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Chiedo lumi

Mi rendo conto che di recente questo blog si è concesso un po’ troppi spazi da comizio, con me che dicevo la mia urlando le mie ragioni e voi che stavate a sentire. Per cui, stavolta, vi chiamo a raccolta. Sì, vi chiedo proprio un parere.
Fin qui, ho sempre cercato di tenere Irene fuori da certi stereotipi: pochi vestitini frufru rosa, le Winx ad almeno 200 metri di distanza da casa mia, giochi possibilmente senza connotazione di genere. È che le pressioni sociali ad essere una “brava bimba” mi sembrano così forti che voglio cercare di riequilibrarle mostrando a Irene che può essere quello che vuole, indipendentemente dal sesso. Va pure detto che ad un anno e mezzo la cosa è abbastanza facile, i problemi verranno quando capirà che lei è una bambina e il mondo si divide tra maschi e femmine…Comunque. Tutto questo cappellotto per dire che a me i giocattoli “da femmine” e quelli “da maschi” hanno sempre dato fastidio. Voglio dire, se a me va di giocare ai Lego, perché mi devono regalare le Barbie? Tanto per dire, io non ho mai giocato a far la mamma coi bambolotti. Non mi interessava, semplicemente. Preferivo fingere di essere una giornalista, fare il guerriero medievale o dio solo sa che altro. Solo che Irene ci guarda, e dopo averci guardati, ci imita. E adesso ha questa fissazione del pulire. Prende la scopa e dice “puisci”, e comincia a ramazzare casa. Ha visto me e mia madre farlo, e vuole provarci anche lei. Così, tra i suoi giochi hanno iniziato a spuntare ferri da stiro, scopette, un finto aspirapolvere (quello che uso io la fa impazzire fin da quando era piccolissima). Solo che ogni volta che ce la vedo giocare, mi domando se è cosa buona e giusta. Le starò mica tirando su una piccola casalinga? Sarà mica che il ferro da stiro giocattolo è l’ariete col quale il sessimo farà il suo ingresso a casa mia?
Solo che lei si diverte. Suppongo le piaccia perché la fa sentire grande.
Il dramma si presenta per il compleanno. Da brava madre che scarica sulla figlia i propri desideri frustrati – sob… – vorrei regalarle una casetta di quelle di plastica. Era il mio sogno da bambina. Ho sempre voluto la casetta. La volevo così disperatamente che me ne inventavo una sotto la scrivania della mia camera, coprendola con un lenzuolino che era il mio più fedele compagno di giochi (mi ci sdraiavo sotto per riposarmi, ci disegnavo su la facciata di una casa, me lo drappeggiavo addosso per fingere che fosse un vestito…ce lo avessi ancora probabilmente me lo tirerei dietro anche adesso). E insomma, siccome in vacanza ci ha giocato, e le piaceva, gliela vorremmo regalare. Solo che Giuliano, l’altra sera, è venuto da me col catalogo di Imaginarium in mano.
«Non costasse così tanto, io per il compleanno le regalerei questa» mi ha detto.
Butto l’occhio. Ovvove e vaccapviccio. Una cucina. Una cucina giocattolo di legno coi pensili, il piano cottura, il frigo, il forno. Fulmino Giuliano con lo sguardo.
«Ma…ma…è sessista…».
«Sì, ma pensaci. Lei in cucina si diverte sempre ad aprire i cassetti, a frugare nel frigo, a ficcarsi nella lavastoviglie…sai come si divertirebbe con questa».
E lì ho capito che a Irene sarebbe piaciuta un sacco. Ma veramente.
Per cui, dopo tutte queste righe di delirio, la domanda: voi mamme, e voi figlie, come vi regolate coi giocattoli dotati di connotazione di genere? Da piccole vi hanno regalato la Barbie e adesso sognate di fare le veline? Alle vostre figlie solo meccano e pupazzi dei Gormiti?
Esprimetevi, gente, esprimetevi.

