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Il primo giorno

La giornata comincia male. Suona la sveglia alle 7.30, e io e Giuliano rinveniamo quei tre secondi bastevoli a dirci
“Mpf…fai la colazione tu…”
“no..tu…groan…”
per poi tornare tra le braccia di Morfeo. Quando rivengo, sono le 8.00. E alle 8.30 e io e Irene dobbiamo essere pronte per uscire.
Bevo latte freddo senza caffè, ingurgito due fette biscottate così, al volo, mentre Giuliano sveglia la pupa e la sfama.
Come Dio vuole, alle 8.25 siamo pronte. È un giorno importante, perché oggi Irene va all’asilo nido per la prima volta. Io l’ho un po’ pompata, partendo da mercoledì a dirle che andrà in un posto bellissimo con tanti bimbi.
Arriviamo, ed è una pipinara, come si dice da queste parti. Genitori, bimbi, alcuni urlanti. Irene tiene botta. S’è lamentata che la abbia tolto di mano il “cappeio”, il mio cappello nero, ma guarda tutto curiosa e non vuole più stare in braccio. Qualche foto, poi arriva una maestra che mi dice che posso entrare. Un bacetto al papà, e siamo dentro. Metto giù Irene e lei semplicemente si dimentica di me. Va dagli altri bambini, si fionda sui giocattoli, si fa coccolare a biscotti. Le maestre sono piacevolmente sorprese.
“Senta, ma…che ne dice di uscire? È tanto tranquilla…”.
Esco dal recinto dei bimbi e mi metto fuori dalla porta. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Vagolo per il giardino, navigo con l’iPhone, sto con le orecchie a punta a studiare le vocine che vengono da dentro, per distinguere la sua voce. Fuori, bambini che sorridono, bambini che piangono, bambini che invocano la mamma e il papà.
Passano i minuti e nessuno mi viene a chiamare. Ogni tanto sento la maestra che chiama Irene. La maestra a intervalli regolari esce e mi dice che sta andando alla grande.
Dopo un’oretta rientro. Lei è alle prese coi pentolini. Mi guarda dandomi approssimativamente per scontata: ah, qua sei? Resto qualche altro minuto, e mi beo a vederla che gioca. Poi la maestra mi dice che possiamo andare, e che domani staremo un po’ di più.
Irene tutta contenta fa ciao ciao a tutti i bimbi, e continua con le maestre, le altre mamme e qualsiasi altro essere vivente le si pari davanti. Io le stampo un bacione grandissimo sulla guancia. Esco con un sorriso a ventisei denti (me ne mancano cinque, lo sapete). Dio come sono orgogliosa…

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Sento di dovervi una spiegazione

Non sono ancora in ferie.
Non mi è venuto a noia il blog.
Non mi è passata la voglia di scrivere.
Il motivo della mia scarsa presenza su queste pagine è un altro. Nelle ultime due settimane ho fatto vita da casalinga. La donna delle pulizie è in ferie, i miei anche, e quindi con Irene e con la casa devo sbrigarmela da sola. Confesso che non mi era mai capitato prima. A causa delle duecento cose che faccio nella mia vita (dottorato, scrittura, avere una vita sociale, varie ed eventuali) ho sempre avuto qualcuno che mi ha aiutata. Quando non c’era Irene riuscivo a dedicarmi più o meno da sola alla casa. Adesso, semplicemente, non ce la faccio. E quindi, vi dicevo, il tempo da dedicare ad altre cose si è drasticamente ridotto.
Devo dire però che mi ci voleva, proprio perché, nel bene e nel male, non me la sono mai cavata davvero da sola. L’immagine che avevo di me, prima di queste due settimane, era quella di una persona incapace di fare tutto, proprio tutto da sola, e dipendente dall’aiuto degli altri. Io sono sempre stata così. Non riesco a valutare il mio lavoro se non specchiandomi negli altri, e sono convinta sempre di non farcela da sola. E invece.
E invece, tra alti e bassi, è andata. Irene è stata male, siamo anche finiti al Pronto Soccorso, ma siamo sopravvissuti. Lei è guarita, ok, mi sono ammalata io, ma ovviamente questo non è un problema. Non ho dato fuoco alla casa, non ho montagne di panni da lavare che mi salutano la mattina, Giuliano ha sempre quelle tre o quattro camice pronte stirate e la pulizia di casa è su livelli accettabili. In più, con Irene ci divertiamo tanto, e con niente, e questa è la cosa più bella di tutte. Riesco anche, più o meno, a lavorare. Col libro nuovo fila liscio, con la tesi le cose sono un pelo più farraginose, ma non potrebbero non esserlo, dato che in genere lo slot temporale che dedico alla cosa adesso è occupato da Irene. Ma va, dannazione, va. Tranne che, appunto, ho meno tempo per curare il blog. Ma, francamente, voi barattereste la possibilità di giocare a nascondino con un figlio con un po’ di tempo in più sul blog? Ecco, appunto.
Lunedì Irene inizierà ad andare all’asilo, e le cose cambieranno di nuovo, vedremo come. Nel frattempo, ho fatto un piccolissimo passo per l’umanità, ma un bel passetto verso la conquista di un’autostima un po’ più salda.

