua, il fannullone che alle tre sta a casa a postare video di repubblica in giro per la rete. E capirete che a me girano le palle a elica a sentire questa gente che non ha lavorato un giorno solo della sua vita sparare a zero su un’intera categoria, per altro con quell’aria da “noi ci capiamo, noi furbi che sappiamo come gira il mondo”.
E purtroppo è vero. Quella dei precari, della gente che lavora, è l’Italia peggiore. Perché in Italia c’è stato un totale capovolgimento morale. I “buoni” sono quelli che hanno capito che si va avanti a forza di spintarelle, che bisogna muoversi sul confine labile tra legale e illegale per arrivare là dove le tue ridotte capacità, il tuo risibile curriculum non possono portarti. Stare sempre col più forte, leccare culi a tutto spiano e fottere il prossimo appena capita l’occasione. Questa è l’Italia migliore di oggi.
Ma l’aria sta cambiando. E i peggiori si sono rotti le scatole. E un bel giorno arriveranno le monetine e l’esilio anche per quelli che oggi si sentono in cima al mondo, solo perché sono convinti di aver capito come funzionano le cose. La storia è una ruota, e finire col sedere per terra è un attimo. Sono vent’anni che le cose vanno avanti così, ma la ruota non ha smesso di girare, affatto.
Nel frattempo, un pezzo un po’ datato ma sempre attuale che traccia un efficace ritratto di Brunetta, indefesso lavoratore dedito al bene del paese. Leggete e diffondete.

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Firme e voti

Oggi consueto post di servizio. Allora, per chi volesse, domani alle 17.00 faccio una sessione di firma copie alla libreria Mondadori del Centro Commerciale La Romanina, qui a Roma.
Per il resto, vorrei solo ricordarvi domenica e lunedì di andare a votare. Non votare per il sì o per il no. Semplicemente andare a votare. Perché astenervi significa una sola cosa: che ritenete gli argomenti referendari inutili, e se per voi il nostro futuro energetico e la gestione di un bene comune prezioso come l’acqua sono cose inutili, francamente mi sfugge cosa sia degno della vostra attenzione.
Andare a votare è un diritto-dovere: è un diritto perché l’ascolto della voce di tutti è alla base della democrazia, è un dovere perché lo dovete alla comunità di cui fate parte, è un gesto che non fate solo per voi, ma per tutti, in questo caso anche e soprattutto per le generazioni future. Invitare a non votare l’ho sempre trovata una cosa scorretta e fastidiosa, francamente intollerabile se a farlo è un politico. Per cui informatevi, fatevi la vostra opinione e andate a votare. E se non venite ad incontrarmi alla Romani – o dopo essere venuti, perché no – andate all’Europride :P .

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Opinioni e xenofobia

In genere la mattina, mentre vengo a lavoro, sento la radio. A seconda dell’orario si tratta de Il Ruggito del Coniglio o di Io, Chiara e l’Oscuro. Il più delle volte si tratta del secondo, perché è raro che mi riesca di uscire prima delle 10.00. Comunque. In genere ascolto con piacere, mi distraggo e mi rilasso mentre guido. I temi affrontati di volta in volta sono interessanti, la discussione pacata. Ogni tanto, l’argomento è più spinoso e il confronto si fa più duro, ma tutto sommato mi riesce sempre di ascoltare i vari punti di vista senza farmi il sangue troppo amaro. Tranne oggi.
Oggi si parlava di matrimonio per i gay: favorevoli o contrari? Ovvio che una cosa così stimola una discussione piuttosto accesa, anche tra gli ascoltatori di un programma come Io, Chiara e l’Oscuro, che immagino non proprio incolti. Ecco. Oggi ho spento la radio, ad un certo punto. No, perché sentire discorsi del tipo “noi normali, voi contro natura” senza poter sparare un sonoro vaffanculo a chi lo dice mi urta proprio i nervi. Perché qui non si tratta più di tolleranza, di cercare di capire il punto di vista altrui. L’omofobia non è un punto di vista: l’omofobia è xenofobia, è razzismo. Sono forme di ignoranza che semplicemente non si possono tollerare in una società aperta e democratica. Non è un punto di vista un’opinione che ha causato e purtroppo causa ancora la sofferenza, spesso la morte di migliaia di persone.
Quest’anno per la prima volta ho pensato di andare al Gay Pride. E non solo perché ci sarà Lady Gaga :P . È che non ci possiamo dire liberi quando una minoranza di noi semplicemente non lo è: perché è schiavitù non poter abbracciare, toccare, baciare la persona che si ama in pubblico, è schiavitù non potersi sposare o vedere riconosciuto in alcun modo il proprio legame con la persona che si è scelto di avere accanto per tutta la vita. Probabilmente non apprezzo tutto del Gay Pride, ma è anche vero che è la loro lotta, e che dunque sono tutto in diritto di scegliersi le armi. Ma se è vero questo, è anche vero che non li dobbiamo lasciare soli nelle loro rivendicazioni, se è vero che siamo una comunità, che qualcosa ci accomuna e si rende cittadini dello stesso stato. È come quando ho manifestato il 13 febbraio, ed ero contentissima che ci fossero degli uomini. Perché la lotta era sicuramente delle donne, ma questo non significa che non si debba dar loro l’appoggio, come si farebbe con qualsiasi nostro simile in un momento di difficoltà. Ecco, manifestare col popolo LGBT vuol dire “mi riguarda, la tua indignazione è la mia”, perché questo vuol dire far parte di un gruppo, decidere di vivere in società piuttosto che da soli. E poi, buttandola sul piano meramente utilitaristico, oggi sono i gay, domani potrebbe essere per noi. Come diceva quella poesia?