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Semplicemente mamma

Ho cominciato a capire cosa significa oggi per la società essere madre quando ho smesso di allattare. L’allattamento mi piaceva, e avrei voluto continuare fino al sesto mese di Irene, ma purtroppo lei non cresceva e io di latte ne avevo poco. Così sono passata al latte artificiale. Nonostante nessuno intorno a me, pediatra compreso, abbia mai fatto un commento sul mio smettere di allattare, mi sono sentita in colpa. Perché, mentre all’epoca di mia madre si preferiva di gran lunga il latte in polvere, oggi sembra che il latte artificiale sia il male. Iniziai a pensare che avrei esposto Irene alle malattie, che da grande sarebbe diventata obesa, e chissà quali altre tragedie. Perché essere madre (mai essere padre, e la cosa è significativa) al giorno d’oggi non ti viene presentato come una scelta di vita valida quanto un’altra, ma come una missione: la missione di allevare figli sani e perfetti, che un giorno salveranno il mondo.

È sempre colpa della madre. Se partorisci con l’epidurale, non ti attaccherai al bambino, perché il dolore serve a formare questo legame. Se non allatti a richiesta tuo figlio avrà problemi affettivi da grande. Se non lo mandi subito al nido ti starà attaccato alle gonne fino a diciotto anni. Anzi no, se la mandi la nido ti verrà su bisognoso di affetto.
Qualsiasi cosa la madre faccia, avrà ripercussioni drammatiche sul futuro del figlio: l’errore non viene più percepito come qualcosa di inevitabile, connesso al processo che forma l’immagine che una donna ha di sé come madre. No, è una tragedia. E per avvalorare la cosa, si sventolano studi di vario genere, ignorando che la maggior parte di essi si contraddicono l’un l’altro, o sono basati su campioni statisticamente insignificanti.
Ecco, alla fine è successo che ho smesso di stare a sentire le sirene dei libri, dei siti dedicati, delle riviste specializzate. Perché credo che un figlio possa avere qualche chance di venir su equilibrato solo se le persone che si occupano di lui stanno bene prima di tutto con se stesse. E una madre terrorizzata dall’idea di sbagliare non sta bene con se stessa.
Mi piacerebbe che questa storia della maternità venisse desacralizzata. Basta. Far la madre non è una missione, non è un lavoro che annulla qualsiasi cosa la donna sia stata prima del parto. Far la madre è prima di tutto uno dei mestieri più praticati al mondo. E siccome in giro non vedo torme di psicopatici, ma al più gente maleducata, direi che è un mestiere accessibile a tutti, e che gli errori, inevitabili, forse fanno più bene che male.
Dare la vita ad Irene è stata probabilmente la cosa migliore che abbia mai fatto in vita mia. Non pensavo sarebbe stato così bello. Ma Irene ha aggiunto molto alla mia vita, non ha annullato tutto quello che ero prima. Io sono ancora la moglie, la scrittrice, l’appassionata di fumetti, libri, telefilm e cinema, l’astrofisica, spesso anche la ragazzina. E ciascuna di queste figure è uscita modificata dall’incontro con Irene, ma continua ad esistere in me. E io non mi sento, non mi voglio sentire in missione per conto di dio. Io sto facendo quel che mia madre, che mia nonna, che migliaia di donne prime di me hanno fatto, con alterni successi, magari, ma quasi sempre riuscendo ad educare adulti pronti alla vita. E non sono sola. C’è mio marito, che pesa nella vita di mia figlia esattamente quanto peso io, che fa proprio quel che faccio io, la lava, le dà da mangiare, le cambia i pannolini, la ama. Non perché sono donna e l’ho portata in grembo nove mesi, penso di avere su di lei maggiori diritti di Giuliano, o credo che il nostro rapporto sia diverso o più profondo. Le differenze che c’erano tra me madre e lui padre sono finite quando ho dato l’ultima spinta, quel giorno freddissimo di quasi due anni fa.
Mi piacerebbe un mondo in cui la madre è sostenuta nelle sue scelte dalla società: un posto dove quella che partorisce appesa ad una corda cantando in sanscrito sia considerata madre esattamente quanto la donna che partorisce in ospedale con l’epidurale. Un mondo in cui si aiuti la donna a trovare la sua dimensione come madre, senza che le si imponga dall’esterno un modello preconfezionato cui sia tassativo adeguarsi. Sogno un mondo in cui una madre è esattamente identica ad una donna che non ha mai avuto figli. Ma mi rendo conto che la tolleranza non aiuta a vendere libri, e terrorizzare la gente è molto più utile al sistema che renderla libera.
Io, comunque, nel mio piccolo combatto la mia battaglia quotidiana, affidandomi ai consigli delle persone cui voglio bene e imparando insieme ad Irene questo nuovo mestiere.