P.S.
Sono tornata su Flickr. Ora che faccio più foto mi sembrava un buon modo per cercare di incentivarmi a migliorare, magari anche a studiare un po’, se trovo il tempo per farlo. Il link al mio spazio è sulla colonna destra del blog, sotto la dicitura Flickr, ma, se volete farci un salto subito, vi basta cliccare qui.

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Patti

Interno mattina. C’è una bella luce ambrata che entra dalla finestra.
Irene si rotola nel lettino come tutte le mattine.
Io: “Allora, patatina, andiamo a fare colazione?”
Irene: “tadatamaiketotolalabe”
Io: “Sì, dai, andiamo a fare colazione, su”
Irene, a pancia in giù, facendo la vaga: “Bibotti?” (trad.: Biscotti?)
Io: “sì sì, biscotti e anche un po’ di yogurt”
Irene, tirandosi su di scatto e tendendo le mani per farsi prendere in braccio: “Okkey!”

La si corrompe ancora con poco…

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È sempre colpa della madre

Premessa:
due sabati fa, ho dimenticato di spegnare l’aria condizionata in camera di Irene. In genere l’accendiamo prima che lei dorma, in modo che l’ambiente sia fresco quando la mettiamo a letto. Stavolta c’eravamo scordati, per cui l’abbiamo accesa quando l’abbiamo messa a dormire.
Un’ora dopo, entriamo in camera sua e ci sono i pinguini che ci salutano. Lei è appallottolata in fondo al letto, in un evidente e disperato tentativo di scampare all’era glaciale. Ovviamente io ho i sensi di colpa a manetta.

Premessa 2: il week end di due settimane fa è stato intenso. Sabato prima da mio suocero, poi a casa con gli amici, domenica al mare. E insomma, Irene s’era stancata un pochino. Niente di che, ma si era data da fare un sacco.

Il Dramma: due lunedì fa, Irene si sveglia nervosa e accaldata. Le misuriamo la febbre. 38. Ovviamente è il dramma. È colpa mia, l’ho messa sotto ghiaccio, l’ho fatta stancare, sono una madre degenere. La situazione precipita quando il giorno dopo la febbre sale a 39. Tra l’altro, io, che sono una personcina affatto ansiosa e ipocondriaca, vaglio tutto lo spettro delle possibili malattie, concentrandomi ovviamente sulle più tremende. È che Irene non ha il raffreddore, e la gola, quando più o meno riusciamo a controllargliela, non sembra arrossata.
Comunque, tempo tre giorni e la febbre cala, e io, più o meno, mi tranquillizzo. Mi sento sempre uno schifo come madre, ma almeno Patata sta meglio. Peccato che venerdì mattina si svegli senza febbre, ma tutta simpaticamente coperta di bollicine rosse. Momenti di panico, visto che lei è vaccinata per tutte le più famose malattie esantematiche, e io inizio a valutare un po’ tutte le malattie da contagio, ebola compresa. Poi, il pediatra ci rassicura, e si scopre che Irene ha preso la sesta malattia, che tra tutte le malattie dell’età pediatrica è la più scema: febbre alta per qualche giorno, poi l’esantema quando la temperatura cala, poi le macchiette se ne vanno nel giro di un paio di giorni.
Io, per una mezza giornata, sono immersa in un vago senso di euforia.
Capperi, non è colpa mia! Voglio dire, una settimana a pensare a quel maledetto bottone del condizionatore che non avevo pigiato, degli sbattimenti del week end, e invece no! Era il virus, il santo, benedetto, virus!

Epilogo:
Incidentalmente, cercando informazioni online sulla sesta malattia, mi imbatto in questa frase:

È quasi sempre la mamma a trasmettere la malattia al bimbo: il virus può rimanere nell’organismo della donna in fase latente, cioè senza causare sintomi e viene trasmesso per via respiratoria.

È lì resto immobile.