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perchè rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perchè mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perchè non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me e non c’era rimasto nessuno a protestare

L’11 invece non ci sarò. Ho un impegno, che per altro presto vedrete in bacheca. Ma spiritualmente ci sono. Voglio esserci. E magari, chissà, l’anno prossimo ci sarò davvero.

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De stupro

Confesso di non essermi interessata più di tanto alla storia di Strauss-Kahn. Non mi stupisce che un potente si senta in diritto di abusare di una donna; è nella natura stessa del potere prevaricare, stuprare, figurativamente, certo, ma spesso anche fisicamente, concretamente.
Poi però oggi ho letto due cose. Questa e questa. Sulla lunga scia dei commenti, ho visto anche questo.
Ora, io non sono a prescindere contro il garantismo, anzi. Quel che non capisco è perché il garantismo venga fuori solo quando si parla di potenti o peggio quando si parla di stupro. Voglio dire, i due rumeni accusati – si seppe poi ingiustamente – di aver aggredito una coppia di giovanissimi al Parco della Caffarella non vennero trattati da presunti innocenti. Le loro foto vennero sbattute in prima pagina, e nessuno stava lì a tessere trenodie sulle loro rughe, sull’impermeabile “borderline” – ma che cazzo significa “impermeabile borderline”, ma le parole hanno ancora un senso o le spariamo a casaccio? – o sulla “spietatezza dell’uguaglianza della legge”. Erano due rumeni, e questo li condannava da sé.
Ben diverso Strauss-Kahn, un uomo potente e rispettato. L’idea che possa effettivamente essere un porco, uno che ritenga di poter disporre della vita altrui come più gli aggrada, non ci sfiora. Ci identifichiamo in lui – o almeno lo fanno gli uomini, visto che i tre commenti che ho indicato sono di tre maschi – e allora via con la tristezza per le manette, via con i “ma magari e innocente”, per terminare con l’immancabile “e comunque lei se l’è cercata”. Già. Lei. Chi è lei? Una cameriera, come sembra compiacersi a dire Travaglio. E, anche qui, il nome con cui la si indica dice tutto. Una il cui lavoro è servire, e dunque la subordinazione, il piegarsi e tacere, fa parte della sua essenza. Per tutti è solo questo. La cameriera. Di colore, per giunta. Un essere agito. Un particolare sullo sfondo nel quadro che vede al centro il potente. Strauss-Kahn in manette, Strauss-Kahn che sorride alla famiglia. Lei è un accidente.
L’ho già detto altre volte, lo stupro mette sempre a nudo le viscere dell’opinione pubblica. Sebbene da qualche anno sia finalmente reato verso la persona, e non verso la morale, sembra che per molti sia rimasto un insulto alla pubblica decenza. Torniamo al caso della Caffarella, o a quello della signora Reggiani. Anche lì ebbi l’impressione che la gente non fosse indignata perché una persona era stata violata nella sua intimità, in quanto di più sacro ciascuno di noi abbia, e poi uccisa; mi sembrava che la gente si arrabbiasse perché qualcuno non appartenente alla nostra comunità – un rumeno, appunto, un altro – aveva osato mettere le mani su qualcosa che appartiene a noi. Vengono qui a violentare le nostre donne, e il pronome dice tutto. Così lo stupro non è più una violenza verso una persona: è un insulto a chi possiede una donna. Va quindi da sé che quando a stuprare è uno dei nostri, per di più potente, le cose cambiano. Lei se l’è cercata, le donne sono tutte puttane, lui ha fatto quel che ha fatto perché lei l’ha provato, perché ha perso la testa, perché è stato incastrato da un complotto.
Illuminante in questo senso è questo pezzo su uno stupro perpetrato da un ragazzo italiano ai danni di una ragazza italiana a capodanno del 2009, qui a Roma. Lui è un “bravo ragazzo”, la famiglia “per bene”, lui è dilaniato dal rimorso e ha fatto quel che ha fatto per un “mix di alcol e stupefacenti”. Lei? Chissenefrega di lei, vuoi mettere col dramma di lui.
Mi direte, ok, ma che c’entra Travaglio? C’entra. Prendere un fatto di cronaca doloroso, che è costato moltissimo ad una donna, per tesserci su un pindarico paragone con le vicende di Berlusconi – che con tutta il disprezzo per il personaggio e le innumerevoli colpe politiche che gli attribuisco, fino a prova contraria praticava sesso consenziente, e non ha mai stuprato nessuno – è pretestuoso e anche poco efficace. Far ridere la gente con le cameriere appoggiate ai piselli dei potenti mi dà fastidio, sì, tanto più se lo sberleffo scavalca a piè pari la carne della vittima, che viene ridotta alla figura comica della “cameriera”, appunto, come in un film scollacciato anni ’70. Anche perché poi il succo del discorso sembra essere “vedete, persino uno stupratore ha la nobiltà d’animo di farsi processare, invece il nostro presidente no”, e questo mi ricorda moltissimo il florilegio di articoli agiografici su san Totò Cuffaro che invece di fare il latitante va in galera.
Sembrano tutte questioni di lana caprina, ma non lo sono. Dicono tantissimo di quali sono i valori della nostra società, di qual è il posto che la donna vi occupa. A voi tirar le somme.