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Il primo giorno

La giornata comincia male. Suona la sveglia alle 7.30, e io e Giuliano rinveniamo quei tre secondi bastevoli a dirci
“Mpf…fai la colazione tu…”
“no..tu…groan…”
per poi tornare tra le braccia di Morfeo. Quando rivengo, sono le 8.00. E alle 8.30 e io e Irene dobbiamo essere pronte per uscire.
Bevo latte freddo senza caffè, ingurgito due fette biscottate così, al volo, mentre Giuliano sveglia la pupa e la sfama.
Come Dio vuole, alle 8.25 siamo pronte. È un giorno importante, perché oggi Irene va all’asilo nido per la prima volta. Io l’ho un po’ pompata, partendo da mercoledì a dirle che andrà in un posto bellissimo con tanti bimbi.
Arriviamo, ed è una pipinara, come si dice da queste parti. Genitori, bimbi, alcuni urlanti. Irene tiene botta. S’è lamentata che la abbia tolto di mano il “cappeio”, il mio cappello nero, ma guarda tutto curiosa e non vuole più stare in braccio. Qualche foto, poi arriva una maestra che mi dice che posso entrare. Un bacetto al papà, e siamo dentro. Metto giù Irene e lei semplicemente si dimentica di me. Va dagli altri bambini, si fionda sui giocattoli, si fa coccolare a biscotti. Le maestre sono piacevolmente sorprese.
“Senta, ma…che ne dice di uscire? È tanto tranquilla…”.
Esco dal recinto dei bimbi e mi metto fuori dalla porta. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Vagolo per il giardino, navigo con l’iPhone, sto con le orecchie a punta a studiare le vocine che vengono da dentro, per distinguere la sua voce. Fuori, bambini che sorridono, bambini che piangono, bambini che invocano la mamma e il papà.
Passano i minuti e nessuno mi viene a chiamare. Ogni tanto sento la maestra che chiama Irene. La maestra a intervalli regolari esce e mi dice che sta andando alla grande.
Dopo un’oretta rientro. Lei è alle prese coi pentolini. Mi guarda dandomi approssimativamente per scontata: ah, qua sei? Resto qualche altro minuto, e mi beo a vederla che gioca. Poi la maestra mi dice che possiamo andare, e che domani staremo un po’ di più.
Irene tutta contenta fa ciao ciao a tutti i bimbi, e continua con le maestre, le altre mamme e qualsiasi altro essere vivente le si pari davanti. Io le stampo un bacione grandissimo sulla guancia. Esco con un sorriso a ventisei denti (me ne mancano cinque, lo sapete). Dio come sono orgogliosa…

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Patti

Interno mattina. C’è una bella luce ambrata che entra dalla finestra.
Irene si rotola nel lettino come tutte le mattine.
Io: “Allora, patatina, andiamo a fare colazione?”
Irene: “tadatamaiketotolalabe”
Io: “Sì, dai, andiamo a fare colazione, su”
Irene, a pancia in giù, facendo la vaga: “Bibotti?” (trad.: Biscotti?)
Io: “sì sì, biscotti e anche un po’ di yogurt”
Irene, tirandosi su di scatto e tendendo le mani per farsi prendere in braccio: “Okkey!”

La si corrompe ancora con poco…

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È sempre colpa della madre

Premessa:
due sabati fa, ho dimenticato di spegnare l’aria condizionata in camera di Irene. In genere l’accendiamo prima che lei dorma, in modo che l’ambiente sia fresco quando la mettiamo a letto. Stavolta c’eravamo scordati, per cui l’abbiamo accesa quando l’abbiamo messa a dormire.
Un’ora dopo, entriamo in camera sua e ci sono i pinguini che ci salutano. Lei è appallottolata in fondo al letto, in un evidente e disperato tentativo di scampare all’era glaciale. Ovviamente io ho i sensi di colpa a manetta.