Aveva ragione Freud, è sempre colpa della madre

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Traumi

A inizio mese m’è capitato un episodio spiacevole ma che evidentemente mi ha segnata un po’ più del previsto. Tra l’altro ho perso l’occasione per una di quelle figure epiche, che i presenti si sarebbero raccontati negli anni a venire, magari ridacchiando. Invece è stata solo una cosa così, senza troppe conseguenze.
Niente, a Palermo sono stata ripresa mentre facevo foto. Ero lì con la mia bella 60D che mi dilettavo a far foto a ISO duemiliardi, aperturona folle e esposizione da sbadiglio (c’era poca luce, come avrete intuito), quando qualcuno mi ha detto piuttosto rudemente che la dovevo smettere, perché lì foto non se ne potevano fare. Ho messo via rapidamente la reflex, mi sono seduta rossa come un peperone – ma anche un po’ incazzata, devo dire, perché per tutta una serie di ragioni mi sentivo nel giusto a far foto lì – e si è passati a commentare scherzosamente il fatto coi presenti. Insomma, morta là.
Solo che poi i giorni son passati. Sono andata a Torino. Facendo le valige ho guardato la borsa con la reflex. La porto? Ma anche no, tanto non avrò tempo. E ho lasciato la macchina fotografica a casa. Passa una settimana, e la reflex resta nella sua borsa. Ho il seminario da preparare, non ho tempo, mi dico. Passa anche il seminario e la reflex resta dov’è. In borsa. Non la porto con me a Massenzio, un giorno mi trovo lì a pensare che forse mi è semplicemente passata la voglia, che anche questa è finita nel dimenticatoio, insieme alla passione per il disegno e il bricolage, con la povera Bianchina e le altre miliardi di cose che ho iniziato a mai finito. È stato a quel punto che è scattata la ribellione. Mio marito ha speso un fracco di soldi per la mia 60D, ho iniziato persino stamparmi qualche foto – sebbene siano tutte non degne di stampa, ovvio, ma che c’entra – e mi ero divertita in quei due anni di scatti, un sacco.
Ho ricominciato una mattina al parco con Irene. Pochi e brutti scatti. Mi son chiesta se davvero fosse finita.
Poi, sabato pomeriggio siamo andati a mare. C’erano cavalloni alti così, e soprattutto quella luce calda e radente del tramonto che è – come dire… – perfetta, semplicemente. E soprattutto c’era Irene. Che era già stata al mare, certo. Ma era piccola, forse neppure se lo ricordava. E per questo tutto le sembrava completamente nuovo. La sabbia, il vento, l’acqua. Era letteralmente impazzita. Correva di qua e di là, lasciava che la risacca le bagnasse i piedini, rideva.
È stato abbastanza semplice e naturale prendere la 60D e sentirla di nuovo sotto le dita. 600 scatti. Brutti, sciatti, senza idee e quel che volete. Ma c’era Irene. Vento e Irene, sole e Irene, acqua e Irene.
Quando hai un hobby nel quale non riesci granché bene, continui a praticarlo solo per due ragioni: per te, o per qualcuno. Ecco. Non credo che la mia reflex avrebbe granché senso nelle mie mani non fosse per Irene. Qualsiasi altra cosa fotografo resta sempre un panorama senz’anima, un ritratto senza personalità, uno scorcio inutile. Ma con Irene cambia tutto. Nelle svariate decine di migliaia di foto che ho scattato da quando ho una reflex, ne salverò una decina al massimo. E, a parte una, le altre sono tutte foto di Irene. Scattate per lei, per me, per i nonni. Per ricordarci per sempre di quella giornata al mare, di quella volta che ci veniva da ridere per niente, della prima vacanza assieme o del primo broncio dopo una sgridata.
È per questo che la storia mia e della 60D non è finita. È una storia privata, di scatti che vedremo in pochi, ma in fin dei conti io di lavoro scrivo, non faccio foto.

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Carnevale

Il Carnevale mi è sempre piaciuto un sacco. È che ho una passione per i travestimenti, che spiega anche perché per svariati anni ho fatto cosplay. Il Carnevale mi permette di esprimere la mia creatività in vari modi: coi costumi, ma anche coi dolci. E poi, non so, ha qualcosa di arcaico che mi attira: questa festa dei folli che precede la Quaresima, di origine antichissima, segnata da tradizioni che contano almeno mille anni…
Da bambina i miei mi portavano al Carnevale di Frascati. Ne ho ricordi apocalittici. File chilometriche per salire con la macchina, ressa stratosferica, piazze tappezzate di coriandoli, carri allegorici, e poi tutti in maschera, bambini, adulti, giovani e anziani…Era una cosa meravigliosa.
Ora, sono anni che non mi maschero. L’ultima volta avevo diciotto anni. Andai ad una festa coi miei compagni di classe, mi vestii da mafioso. Riciclai il vestito da sposo di mio padre. Però, in compenso, a partire dai venticinque ho iniziato a fare gli strufoli tutti gli anni.
Quest’anno è stato diverso. Perché c’è Irene. Così, ieri, insieme ad un’amica, siamo andati a Frascati, Irene vestita da draghetto, la sua bimba da ninja, e io truccata da gatta.
Non è più come un tempo. Nessun adulto mascherato, niente carri allegorici né ressa. Però c’era un angolo di Piazza Guglielmo Marconi tappezzata di coriandoli, con tanti bimbi, per lo più piccoli, mascherati. E mentre facevo un sacco di foto, per un istante mi è sembrato di essere tornata indietro nel tempo, a quando andavo io a Frascati mascherata. Ho ritrovato lo spirito, ecco, se non i modi di quei Carnevali di venti anni fa. Uno degli ennesimi miracoli della maternità.