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Confusione

Sono confusa. Ebbene sì. Leggo in giro notizie che mi lasciano perplessa, a volte mi indignano, altre mi inducono a credere che ci sia in me qualcosa che non va. Ad esempio qualche giorno fa ho letto questa notizia. Che mi ha lasciata basita.
Precisiamo. Non è che mi lasci basita il contenuto delle dichiarazioni del credente Roberto De Mattei, che, come tutti noi, è libero di credere quel che gli pare. Non condivido neppure le virgole di quel che dice, ma tutto sommato sono fatti suoi. Se si sente a suo agio a credere in Dio che punisce la gente con i terremoti, e considera le vittime innocenti alla stregua degli “effetti collaterali” di una guerra delle nostre, buon per lui. Quel che mi lascia basita è il ruolo ricoperto da quest’uomo: videpresidente del CNR, che per chi non lo sapesse è il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Ora, De Mattei è uno storico. E bon, poco male, tra istituti afferenti al CNR ce n’è anche uno che si occupa di storia. Però ce ne sono due miliardi di altri che si occupano di scienza nel senso più puro del termine, e la scienza può sì convivere con la fede personale (ok, non tutti ritengono sia possibile, ma gli scienziati credenti esistono), ma il compito diventa arduo quando la fede induce a sostenere che l‘evoluzionismo sia una teoria senza fondamento scientifico, a differenza della teoria del disegno intelligente, o che Adamo ed Eva furono figure storicamente esistite.
Ma forse sono io che non dovrei stupirmi. Viviamo nel paese in cui un ministro della repubblica dice che la cultura non si mangia, ovvio che questa gente qui poi metta un integralista cattolico ai vertici di un ente di ricerca.
L’altra sorgente di confusione è l’energia nucleare. E ne ho ben donde. In questi giorni sto continuando ad interessarmi all’energia nucleare. Vorrei capirci qualcosa, ma non è semplice. Gli studi sui costi, la fattibilità, i tempi di esaurimento dell’uranio, persino il numero di malati e morti causati da Chernobyl dicono tutto e il contrario di tutto. Il problema è enormemente complesso, anche quando lo si guardi da un’ottica meramente quantitativa. Stabilire l’impatto sulla salute pubblica di Chernobyl, ad esempio, è già arduo. Figurarsi riuscire a capire se l’energia nucleare è davvero pulita, se davvero conviene quando si considera il rapporto costo benefici. E questo, ovviamente, senza tirare in ballo questioni etiche (e se c’è un incidente? Vogliamo prenderci il rischio?). Questo per dirvi che è un problema complesso, in cui farsi un’opinione non è per niente semplice.
Ma finché le idee confuse ce le ho io può anche andar bene. È quando i capi di governo ce le hanno, che le cose si complicano.
Come tutti sapete, questo governo è favorevole al nucleare. Per loro è pulito, per loro conviene. Tralasciamo che Berlusconi ne ignora il principio di funzionamento, ma non voglio sparare sulla Croce Rossa. Piuttosto mi interessa Tremonti. Sì, lo stesso che “la cultura non si mangia”. Ha detto questo. Che è vero. Non tutti sanno che una centrale nucleare “dura” al massimo una quarantina d’anni, poi tutto va smontato e impacchettato. Il che costa. Poi però, oggi, a In Mezz’Ora, dice il contrario: con il nucleare il tasso di crescita sarebbe più alto.
Dunque, il nucleare ci lascia un “debito atomico”, di cui bisogna tener presente quando si calcola il Pil degli altri paesi europei, debito che noi non abbiamo, perché non c’è il nucleare. E ok. Però, al tempo stesso, se avessimo il nucleare avremmo un Pil più alto. Eh?!
Ok, non sono un’economista, lo ammetto, per cui mi rimetto a chi ne sa più di me: sbaglio o Tremonti sta togliendo e aggiungendo una spesa al totale come più gli fa comodo?
E la confusione aumenta…