Premessa 2: il week end di due settimane fa è stato intenso. Sabato prima da mio suocero, poi a casa con gli amici, domenica al mare. E insomma, Irene s’era stancata un pochino. Niente di che, ma si era data da fare un sacco.

Il Dramma: due lunedì fa, Irene si sveglia nervosa e accaldata. Le misuriamo la febbre. 38. Ovviamente è il dramma. È colpa mia, l’ho messa sotto ghiaccio, l’ho fatta stancare, sono una madre degenere. La situazione precipita quando il giorno dopo la febbre sale a 39. Tra l’altro, io, che sono una personcina affatto ansiosa e ipocondriaca, vaglio tutto lo spettro delle possibili malattie, concentrandomi ovviamente sulle più tremende. È che Irene non ha il raffreddore, e la gola, quando più o meno riusciamo a controllargliela, non sembra arrossata.
Comunque, tempo tre giorni e la febbre cala, e io, più o meno, mi tranquillizzo. Mi sento sempre uno schifo come madre, ma almeno Patata sta meglio. Peccato che venerdì mattina si svegli senza febbre, ma tutta simpaticamente coperta di bollicine rosse. Momenti di panico, visto che lei è vaccinata per tutte le più famose malattie esantematiche, e io inizio a valutare un po’ tutte le malattie da contagio, ebola compresa. Poi, il pediatra ci rassicura, e si scopre che Irene ha preso la sesta malattia, che tra tutte le malattie dell’età pediatrica è la più scema: febbre alta per qualche giorno, poi l’esantema quando la temperatura cala, poi le macchiette se ne vanno nel giro di un paio di giorni.
Io, per una mezza giornata, sono immersa in un vago senso di euforia.
Capperi, non è colpa mia! Voglio dire, una settimana a pensare a quel maledetto bottone del condizionatore che non avevo pigiato, degli sbattimenti del week end, e invece no! Era il virus, il santo, benedetto, virus!

Epilogo:
Incidentalmente, cercando informazioni online sulla sesta malattia, mi imbatto in questa frase:

È quasi sempre la mamma a trasmettere la malattia al bimbo: il virus può rimanere nell’organismo della donna in fase latente, cioè senza causare sintomi e viene trasmesso per via respiratoria.

È lì resto immobile.