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Palestra

I.
Madri snaturate

Sono nello spogliatoio, e mi sto cambiando. Il mio turno coincide con quello delle bambine di danza, per cui incrocio sempre mamme con prole. Stavolta si tratta di due bambine, di cui una, bionda e ricciolina, che avrà un paio di anni.
Le sorrido, e – sorpresa – lei mi ricambia con un sorriso amplissimo.
Lei: “Come ti chiami?”
Io, piacevolmente stupita dalla sua intraprendenza: “Licia. E tu?”
Lei: “Francy”
Io: “Francesca? Che bel nome! Il mio papà si chiama così. E quanti anni hai?”
Lei: “Due”
Io: “Sai che io ho una bimba che ne ha uno? È più piccolina di te”
Lei: “È un maschio?”.
La mamma borbotta qualcosa su Francy che non si fa mai i fatti suoi, ma tutto sommato è divertita dalla scena.
Io: “È una femminuccia, si chiama Irene”
Lei: “E adesso dove sta?”
Io: “Con la nonna”.
lei: “E il papà?”
Io: “A lavoro”
A questo punto interviene la mamma.
“È che lei non è abituata all’idea dei bimbi che stanno coi nonni. Lei i nonni ce li ha lontani”.
È un commento semplice, tanto per fare quattro chiacchiere, non ha implicazioni di sorta. Ma nella mia testa si apre una finestra tipo Windows, ed è la fine.
Ecco. Il papà sta a lavoro, e vabbeh, è giustificato. Ma la mamma sta qua a fare palestra. È questo che starà pensando quest’altra mamma: che io lascio la figlia alla nonna per venire in palestra. Sono una madre snaturata… e via così di autoflagellazione in autoflagellazione.
Avoja a fare le donne emancipate e di mente aperta. Certi stereotipi te li ficcano in testa con tanta forza e per così tanto tempo che non adeguarsi è pressoché impossibile.

II.
Potenza del TG1
La bimba è uscita. Io prendo le ultime cose dalla borsa: asciugamano, acqua, chiave dell’armadietto. Davanti a me una ragazza più o meno mia coetanea.
Lei: “Scusa…presentazione…libro?”
C’è la musica, per cui colgo solo queste parole. Cerco di metterle insieme in qualcosa di compiuto e giungo alla conclusione che mi sta chiedendo se possa avermi visto a qualche presentazione. Sorrido un po’ timida.
Io: “Sì può essere”
Lei: “Sì, domenica scorsa”.
Resto perplessa. Non faccio presentazioni da due mesi, e domenica scorsa sono rimasta a giacere sul divano fino a compenetrarmici, per cui non vedo come possa avermi visto da qualche parte.
Io: “Ti ricordi dove?” continuo fingendo di aver capito.
Lei: “Eh, non mi ricordo…era una trasmissione sui libri…”
E finalmente ci arrivo. Domenica scorsa hanno mandato in onda la mia breve intervista per il TG1.
Io: “Ah, sì, è stato al tg1. L’hanno vista tutti tranne me” e via di breve conversazione sulla cosa, con complimenti e chiacchiere varie.
Non pensavo che quel minuto e mezzo sarebbe stato visto da tutta ‘sta gente. No, perché è tipo la decima persona che si complimenta. Mi hanno vista in osservatorio, mi hanno vista i parenti, mi avete vista voi…È un po’ come quando feci un’intervista per Tu. D’improvviso tutti l’avevano letta. Potenza del TG1…

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Auguri di buon anno a tutti


Per qualche giorno è possibile che non ci si senta. Mi prendo una piccola vacanza. Vi saluto con Irene che sgambetta qui in soggiorno: a quanto pare ha deciso che il primo dell’anno fosse il momento buono per decidere di imparare a camminare.
Auguri a tutti, forse ci si sente la prossima settimana, forse dopo :)