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Sangue, dolore e morte

Al di là di qualsiasi cosa se ne pensi, questo intervento in Libia è organizzato coi piedi. Non esiste un comando centrale, e la coalizione non sa mettersi d’accordo su chi dovrebbe assumerlo: la Nato? l’ONU? Ognuno per sé?
Non c’è chiarezza d’intenti neppure sull’obiettivo degli attacchi. Far cadere Gheddafi? Mantenere la no fly zone?
Non si sa neppure cosa stiamo esattamente facendo noi italiani. Diamo le basi, e questa sembra l’unica certezza. Poi La Russa dice che non spariamo un colpo, ma i piloti non sono d’accordo.
La sparata migliore, però, è quella di La Russa di ieri sera: i nostri aerei non fanno vittime.
Siamo all’ipocrisia massima. Dopo la guerra umanitaria che porta la pace, siamo passati direttamente alla guerra che non fa vittime. E quindi i nostri caccia cosa stanno facendo? Sono necessari?
Dobbiamo raccontarcela giusta. Dobbiamo tornare a considerare la guerra per quello che è realmente: sangue, morte, dolore e disperazione. Lo è sempre. Da anni siamo abituati ad un’idea chirurgica e asettica della guerra che non esiste. Le bombe sganciate dagli aerei ci hanno liberato dal peso di doversi confrontare con le conseguenze delle nostre azioni.
Cominciò nel ’90, con la Guerra del Golfo. Ricordo ancora le immagini pulite, algide del missile che puntava il bersaglio, e poi lo disintegrava. Non si vedevano morti, membra sparse, sangue, niente. Da allora quella è diventata l’unica immagine della guerra che abbiamo in testa: un pilota che vola alto, che non vede mai negli occhi il suo nemico, e sgancia bombe che colpiscono gli edifici salvando miracolosamente le persone. Non è così. Non lo sarà mai. È per questo che invece io scrivo sempre di combattimento all’arma bianca. Perché quando hai una spada in mano non puoi fuggire lo sguardo del tuo nemico, non puoi distogliere lo sguardo dalla sua sofferenza, dal puzzo di morte e sangue del campo di battaglia, non puoi chiudere le orecchie alle grida di dolore. La guerra è questo. E a maggior ragione se si è a favore della guerra bisogna essere pienamente consapevoli di cosa provochino le bombe.
Siamo fortunati. Da sessantasei anni non c’è guerra in Italia. I nostri nonni, che videro la Seconda Guerra Mondiale, stanno morendo, e a breve non ci sarà nessuno che potrà raccontarci com’era quando le bombe cadevano, quando si combatteva casa per casa, e l’Italia era dilaniata in due. È una conquista, è una cosa positiva, certo. Ma dobbiamo guardarci dall’oblio. Perché pensare che ci siano guerre che non fanno vittime è il primo passo per ripetere gli errori del passato. Se non si pensa più che guerra è orrore, allora siamo pronti per ricominciare ad ucciderci l’un l’altro come ai bei tempi andati, per vedere di nuovo sangue e morte anche per le nostre vie.
Vale sempre il vecchio detto: la campana suona per te, sempre. Oggi è la Libia. E domani?

P.S.
Vi ricordo ancora di Autori per il Giappone. La notizia è scivolata in fondo ai quotidiani, ma in Giappone la gente ancora muore e la situazione a Fukushima rimane critica. Il fatto che non se parli non significa che la crisi è risolta, anzi. Per cui andatevi a leggere W e gli altri racconti, lasciate un commento se volete, e soprattutto donate a Save the Children.

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Guerra – Pace

Art 11 della Costituzione

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Bel modo di festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia, con una bella guerra. Perché siamo in guerra, inutile starcela a menare.
Il potere dice: era necessario per salvare la popolazione civile dai bombardamenti di Gheddafi. Sarò tarda io, ma non ho mai capito come altre bombe possano salvare i civili. E ancora: qualcosa dovevamo pur fare. Se bisognava intervenire, occorreva farlo prima e con altri mezzi: con una forza di interposizione dell’ONU, ad esempio, che non si schierasse a favore dell’uno o dell’altro schieramento, ma che semplicemente separasse i contendenti, e magari imponesse elezioni e vigilasse su di esse.
Così semplicemente facciamo quel che è già stato fatto in Iraq: togliamo un dittatore che non ci sta più simpatico per metterci…chi? Chi ci mettiamo? Vedo profilarsi all’orizzonte quel che è già successo a Iraq e Afghanistan: il caos più totale, l’ingovernabilità, per altro ad un tiro di missile da noi.
Senza contare l’ipocrisia del tutto. Perché non andiamo a intervenire anche in Bahrain? Anche lì sparano sulla popolazione. La situazione è diversa. Perché?
E vi dico di più: io l’ho letto il trattato che sancisce i rapporti diplomatici tra Italia e Libia, e ha ragione Gheddafi, l’abbiamo violato. Ma Gheddafi è un dittatore sanguinario. E allora perché ieri gli abbiamo stretto la mano, l’abbiamo invitato da noi con la sua tenda e gli abbiamo offerto cinquecento fanciulle alle quali potesse delirare? Perché abbiamo stretto un accordo con lui?
Questa era la rivoluzione dei libici, espressione di una parte della sua popolazione, e come tale doveva continuare. I dittatori li abbattono i popoli che opprimono, è così che deve funzionare. Adesso è solo un’altra guerra che porterà altro sangue, altra confusione, altra instabilità.
Le immagini che vedo oggi in tv sono le stesse che vidi ventuno anni fa, quando ero ancora una bambina. Era il 1990 e c’era la Guerra del Golfo. Non è cambiato niente.