Aveva ragione Freud, è sempre colpa della madre

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Traumi

A inizio mese m’è capitato un episodio spiacevole ma che evidentemente mi ha segnata un po’ più del previsto. Tra l’altro ho perso l’occasione per una di quelle figure epiche, che i presenti si sarebbero raccontati negli anni a venire, magari ridacchiando. Invece è stata solo una cosa così, senza troppe conseguenze.
Niente, a Palermo sono stata ripresa mentre facevo foto. Ero lì con la mia bella 60D che mi dilettavo a far foto a ISO duemiliardi, aperturona folle e esposizione da sbadiglio (c’era poca luce, come avrete intuito), quando qualcuno mi ha detto piuttosto rudemente che la dovevo smettere, perché lì foto non se ne potevano fare. Ho messo via rapidamente la reflex, mi sono seduta rossa come un peperone – ma anche un po’ incazzata, devo dire, perché per tutta una serie di ragioni mi sentivo nel giusto a far foto lì – e si è passati a commentare scherzosamente il fatto coi presenti. Insomma, morta là.
Solo che poi i giorni son passati. Sono andata a Torino. Facendo le valige ho guardato la borsa con la reflex. La porto? Ma anche no, tanto non avrò tempo. E ho lasciato la macchina fotografica a casa. Passa una settimana, e la reflex resta nella sua borsa. Ho il seminario da preparare, non ho tempo, mi dico. Passa anche il seminario e la reflex resta dov’è. In borsa. Non la porto con me a Massenzio, un giorno mi trovo lì a pensare che forse mi è semplicemente passata la voglia, che anche questa è finita nel dimenticatoio, insieme alla passione per il disegno e il bricolage, con la povera Bianchina e le altre miliardi di cose che ho iniziato a mai finito. È stato a quel punto che è scattata la ribellione. Mio marito ha speso un fracco di soldi per la mia 60D, ho iniziato persino stamparmi qualche foto – sebbene siano tutte non degne di stampa, ovvio, ma che c’entra – e mi ero divertita in quei due anni di scatti, un sacco.
Ho ricominciato una mattina al parco con Irene. Pochi e brutti scatti. Mi son chiesta se davvero fosse finita.
Poi, sabato pomeriggio siamo andati a mare. C’erano cavalloni alti così, e soprattutto quella luce calda e radente del tramonto che è – come dire… – perfetta, semplicemente. E soprattutto c’era Irene. Che era già stata al mare, certo. Ma era piccola, forse neppure se lo ricordava. E per questo tutto le sembrava completamente nuovo. La sabbia, il vento, l’acqua. Era letteralmente impazzita. Correva di qua e di là, lasciava che la risacca le bagnasse i piedini, rideva.
È stato abbastanza semplice e naturale prendere la 60D e sentirla di nuovo sotto le dita. 600 scatti. Brutti, sciatti, senza idee e quel che volete. Ma c’era Irene. Vento e Irene, sole e Irene, acqua e Irene.
Quando hai un hobby nel quale non riesci granché bene, continui a praticarlo solo per due ragioni: per te, o per qualcuno. Ecco. Non credo che la mia reflex avrebbe granché senso nelle mie mani non fosse per Irene. Qualsiasi altra cosa fotografo resta sempre un panorama senz’anima, un ritratto senza personalità, uno scorcio inutile. Ma con Irene cambia tutto. Nelle svariate decine di migliaia di foto che ho scattato da quando ho una reflex, ne salverò una decina al massimo. E, a parte una, le altre sono tutte foto di Irene. Scattate per lei, per me, per i nonni. Per ricordarci per sempre di quella giornata al mare, di quella volta che ci veniva da ridere per niente, della prima vacanza assieme o del primo broncio dopo una sgridata.
È per questo che la storia mia e della 60D non è finita. È una storia privata, di scatti che vedremo in pochi, ma in fin dei conti io di lavoro scrivo, non faccio foto.

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Carnevale

Il Carnevale mi è sempre piaciuto un sacco. È che ho una passione per i travestimenti, che spiega anche perché per svariati anni ho fatto cosplay. Il Carnevale mi permette di esprimere la mia creatività in vari modi: coi costumi, ma anche coi dolci. E poi, non so, ha qualcosa di arcaico che mi attira: questa festa dei folli che precede la Quaresima, di origine antichissima, segnata da tradizioni che contano almeno mille anni…
Da bambina i miei mi portavano al Carnevale di Frascati. Ne ho ricordi apocalittici. File chilometriche per salire con la macchina, ressa stratosferica, piazze tappezzate di coriandoli, carri allegorici, e poi tutti in maschera, bambini, adulti, giovani e anziani…Era una cosa meravigliosa.
Ora, sono anni che non mi maschero. L’ultima volta avevo diciotto anni. Andai ad una festa coi miei compagni di classe, mi vestii da mafioso. Riciclai il vestito da sposo di mio padre. Però, in compenso, a partire dai venticinque ho iniziato a fare gli strufoli tutti gli anni.
Quest’anno è stato diverso. Perché c’è Irene. Così, ieri, insieme ad un’amica, siamo andati a Frascati, Irene vestita da draghetto, la sua bimba da ninja, e io truccata da gatta.
Non è più come un tempo. Nessun adulto mascherato, niente carri allegorici né ressa. Però c’era un angolo di Piazza Guglielmo Marconi tappezzata di coriandoli, con tanti bimbi, per lo più piccoli, mascherati. E mentre facevo un sacco di foto, per un istante mi è sembrato di essere tornata indietro nel tempo, a quando andavo io a Frascati mascherata. Ho ritrovato lo spirito, ecco, se non i modi di quei Carnevali di venti anni fa. Uno degli ennesimi miracoli della maternità.