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Con gli occhi di Irene

Quando si vive in periferia, il centro è lontano quanto un miraggio. Immagino sia una cosa difficile da capire per uno che abita in una città di medie dimensioni. In una metropoli, soprattutto quando così estesa rispetto all’effettiva popolazione come Roma, un abisso divide le borgate dal centro. È come vivere in posti diversi. Da queste parti, quando andiamo al centro, diciamo “Andiamo a Roma”.
Ieri Irene è stata a Roma per la prima volta. In un anno di vita, aveva visto solo Villa Borghese un pomeriggio. Io avevo voglia di fare un po’ di foto, e di farle vedere la sua città. Così abbiamo preso armi e bagagli e siamo partiti.
A lei credo sia piaciuto. Si guardava in giro curiosa: tutte quelle luci, tutta quella gente, e poi la musica…
Io continuo a non riuscire a sentire questo posto mio. Ne posso ammirare la bellezza, ma davvero non riesco a credere che mi appartenga più di quanto non sia dei turisti che ci passano un solo giorno, o una settimana o due.
Però è stato bello fingere per Irene. Lei è romana di seconda generazione, di terza, se si considerano i miei suoceri, e voglio che sappia di cosa è figlia. Voglio che senta questa città più di me, e magari poi scelga da sola se amarla o meno, ma voglio che la conosca. Io forse non ho mai avuto molta scelta: i miei sono stati trapiantati qui a trent’anni dalla Campania, e giustamente non si sono mai sentiti romani. Chiusa nella mia borgata, così distante dal Cupolone, ho sempre preferito sentirmi campana. Il risultato è che adesso, nonostante il mio accento alla Ruggero di Un Sacco Bello, non so davvero cosa sono: vorrei sempre essere da un’altra parte, e se devo pensare a casa penso solo alle sere nevose di Monaco. Ma romana lo sono, qui sono nata, qui sono sempre vissuta, e devo farci i conti.
Ieri ho ammirato le luci, il cielo viola, il bianco assoluto di Trinità dei Monti contro il giallo dei palazzi di Piazza di Spagna, i mille colori di Piazza Navona, il verde delle sue fontane. Ho fatto tante foto, non ne ho trovata neppure una che mi piacesse, a sera, ma è stato bello. Portare Irene a far conoscenza col posto in cui è nata, e vederlo attraverso i suoi occhi. Ho insistito io per uscire, dopo un mese in cui non ho avuto quasi mai voglia di far niente.
Certe volte mi sembra che le cose stiano ricominciando, da capo, per la non…non lo so quale volta, un anno fa più o meno di questo periodo dicevo che si nasce e si muore un sacco di volte, e continuo a crederlo. Se penso ai Natali della mia infanzia mi sembrano distanti un’era geologica, e io ero un’altra persona. Un ciclo si chiude, uno si apre. Dopo un anno, forse finalmente ho partorito davvero, e ho preso seriamente consapevolezza di questo nuovo ruolo che mi sono ritagliata addosso: la mamma. So solo che andare a spasso con la mia famiglia, durante queste feste, è la cosa che più mi pacifica con me stessa.