*****

Benché i giornali inizino già a dimenticarselo, il Giappone permane in una situazione di estrema prostrazione e di emergenza, e non solo per la questione Fukushima, ma soprattutto per il terremoto e lo tsunami. Io penso ancora a Tokyo, ci penso da dieci anni.
Lara Manni ha promosso questa iniziativa: si tratta di un blog che contiene al momento sessanta racconti scritti da professionisti e non. Alcuni sono stati redatti per l’occasione, e parlano in qualche modo del Giappone, altri no. Quel che vi chiediamo è di fare un’offerta a Save the Cildren, che in questo momento si sta occupando anche di Giappone. Donate quel che volete, anche pochissimo, ma, se potete, fatelo.
Due parole sul mio racconto. Non è stato scritto per l’occasione, ma è una cosa che avevo buttato giù nel 2007 per I Confini della Realtà. L’idea è ancora più vecchia. Mi venne in mente un giorno in aereo: stavo iniziando a sconfiggere la mia paura di volare, ma ancora non mi sentivo esattamente tranquilla a volare. Come sapete, nell’antologia poi ci finì Nulla Si Crea, Tutto Si Distrugge, e questo racconto qui finì nel cassetto. Mi è venuto in mente appena sono stata contattata per questa iniziativa. L’ho rimesso a posto sabato, ho riscritto alcune parti, ho completamente cambiato la scansione degli eventi e infine l’ho spedito. Non so se sia adeguato o meno all’occasione, visto che non parla né di Giappone né di terremoti, ma in qualche modo non ha mai smesso di parlarmi dal 2007, chiedendomi di essere messo a posto, e di essere letto. Mi appartiene molto, quando e se lo leggerete capirete perché.
Intanto, grazie a tutti.

Autori per il Giappone

P.S.
Non ce l’ho detto esplicitamente, ma ovviamente sono ben graditi i commenti sul racconto, eh? :)

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Autore/Autrice

Stasera vado a controllare la posta. Guardo anche in mezzo allo spam perché a volte ci trovo mail importanti. E l’occhio mi cade all’istante su un oggetto “Ricerca di inediti per collana tascabile”. Il mittente è Edizioni Nonvelodicoperchésidiceilpeccatononilpeccatore, per gli amici Edizioni NVD (Non Ve lo Dico, prima che andiate a compulsare internet, curiosoni!). Ora. Di recente ho conosciuto un ragazzo che dirige una piccola casa editrice, di cui al solito – grazie memoria da pesce rosso – non ricordo il nome. Per cui ho aperto la mail.

Caro Autore/Autrice

E ho capito subito:
a. che non si trattava decisamente della casa editrice del ragazzo che ho conosciuto
b. che stavo per farmi qualche bella risata.
Ebbene sì. Ho ricevuto una proposta editoriale da una casa editrice a pagamento. Sono quasi emozionata. Voglio dire, non mi era mai capitato. Una proposta editoriale. A me. Sono commossa.
Ma veniamo al dunque. Le Edizioni NVD non hanno la più pallida idea di chi io sia. Come non hanno la più pallida idea di chi siano gli Autori/Autrici cui spedisce le mail. È spam alla cieca. Che deve anche essere proibito per legge, mi sa. Ma funziona. Perché si sa che gli italiani scrivono ma non leggono, per cui tra dieci persone che si vedono recapitare la mail, otto avranno nel cassetto un manoscritto, e almeno quattro non sanno la differenza tra una casa editrice a pagamento e una seria (don’t worry, prima di conoscere Mondadori non la sapevo nemmeno io). I conti sono presto fatti.
Ma leggiamo oltre.
Mi si mette al corrente, con eloquire forbito che sa tanto di supercazzola con scappellamento a destra, che la Edizioni NVD hanno immesso sul mercato una collana figherrima di opere tascabili, nota urbi et orbi col nome “Appunti di Viaggio di Mithrandir – da oriente a occaso” illustrata elegantemente da uno dei loro illustratori. E io mi domando: ok, e a noi?
La risposta viene subito sotto.
Siccome una collana con un libro fa un po’ brutta figura, ne vogliono pubblicare a pacchi in modo da pubblicizzare meglio e la collana e il singolo titolo. E già qui non è che capisca perché pubblicare ottanta tascabili aiuti la visibilità del quarantesimo, ma fingo di capire e vado avanti.
Loro, che manco sanno se sono uomo o donna, e dunque suppongo non sappiamo manco se sono un autore o meno, pensano che mi faccia piacere sapere come si fa ad essere pubblicati da loro. Che bello, mi fanno un onore! È dall’ultima volta che mi hanno chiamato dottoressa, tipo alla seduta di laurea, che qualcuno non mi onorava tanto! Specificano anche che l’invito è a me “di persona pirsonalmenti”, che non è che io poi inoltro la mail a mio cugino e vale pure per lui, no! Vale solo per me Autore/Autrice. Perché io valgo, tipo L’Oreal.
Seguono oscuri dettagli sulle date di pubblicazione, che però si peritano di infilarci un “periodo natalizio”, perché tutti sanno che a Natale si vende di più, motivo per cui basta evocare lo spettro di Babbo Natale per convincere l’Autore/Autrice ancora restio.
Viene poi specificato come mandare i manoscritti: la sintesi è, come cazzo ti pare. Ma non tanto lunghi, che sennò ci scocciamo.
Nota bene che fin qui non ci sono criteri per la pubblicazione. Non c’è scritto: “Se il libro ci piace te lo pubblichiamo, sennò ciccia”. La pubblicazione sembra automatica. E qui non so se lodare l’onestà di fondo delle Edizioni NVD, oppure lamentarne la scarsa furbizia: cara Edizioni NVD, i quattro Autori/Autrici di cui sopra che potrebbero essere vostri potenziali clienti non è che “vogliono pubblicare”, vogliono essere scelti, vogliono sapere che il loro libro è migliore di quello della cognata, e dunque degno di pubblicazione. Comunque. Andando avanti si parla anche di un premio, Vergato sul Membro 2011 (grazie Michele Vaccari per la definizione!). E qui ovviamente io Autore/Autrice mi sciolgo definitivamente: un premio lo voglio, e che cavolo. Vuoi mettere che figa la targa da far vedere agli amici.
Poi, finalmente, arriviamo al punto. La Edizioni NVD mi dice che è ovvio e anzi direi consuetudine universale chiedere all’Autore/Autrice un contributo per le spese di pubblicazione. Che per altro sta sotto i mille euro, pensavo peggio. Finalmente, si parla anche di opere pubblicabili: pare che sceglieranno le prime tot tra quelle che riterranno degne, gli altri si attacchino, anche se sono bravi. Leggi: muoviti, che sennò i posti finiscono e quell’antipatica di tua cognata pubblica e tu no. Anche perché hai tempo per spedire la tua opera non oltre la fine del mese.
Infine, arriva la parte minatoria: se io Autore/Autrice mi azzarderò a comunicare in giro il contenuto strettamente confidenziale di questa mail a me pirsonalmenti indirizza, peste mi colga! Mi scatenano contro i loro legali, sette anni di guai, sciagure di vario genere et similia. In fede, il vostro affezionato Tizio Caio delle Edizioni NVD che non vede l’ora di avervi tra i suoi Autori/Autrici.