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Palestra

I.
Madri snaturate

Sono nello spogliatoio, e mi sto cambiando. Il mio turno coincide con quello delle bambine di danza, per cui incrocio sempre mamme con prole. Stavolta si tratta di due bambine, di cui una, bionda e ricciolina, che avrà un paio di anni.
Le sorrido, e – sorpresa – lei mi ricambia con un sorriso amplissimo.
Lei: “Come ti chiami?”
Io, piacevolmente stupita dalla sua intraprendenza: “Licia. E tu?”
Lei: “Francy”
Io: “Francesca? Che bel nome! Il mio papà si chiama così. E quanti anni hai?”
Lei: “Due”
Io: “Sai che io ho una bimba che ne ha uno? È più piccolina di te”
Lei: “È un maschio?”.
La mamma borbotta qualcosa su Francy che non si fa mai i fatti suoi, ma tutto sommato è divertita dalla scena.
Io: “È una femminuccia, si chiama Irene”
Lei: “E adesso dove sta?”
Io: “Con la nonna”.
lei: “E il papà?”
Io: “A lavoro”
A questo punto interviene la mamma.
“È che lei non è abituata all’idea dei bimbi che stanno coi nonni. Lei i nonni ce li ha lontani”.
È un commento semplice, tanto per fare quattro chiacchiere, non ha implicazioni di sorta. Ma nella mia testa si apre una finestra tipo Windows, ed è la fine.
Ecco. Il papà sta a lavoro, e vabbeh, è giustificato. Ma la mamma sta qua a fare palestra. È questo che starà pensando quest’altra mamma: che io lascio la figlia alla nonna per venire in palestra. Sono una madre snaturata… e via così di autoflagellazione in autoflagellazione.
Avoja a fare le donne emancipate e di mente aperta. Certi stereotipi te li ficcano in testa con tanta forza e per così tanto tempo che non adeguarsi è pressoché impossibile.

II.
Potenza del TG1
La bimba è uscita. Io prendo le ultime cose dalla borsa: asciugamano, acqua, chiave dell’armadietto. Davanti a me una ragazza più o meno mia coetanea.
Lei: “Scusa…presentazione…libro?”
C’è la musica, per cui colgo solo queste parole. Cerco di metterle insieme in qualcosa di compiuto e giungo alla conclusione che mi sta chiedendo se possa avermi visto a qualche presentazione. Sorrido un po’ timida.
Io: “Sì può essere”
Lei: “Sì, domenica scorsa”.
Resto perplessa. Non faccio presentazioni da due mesi, e domenica scorsa sono rimasta a giacere sul divano fino a compenetrarmici, per cui non vedo come possa avermi visto da qualche parte.
Io: “Ti ricordi dove?” continuo fingendo di aver capito.
Lei: “Eh, non mi ricordo…era una trasmissione sui libri…”
E finalmente ci arrivo. Domenica scorsa hanno mandato in onda la mia breve intervista per il TG1.
Io: “Ah, sì, è stato al tg1. L’hanno vista tutti tranne me” e via di breve conversazione sulla cosa, con complimenti e chiacchiere varie.
Non pensavo che quel minuto e mezzo sarebbe stato visto da tutta ‘sta gente. No, perché è tipo la decima persona che si complimenta. Mi hanno vista in osservatorio, mi hanno vista i parenti, mi avete vista voi…È un po’ come quando feci un’intervista per Tu. D’improvviso tutti l’avevano letta. Potenza del TG1…