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Auguri Irene

Comincia alle 23.00 o giù di lì. È la mia quarta notte in ospedale. Nel pomeriggio mi hanno detto che oggi indurranno il parto. Alla DPP (data prevista per il parto) mancano due giorni e non si può più aspettare per via del mio diabete. Contestualmente, quel pomeriggio mi hanno fatto lo stripping, una graziosa parola inglese dietro la quale – come a tante altre graziose parole inglesi – si nasconde una manovra piuttosto dolorosa. Da quando me l’hanno fatta ho avuto qualche dolorino, tipo crampo mestruale, ma niente di che. Le cose sono andate così lisce che ho cenato senza problemi, e mi sono anche messa a scrivere. Kate, la mia compagna di stanza così ribattezzata perché identica alla Kate di Lost, dorme. Io ho appena spento il computer e mi sono messa giù a dormire. I dolorini non sono andati via. Anzi, iniziano ad essere ritmici. Vengono, vanno via per un po’, poi ritornano. E io non riesco a dormire. Perché mi domando se non ci siamo. E lo vorrei così dannatamente tanto…
Aspetto. Dolorino. Niente. Dolorino. Niente.
Verso non so esattamente che ora, prendo l’iPhone, e uso l’applicazione per cronometrare le contrazioni che ho comprato in gravidanza. Ovviamente, non sono regolari. Non ricordo nemmeno a quali balordi intervalli mi vengano. Ma sento la pancia che si fa dura, e mi fa un pochino male.
Mi alzo per fare pipì, dopo essermi lavata le mani mi guardo allo specchio. Sorrido come una scema.
“Ma allora ci siamo?” sussurro.
Aspetto ancora. Saranno passate sulle tre ore. Finalmente mi decido.
Percorro piano il corridoio di linoleum blu fino alla guardiola. Entro.
«Scusate…» e spiego la situazione.
«Facciamo così» dice la dottoressa di guardia dopo averci pensato un po’. «Adesso ti facciamo un miorilassante: se davvero è l’inizio del travaglio, non ti fa niente, se invece sono contrazioni così, irregolari, te le fa passare e puoi dormire. Comunque, se ti continuano e si fanno più forti, veni da noi».
Me ne torno a letto. Ovviamente, i dolorini continuano, e mi sembrano ritmici. Alle 3.00 o giù di lì sono di nuovo in guardiola.
«I dolori non mi sono passati…continuano, mi sembra siano più forti».
Mi visitano.
«Alle cinque, dopo i prelievi, ti facciamo un monitoraggio. A quell’ora puoi anche chiamare tuo marito, se vuoi».
Deglutisco. Perché non ci posso credere.
«Allora è il travaglio?».
La dottoressa sorride.
«Sì, è il travaglio. Se tutto va bene verso le 12.00 ti possiamo anche portare in sala parto e puoi fare l’epidurale».
Io sono al settimo cielo. Conto i minuti. Aspetto le cinque col cellulare acceso sotto la coperta. Continuo a cronometrare le contrazioni, tengo botta. Fa male, ma mi sembra straordinariamente sopportabile. Mi dico che peggiorerà di sicuro, ma intanto sono solo contenta che sia iniziata.
È mattina, io non ho chiuso occhio, sono galvanizzatissima. Giuliano ancora non può entrare, ma non ha importanza. Tanto è iniziata, no?
Mi fanno il monitoraggio, e le contrazioni iniziano a diradarsi un po’. Mi preoccupo all’istante. Il dottore però mi prende in giro.
«E insomma questa bambina c’ha fatto la sorpresa, eh? Dovevamo indurre il parto e invece sta facendo tutto da sola».
Sorrido, ma le contrazioni sembrano meno forti.
Verso le 11.00 o giù di lì passa il primario. In quattro giorni l’ho visto tipo due volte, per il resto il Gemelli, policlinico universitario, è – egregiamente – in mano a studenti di vario ordine e grado e agli altri medici. Guarda la mia cartella clinica, guarda il tracciato del monitoraggio.
«Oggi avremmo dovuto fare l’induzione» dice il medico che mi aveva presa in giro prima.
«Direi di sospendere» sentenzia il primario, «magari si mette in travaglio da sola». E se ne va.
Doccia gelata. Si mette in travaglio da sola? E finora cos’è stato? E perché adesso le contrazioni se ne stanno andando?
È semplicemente che sono in fase prodromica, quella che può durare anche giorni, quella che la gente normale, senza diabete, si fa a casa, tranquilla. E lo so cos’è il pretravaglio, me l’hanno spiegato al corso preparto, ma per qualche ragione ora non me lo ricordo.
Penso solo che è stato un falso allarme, che il mio corpo mi ha tradita ancora. Dopo il diabete, questo. E io come una scema ho confuso quattro contrazioni irregolari col travaglio. E ho anche allertato tutta la famiglia, che sta qui a guardarmi. Non sono capace. Non so fare una cosa che le donne, tutte le donne, fanno da milioni di anni.
Sono cose che ogni partoriente pensa. Sono cose che succedono a tutte. Ma tu sei convinta di pensarle solo tu. Sei certa che a nessun altro al mondo sia mai capitata una cosa del genere. E piangi di rabbia e delusione.
Mangio anche se non ho fame. Mi metto a dormire. Al diavolo il mondo, al diavolo la mia pancia, al diavolo il mio stupido corpo.