Ora, ci siamo fatti quattro risate, ma qua la cosa è seria. L’editoria a pagamento non è editoria. Punto. È un servizio di stampa copie, fa il lavoro di una rilegatoria. Un editore investe sull’autore, lo paga per il suo lavoro, spesso con un anticipo sulle vendite, e mai, mai gli chiede soldi. Perché funziona così: tu autore metti il lavoro, lui editore mette il rischio. Ed è per questo, per inciso, che si prende anche la fetta maggioritaria sul guadagno.
Una casa editrice a pagamento guadagna coi soldi degli autori; l’autore si ritrova con cinquecento copie del suo libro che gli ammuffiscono dentro casa, perché ad un certo punto finiscono i parenti cui regalarle, e una cifra variabile dalle varie centinaia ad alcune migliaia di euro in meno nel portafogli. La casa editrice a pagamento ha guadagnato.
Infine, le case editrici a pagamento sono la morte dell’editoria e della letteratura: non selezionano, pubblicano tutto, perché non gli interessa vendere libri, gli interessa prendere soldi dall’autore. Fine.
Ora, se quel che vi interessa è solo il libro rilegato, se sapete perfettamente cosa è una casa editrice a pagamento e per motivi vostri decidete di rivolgevi ugualmente ad essa, ok, no problem. Se siete ben consci del reale servizio offerto, nessun problema. Vi dico solo che potrebbe risultare più conveniente usare l’editoria on demand, tipo lulu.com o ilmiolibro.it. Quest’ultimo servizio l’ho usato anch’io per rilegare un libro in cui ho raccolto le riflessioni che ho fatto quando aspettavo Irene: volevo conservarlo e darlo a lei quando sarà grande, e sono stata soddisfatta del servizio offerto.
Vi metto però in guardia: se volete davvero fare gli scrittori di mestiere, se volete davvero essere letti da un pubblico che vada oltre i vostri amici e parenti, se volete davvero crescere come autori, non vi affidate alle case editrici a pagamento. Non è il loro mestiere. E se vi dicono che tutte le case editrici fanno così, che sono piccoli e non ci rientrano nelle spese, non gli credete: è una palla. Ci sono piccole case editrici che vivono benissimo senza chiedere soldi agli autori.
Infine, un bell’elenco di case editrici a pagamento: quella che mi ha mandato la mail è una di queste.

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Don’ t call me scema

I miliardi di modi in cui la pubblicità è in grado di prendere concetti importanti e svilirli mi lascia sempre basita. E sì che dovrei esserci abituata. Vivo immersa nel mondo del consumismo da quando sono nata. Però, niente da fare, ogni volta mi ritrovo lì con la mascella a penzoloni davanti all’ennesima campagna che riesce a mercificare quel che non dovrebbe essere in vendita.
Stavolta si parla della Sisley. I pubblicitari di questa casa, da bravi trend-setter, devono aver percepito che le donne in questo periodo sono incazzate, che c’è una ridiscussione del femminismo, che molte di noi si battono contro l’immagine degradante che del femminile è dato dai media. E si devono essere detti: “Ci dev’essere un modo per far soldi da questa cosa”. Detto fatto.
Nasce la campagna Don’t Call me Doll. Che così viene spiegata da un sito che ha dato la notizia:

“Oggi mentre la tv, ma anche la politica mettono la plastica e l’apparenza in prima fila, Sisley decide di mobilizzarsi privilegiando le donne vere, dinamiche, autonome e indipendenti, donne che veste da sempre.”