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Con gli occhi di Irene

Quando si vive in periferia, il centro è lontano quanto un miraggio. Immagino sia una cosa difficile da capire per uno che abita in una città di medie dimensioni. In una metropoli, soprattutto quando così estesa rispetto all’effettiva popolazione come Roma, un abisso divide le borgate dal centro. È come vivere in posti diversi. Da queste parti, quando andiamo al centro, diciamo “Andiamo a Roma”.
Ieri Irene è stata a Roma per la prima volta. In un anno di vita, aveva visto solo Villa Borghese un pomeriggio. Io avevo voglia di fare un po’ di foto, e di farle vedere la sua città. Così abbiamo preso armi e bagagli e siamo partiti.
A lei credo sia piaciuto. Si guardava in giro curiosa: tutte quelle luci, tutta quella gente, e poi la musica…
Io continuo a non riuscire a sentire questo posto mio. Ne posso ammirare la bellezza, ma davvero non riesco a credere che mi appartenga più di quanto non sia dei turisti che ci passano un solo giorno, o una settimana o due.
Però è stato bello fingere per Irene. Lei è romana di seconda generazione, di terza, se si considerano i miei suoceri, e voglio che sappia di cosa è figlia. Voglio che senta questa città più di me, e magari poi scelga da sola se amarla o meno, ma voglio che la conosca. Io forse non ho mai avuto molta scelta: i miei sono stati trapiantati qui a trent’anni dalla Campania, e giustamente non si sono mai sentiti romani. Chiusa nella mia borgata, così distante dal Cupolone, ho sempre preferito sentirmi campana. Il risultato è che adesso, nonostante il mio accento alla Ruggero di Un Sacco Bello, non so davvero cosa sono: vorrei sempre essere da un’altra parte, e se devo pensare a casa penso solo alle sere nevose di Monaco. Ma romana lo sono, qui sono nata, qui sono sempre vissuta, e devo farci i conti.
Ieri ho ammirato le luci, il cielo viola, il bianco assoluto di Trinità dei Monti contro il giallo dei palazzi di Piazza di Spagna, i mille colori di Piazza Navona, il verde delle sue fontane. Ho fatto tante foto, non ne ho trovata neppure una che mi piacesse, a sera, ma è stato bello. Portare Irene a far conoscenza col posto in cui è nata, e vederlo attraverso i suoi occhi. Ho insistito io per uscire, dopo un mese in cui non ho avuto quasi mai voglia di far niente.
Certe volte mi sembra che le cose stiano ricominciando, da capo, per la non…non lo so quale volta, un anno fa più o meno di questo periodo dicevo che si nasce e si muore un sacco di volte, e continuo a crederlo. Se penso ai Natali della mia infanzia mi sembrano distanti un’era geologica, e io ero un’altra persona. Un ciclo si chiude, uno si apre. Dopo un anno, forse finalmente ho partorito davvero, e ho preso seriamente consapevolezza di questo nuovo ruolo che mi sono ritagliata addosso: la mamma. So solo che andare a spasso con la mia famiglia, durante queste feste, è la cosa che più mi pacifica con me stessa.

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Neve reprise

Era lo scorso inverno. Irene non aveva neppure due mesi. Già era nata nei giorni più freddi dell’anno, con temperature polari, ma a quanto sembrava non era ancora finita. Era il 12 Febbraio, e dopo sei anni di nuovo vedevo la neve a casa mia. Provammo a fare qualche foto con Irene in braccio, ma ancora non eravamo granché esperti della nostra reflex, e comunque senza poter uscire fuori era pressoché impossibile ottenere foto decenti. Ci scrissi su anche un post, esaltata dall’idea che non solo quell’anno fossi diventata mamma, ma fossi riuscita anche a vedere la neve.
Il 17 Dicembre, come sapete, è stato il compleanno di Irene. Di nuovo ha fatto freddo, tantissimo, proprio come uno di quei giorni campali di un anno fa. E alle 14.00, così, senza preavviso, ha iniziato a nevicare. Di nuovo. Una neve piccola e gelata, una neve vera, che in quell’oretta di piccola bufera ha fatto accumulare sul mio balcone un sottile straterello bianco compatto e farinoso. Alle 15.30 ha smesso, poi ha iniziato a piovere, ed è finita così. Ma è stato bello. Mai nella mia vita avevo visto la neve intorno a Natale a Roma. L’unico Natale innevato l’ho fatto a Monaco, la bellezza di cinque anni fa, ormai.
Mi piace credere che è un regalo della mia Principessina delle Nevi, che ha cambiato anche il clima di questa città per rendermela più gradita. Penso sempre che sia io a dover rendere il mondo migliore per Irene, ad aiutarla a diventare una persona felice e forte; e invece è lei che sta facendo di tutto per aiutarmi a superare le mie debolezze, i miei momenti di stop, per farmi vedere il mondo migliore di quanto sia. Forse è questo essere genitori.


P.S.
A destra la neve del 17/12, a sinistra quella del 12/02

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