Un’amica mi chiama sul cellulare, ma non le rispondo. Non ho voglia di parlare con nessuno.
In verità non dormo, o comunque non dormo bene. Probabilmente però mi lascio cadere in una specie di torpore, perché alle 15.00 in punto ho la sensazione di svegliarmi di soprassalto. Mi fa male la pancia, una contrazione forte e lunga. Devo girarmi su un fianco per star meglio.
Sono tornate. Ci sono di nuovo. Forse non sarà niente, forse non partorirò, ma almeno ho di nuovo le contrazioni.
Passo il pomeriggio passeggiando avanti a indietro per il corridoio dell’ospedale. Ogni qualche minuto mi devo appoggiare al muro, e respirare forte perché mi fa male la pancia. Niente di insopportabile, ma mi fa male, e la sensazione è che le mie ossa si stiano aprendo, si stiano modificando.
Ancora i parenti in visita, tutti, e io continuo a camminare, a respirare, a cercare di dar retta a tutti per quanto possibile.
Mi visitano verso le 19.00. Due centimetri di dilatazione. Ancora niente travaglio. Ma siamo sulla buona strada, quanto meno.
Arriva la cena. Mi avvio a mangiare, ma una contrazione più forte mi blocca alla testiera del letto. È diversa dal solito, più forte, e sento qualcosa che si muove. Plop, e una sensazione di caldo tra le gambe.
«Mi sa che ho rotto le acque» dico a mia madre.
Entrano un po’ tutti nel panico, corrono a chiamare i medici. Il reparto è pieno di visitatori, l’orario di visita finisce alle 20.00. La dottoressa viene, mi visitano.
«A me non sembrano rotte…che hai sentito?» mi chiedono.
Descrivo la sensazione.
«Potrebbe essere una rottura alta. Tossisci un po’».
Lo faccio.
«No, francamente…aspetta…sì, hai ragione, hai rotto le acque».
E da lì non c’è più ritorno, lo sento. Acque rotte, da qui a 24 ore vedrò Irene. Possono andare storte due miliardi di cose, ovviamente, possono fermarsi di nuovo le contrazioni, può non andare a buon fine il travaglio, e invece in qualche modo io sento che andrà tutto bene, che è finita.
Mi portano via col letto tra ali di degenti e visitatori; io sorrido beata, mentre mi tiro su per sopportare le contrazioni.
Appena si aprono le porte delle sale travaglio, che sono contemporaneamente anche le sale parto, tutto diventa straordinariamente tranquillo. C’è un bel silenzio, luci quasi soffuse, personale gentile.
Mi mettono nella sala gialla, della Dalia. Io avevo già visto le sale parto durante il corso preparto. Tutto mi sembra bello. I colori, il letto, la bilancia dove peseranno Irene.
Non mi sembra vero di esserci finalmente arrivata. In nove mesi miriadi di volte ho avuto paura che Irene non sarebbe nata: dal terrore dell’aborto nei primi tre mesi, alla paura per la suina, all’angoscia per il diabete. E adesso invece ci sono, e quasi mi commuovo.
Siamo quasi sempre soli, io e Giuliano. Le ostetriche – splendide e giovanissime – vengono ogni tanto a vedere come vanno le cose. Giuliano sembra il Dr. Shepard di Lost al ritorno dall’isola, nella quarta stagione. Io respiro forte, gli stritolo una mano, cerco di sopportare il dolore, che adesso è decisamente più forte. Ma lo sopporto abbastanza bene. Poi, a ciascuno che entra, dico che prima possibile voglio l’epidurale, e questo mi tranquillizza tantissimo.
La dilatazione procede, le contrazioni iniziano ad essere pressoché continue. Quando ne arriva una, mi alzo, l’ostetrica mi sorregge, mi massaggia la schiena. Respiro fortissimo, sembro una specie di mantice. Poi arriva il momento in cui il dolore si irradia alla gambe. Praticamente, le anche mi cedono. Non posso più stare in piedi. Mi assale il panico. Non so dire perché, ma sono d’improvviso terrorizzata, e il dolore si moltiplica per cento. Mugolo, l’ostetrica mi dice “non strillare, dai”, chiedo a gran voce l’epidurale, e quasi piango.
«Ancora non sei ben dilatata. Ti facciamo un miorilassante, fai quest’ultimo centimetro di dilatazione e ti facciamo l’epidurale».
La fortuna è che qui al Gemelli sono molto pro-epidurale, tutto il corso preparto è stato un continuo “il parto fa male, fatevi la visita per l’epidurale; poi magari non la chiedete al momento, se ve la sentite, ma se non ce la fate potete farvi comunque l’anestesia”.
L’ultima mezz’ora è dura, ho paura, e per questo ho più male. Mi sento nel panico, questa è la verità, più del dolore vero è la paura di soffrire che mi sta facendo cedere.
Arriva finalmente il via libera, entra l’anestesista ed esce Giuliano. Le due cose sono mutuamente esclusive. Potrà rientrare non appena il catetere sarà dentro.
Appena sento la parola anestesista, mi sento già meglio, segno chiaro che è la mia mente che mi sta giocando un brutto scherzo.
Tutto è straordinariamente indolore. L’anestesista mi dice tutto quello che fa.
«Adesso senti il freddo del disinfettante. Adesso le punture dell’anestetico. Adesso infilo il catetere, potresti sentire una scossa alle anche, mi dici se la senti?».