Apperò. Interessante. Certo, che un marchio che si pubblicizza con foto del genere parli di donne vere, autonome e indipendenti…mah. Ma ci può sempre stare la conversione sulla via di Damasco.
Poi si scopre che la maglietta è questa qua, che uno dice, ma che c’azzecca San Valentino? Ma lo scopo definitivo della campagna appare evidente quando si va a indagare su cosa sia l’evento del 12 febbraio a Milano. Un flash mob in cui un centinaio di ragazzine, tutte vestite uguali, ossia con la suddetta maglietta, ballano ammiccando a Piazza San Babila sulle note di La Bambola di Patty Pravo. Non ci credete? C’è la testimonianza video.
Allora. La canzone con l’emancipazione femminile c’entra un piffero. È la storia di una che si lamenta di come è trattata dall’amante, che si intuisce più giovane e avventato di lei. Poi qualcuno mi spieghi come duecento persone, abbigliate allo stesso modo, che ripetono gli stessi passi, affermano l’unicità e l’indipendenza delle donne. Semmai esprimono chiaramente l’omologazione, e perpetuano il modello velina, che è quello che va per la maggiore in questo momento storico. Ed è esattamente a questo punto del discorso che mi incazzo. Perché fin qui poteva trattarsi solo di una stupida campagna pubblicitaria. Invece è qualcosa di più, e di molto più dannoso.
La Sisley prende le legittime rivendicazioni delle donne, e l’appeal che evidentemente hanno sulle giovani – o non saremmo state un milione in piazza, il 13 febbraio – e le svuotano di significato, le stravolgono per renderle innocue e prone allo scopo principale: inculcarci il desiderio di comprare magliette e omologarci ad un modello unico di bellezza. L’idea di fondo della campagna è: ti attira il femminismo? Beh, non c’è bisogno che tu ti informi e ti crei una consapevolezza critica sull’immagine della donna. Prenditi questa maglietta, balla con noi e sarà un po’ come andare a manifestare in piazza per la dignità delle donne. Di più: le vere donne emancipate non sono quelle sciattone in piazza, coi cappotti lisi, i pugni alzati e lo slogan urlato, ma quelle giovani, carine, con indosso la roba giusta, che usano il loro corpo perfetto per farsi strada. Se vuoi essere davvero emancipata e forte devi essere come loro, ballare uno stacchetto da cretine è l’unico modo in cui ti è permesso affermarti. Tutto il resto è superfluo, e soprattutto non cool.
A me questo fa arrabbiare. Che si cerchi di addomesticare la carica eversiva di un milione di donne in piazza riducendole al modello unico imperante. Che si lucri sulla nostra rabbia, che la si mercifichi, che la si riduca ad una maglietta fashion.
È questo che fa il consumismo, da sempre. Ci svuota. Prende qualcosa, ne toglie il senso, e lo riempie di cose. Ci costringe a incasellarci, anche quando siamo arrabbiati, anche quando cerchiamo di scrollarci di dosso le etichette.


And they make me
Make me dream your dreams
And they make me
Make me scream your screams


dice la canzone, e ha ragione, è così. Il consumismo ci dice cosa dobbiamo desiderare, e anche come ci dobbiamo arrabbiare. Ci toglie la libertà, ci trasforma in target, perché è più facile soddisfare i bisogni di un pubblico facilmente incasellato in una serie di tipologie tipiche: la ribelle, la casalinga, la “donna emancipata”.
E la cosa triste è che l’evento è piaciuto. Tanto è vero che lo rifanno. Significativa in questo senso è questa testimonianza.
Vi prego, non facciamoci fregare. Esistono tanti modi per ingabbiarci, per renderci schiavi, e questo è tra i più subdoli e più devastanti. Continuiamo a ragionare, a farci domande, a informarci. E non rinunciamo a tutta la straordinaria varietà e ricchezza della nostra unicità.

P.S.
Grazie a Fab per la segnalazione

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Non ci avrete mai come volete voi