Pochi minuti ed è fatta. Giuliano rientra, io mi sdraio. Non sento più dolore. Mi coprono con una coperta, convinte che possa aver freddo, ma io sto benissimo. Tempo dieci minuti, però, e il dolore è sostituito da una nuova sensazione: quella impellente, assolutamente incontenibile, di spingere. È Irene che inizia ad incanalarsi nel canale del parto, e spinge per uscire.
Lo dico all’ostetrica, che mi visita.
«Non spingere assolutamente, non sei ancora a dilatazione completa, rischi la lacerazione del collo dell’utero».
È una parola. Non spingere è impossibile. Devo stringere i denti, concentrarmi, ed è quasi più faticoso che quando sentivo il dolore delle contrazioni. Speravo di potermi riposare prima del parto, ma non c’è verso. A intervalli ritmici devo stringere i denti, e cercare di non spingere.
Ho perso la cognizione del tempo, non so a che punto siamo, finisce il turno dell’equipe che mi ha seguita fin qui, e arriva un nuovo gruppo di ostetriche. La caporeparto è un donnone biondo dai modi spicci. Io sono esausta, ed ho davvero bisogno di un coach che sia un po’ rude con me.
«Adesso puoi spingere. Afferrati le gambe e tirale a te quando senti l’impulso a spingere» mi dice.
Lo faccio, cercando di ricordare quel che mi hanno detto al corso preparto: trattieni il fiato e spingi più a lungo che puoi, fino a quando non ce la fai, poi prendi fiato e ricomincia.
Sono esausta. Sento di non potercela fare, ma il corpo non mi dà tregua. Non mangio da pranzo, non dormo da qualcosa come 40 ore. Non posso farcela.
«Non ce la faccio…».
«Spingi che non ti vedo spingere» taglia corto la caporeparto.
Io guardo tutti con occhio supplice: lei, Giuliano, le altre ragazze in sala. Voglio un aiuto, perché non ce la faccio. È al di là delle mie capacità, è inutile. Più spingo più mi sembra che non succeda niente.
«Mi sa che Irene ha qualche giro di collana, perché fa avanti e indietro» mi dice la caporeparto.
Stranamente non mi preoccupo più di tanto. Continuo a spingere perché non posso fare altro.
«Dai che si vede la testa!».
«Ha i capelli?».
«Più della mamma. La vuoi toccare?».
Prima dico di no, poi acconsento. È qualcosa di completamente diverso da come me l’ero immaginato; è una cosa viscida, vagamente gelatinosa.
«Dai, tira le staffe e spingi».
Insisto. Vagamente sento l’ostetrica che dice “vedi? Qui i tessuti si lacerano di sicuro”, ma francamente adesso non mi interessa veramente niente dell’episiotomia.
Spingo con tutta la mia forza, terrorizzata dall’idea che resti con la testa di fuori e il resto dentro. E finalmente basta. Irene esce fuori, e non fa in tempo a farlo che già piange, con una voce da bimba grande che mi stupisce.
«Ce l’ho fatta, Giuliano, ce l’ho fatta…» mormoro, perché davvero non ci credo. «Sta bene?» chiedo.
«Sì sì».
Ci penso un attimo.
«È sana?» insisto.
«Sanissima».
I primi minuti il padre la sequestra, intanto che la ginecologa si prende cura di me. Le ostetriche la lavano, poi la vestono. Nel completino che ho scelto c’è anche un cappellino troppo grande per la sua minuta capoccetta da bimba di 2970 gr per 49 cm di lunghezza. Così le ostetriche la prendono in giro.
«Sembra il Grande Puffo!» mi dicono tirandola a sedere. Poi Giuliano la prende in braccio e non la molla più.
Io tremo come fossi tarantolata.
«È normale?» chiedo senza riuscire a non far battere i denti.
«Sì, è una cosa fisiologica».
«Giuliano, me la fai vedere? Me la fai vedere?».
Glielo devo chiedere un sacco di volte prima che me la mostri. Me l’hanno fatta vedere due nanosecondi prima di portarla al bagnetto: sono riuscita giusto a darle un buffetto sulla guanciotta viscida.
Adesso la vedo meglio. Me la danno, la tengo contro il mio corpo nel letto. Sento i suoi piedini che si agitano contro la mia pancia, esattamente come quando era ancora dentro di me, non più di mezz’ora fa, e mi fa una sensazione stranissima. Penso che è bellissima, e non mi capacito che io, che non sono bella per niente, sia riuscita a fare una bimba tanto bella.
Mi portano fuori col letto, breve incontro coi parenti. Non ricordo niente, tranne Irene contro il mio petto. Poi mi riportano dentro, per il periodo di osservazione, e Irene va al nido. Confesso che ne sono anche contenta. Sono assolutamente sfinita.
Penso che è stata una cosa allucinante, che non so se sarò mai in grado di rifarla di nuovo.
“Se vorrò un altro figlio farò il cesareo” penso.
Dopo un paio d’ore, mi portano di nuovo nella mia stanza. L’ospedale è un posto silenzioso e in penombra, e c’è qualcosa di epico nel silenzio dei corridoi, e in me che li percorro nel mio letto, ormai mamma. È il riposo del giusto.
Entro nella stanza buia. Kate mi chiede com’è andata. Le dico tutto bene, forse aggiungo qualcos’altro, ma poi cado in lungo sonno senza sogni. Il sonno di chi sa di avercela fatta.

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