Sebbene fare foto mi piaccia molto, il mio mezzo d’espressione più congeniale è la scrittura. E quindi, dopo il silenzio delle immagini che parlano da sole, un po’ di parole.
Domenica non me la sono goduta fino in fondo perché mi sono sentita male, ma quanto meno le vertigini e il batticuore non si sono portate via la soddisfazione di dire che c’ero. C’ero, in mezzo a gente di tutti i tipi: uomini, donne, bambini, adolescenti, anziani. Un po’ poche persone della mia età, devo dire, ma forse era il posto dove stavo io ad essere sfigato in questo senso. Erano le facce bellissime delle donne comuni: delle casalinghe, delle lavoratrici, delle mille sfumature del femminile. Ed erano belle perché erano varie, diverse. Perché è questo che ci vogliono togliere: la diversità, la libertà di essere tutto ciò che vogliamo. Pensate alla bellezza fisica, pensate alle veline, alle miss, alle donne che si vedono in tv: tutte identiche, pezzi di carne standardizzati su un modello di bellezza a senso unico, corpi dai quali si cerca a tutta forza di togliere l’anima. Le donne in piazza invece erano belle perché ci credevano, perché c’erano le alte e le basse, le bellissime e le bruttissime, le sane e le malate, le cattoliche e le atee, quelle coi capelli bianchi orgogliosamente sfoggiati, e quelle con la tintura appena fatta. E i loro occhi erano pieni di cose, di voglia di fare e di esserci, di dire “io sono qui, e sono diversa da come mi volete voi”. Non ci avrete mai come ci volete. E che belli anche gli uomini, accanto a noi e con noi, a supportarci, a riconoscere i nostri mille modi d’essere. Belli anche quelli come mio marito, che è rimasto a casa con Irene per permettere a me di andare. Avrei voluto portare anche lei, per farle capire la vertigine assoluta della folla, la potenza del popolo quando si riunisce a far festa, ma era una tale bolgia che non sarebbe stata una bella esperienza, per lei.
E l’urlo della folla, di quelle centomila persone che letteralmente traboccavano dalla piazza, faceva paura: faceva paura la gioia, perché il capitale ci vuole grigi e passivi, vuole che il sesso non sia amore, ma puro mercimonio di corpi, privato di qualsiasi allegria, di qualsiasi condivisione. La gente in piazza invece amava davvero, perché non era lì solo per sé, ma anche per tutte quelle che non erano potute venire, per quelle che non hanno voce, persino per quelle che non erano d’accordo.
Nella mia vita sono stata fortunata: sono sempre stata libera di esprimere me stessa in tutti i modi, ho potuto compiere studi che in passato venivano considerata roba da maschi, e quasi mai sul lavoro mi sono sentita discriminata per il mio essere donna. E allora perché sono scesa in piazza? Per chi non è così fortunata. Per le schiave sulle strade, per le donne abusate, per quelle che il marito non le fa uscire o non le permette di guidare la macchina, per quelle che sono convinte che solo il corpo ti permetta di andare avanti, per dire che le altre strade sono possibili, che si può essere libere, che si può essere diverse.
E paura la nostra folla deve averla fatta davvero, a sentire le critiche che sono piovute sulla manifestazione.
“Poche radical-chic”, dice la Gelmini. Eccole, le parole private di senso, ecco di nuovo il tentativo di metterci tutte sotto un’unico ombrello, di bollarci. Quando domenica si chiedevano certo le dimissioni di Berlusconi, ma non solo: si chiedeva alla società civile di svegliarsi, si diceva no al precariato, no alla discriminazione, no allo sfruttamento della prostituzione. Un sacco di no, impossibili da ridurre in unità. E di certo non eravamo poche, se tante come me si sono sentite male, strette da una folla veramente traboccante.
“Le donne scendano in piazza per ragioni vere”, dice La Russa. Certo, chiedere il rispetto dei diritti e della dignità delle persone non è una cosa seria. Minimizzare, questo è l’ordine. Lo sentite il disprezzo che trasuda da queste parole? L’offesa per centinaia di migliaia di cittadine che hanno dimostrato forte e chiaro di sapere esattamente cosa volevano e come chiederlo?
“Manifestazione faziosa frutto di una cattiva informazione” dice Berlusconi. Che dimostra di non sapere cosa significa il termine, visto che una manifestazione di piazza è sempre e orgogliosamente espressione di una fazione. Se non si esprimesse una chiara opinione non si scenderebbe in piazza.
Ma tutti, poi, più o meno velatamente ti fanno capire che centomila donne possono scendere in piazza solo se sono state manipolate: si parla di strumentalizzazione, di sinistra che cavalca il dissenso. Come a dire che una donna ha comunque bisogno di qualcuno che le dica come pensare e come manifestare. Perché è questo che fa paura: che per una volta le donne non sono state prone, sono state protagoniste, e con orgoglio hanno esibito non più solo corpi, ma idee, pensieri, passioni.
C’è chi dice che sarà un fuoco di paglia. Che è stata una festa dei pazzi, e resterà confinata ad un pomeriggio di febbraio. Io spero non sia così. È successo qualcosa, domenica, qualcosa di grande. La società civile ha dimostrato di esserci, e di non essere anestetizzata dalla disinformazione, dalla tv, dalla logica del “sono e siamo tutti uguali, per questo dobbiamo tacere e andare avanti”. Non è vero che “adda passa’ a nuttata”. Questa notte non passa se non la facciamo passare noi.
Una bella manifestazione ti lascia qualcosa addosso. Non si esaurisce in piazza, ma getta germogli. Io voglio credere che siano stati gettati dei semi. Che questa non sia la fine, ma l’inizio. Che rinascere è possibile, che possiamo ancora aspirare ad una politica che sia di nuovo passione, e a una società dedita alla sostanza, e non più all’apparenza.
Vi linko uno degli interventi più belli di domenica, quello di Suor Eugenia Bonetti. È la dimostrazione che lì in piazza c’erano tutte, anche chi in piazza di solito non si scende, e che eravamo tutte davvero unite.

Suor Eugenia Bonetti: “Riprendiamoci la dignità”

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