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Canzoni, concerti e rivoluzione

Sabato sera sono andata al Rock in Roma a sentire Caparezza. È stato tipo il mio primo concerto pagato non dei Muse, o giù di lì. Non è che abbia al mio attivo molti eventi, ma ho visto un paio di concertoni del 1° maggio, e una volta, sempre al Rock in Roma, ascoltai Daniele Silvestri. Comunque, per me era un po’ un evento: Caparezza mi piace assai, ho quasi tutta la discografia (mi manca il primo disco), la so a menadito, anche se non so cantarla – è impossibile, non riesco a stargli dietro – ed era da un po’ che volevo vederlo live. Da Verità Supposte, per la precisione, quando diede un concerto in Sicilia proprio mentre noi eravamo nei paraggi.
Comunque. Innanzitutto, una piccola vittoria personale. Io soffro la folla. Riesco a stare in mezzo alla gente, ma mi prende il panico quando si sta tutti pigiati. Siccome sono bassa, ho sempre paura che qualcuno mi ciacchi, ho l’incubo Love Parade sempre stampato in testa. È la ragione per cui praticamente non ho mai fatto concerti sotto il palco. Ora, sabato stavamo a distanza di sicurezza, ma si stava comunque strettini. E, nulla, durante l’interminabile session del pur apprezzabile gruppo spalla – i Calibro 35, per la cronaca – ho iniziato ad accusare un po’ d’ansia. Nulla di chè, giusto quel po’ di insana voglia di scappare dove c’era un po’ più spazio. Già mi vedevo a rovinarmi il concerto per le mie paturnie, quando Caparezza è apparso. Tempo due millesimi di secondo dalla prima nota, e già saltellavo come un’indemoniata, urlando a squarciagola “Ilaria condizionata ha raffreddato la mia giornata!”. La paura era sparita. Un piccolo passo per l’umanità, un passo importante per me: è sempre bello quando riesco a rivalermi su qualche mia paura.
Anyway, il concerto. Purtroppo sfioro, senza raggiungerlo, il metro e sessanta, e quindi non ho visto niente. Sono salita per un po’ sulle spalle di un mio amico, ma davvero non me la sentivo di imporgli i miei 53 chili per due ore, senza contare la gente dietro che si sarebbe lamentata, per cui mi sono limitata a zompettare e cantare per tutto il tempo, inquadrando raramente un angolo del capello di Caparezza, un braccio e via così. Ma non è stato poi così importante. Perché il concerto è stato bello, piacevole, divertente, e lui si è dato molto. E poi quel che conta è il rito collettivo. Stare lì con altre diecimila persone che cantano, saltano, urlano con te. Hai l’illusione di far parte di una comunità compatta, unita. Hai l’illusione di essere lì per cambiare il mondo a forza di strofe urlate.
È una riflessione che mi viene da fare spesso, ogni volta che partecipo a qualche spettacolo del genere. Il senso di comunione è fortissimo, l’idea di trovarti in mezzo – finalmente – a gente incazzata come te, a gente che la pensa proprio come te sul mondo, sull’Italia, su come vanno le cose, è fortissimo. E l’impressione d’improvviso è che se urli abbastanza forte “Non siete Stato / voi che rimboccate le bandiere sulle / bare per addormentare ogni senso di / colpa” allora davvero qualcosa possa cambiare. È l’ebbrezza della folla, quel piacere sottile e tremendo dello sciogliersi nella massa. Non sei più solo tu, col tuo senso d’impotenza e la sensazione di non poter mai fare la differenza, ma sei noi, migliaia di teste che pensano un unico pensiero, migliaia di mani che se solo volessero potrebbero fare la rivoluzione.
E quando ci ho riflettuto, di ritorno, in macchina, ancora sudata e galvanizzata da tutto quel saltare, ho pensato che un concerto è qualcosa di bello e tremendo, proprio per quell’illusione che ti dà. Due ore a giocare a fare la rivoluzione, a sfogare la frustrazione di giorni passati ad ingoiare amaro. Ma poi? Poi tutti a casa con qualche foto ricordo, la maglietta sudata, e domani tutto come prima. L’uomo sul palco, lui, sì, le cose le cambia. Strofa dopo strofa spara il suo messaggio alla gente, e piano ne cambia la testa. Ma la folla ai suoi piedi, quella non cambia niente. Sfoga la propria rabbia per due ore, poi tutti a casa a fare di nuovo i conti col lavoro precario, i soldi che non ci sono, lo stato assente. Pronti per accumulare di nuovo l’incazzatura, fino al prossimo concerto.
Con questo non voglio dire che c’è qualcosa di male ad andare ad un concerto e saltare per due ore. Ma io mi domando sempre se quella gente che va a sentire Caparezza, che canta le sue canzoni, che strilla “Berlusconi pezzo di merda” sotto al palco, poi va a votare, per dirne una. Se il 13 febbraio era in piazza insieme a me. Se la sua è la rabbia dei quindici anni, quella fisiologica, che va via appena ti fai una famiglia e trovi un lavoro, o resta dentro a covare, e ti spinge a cercare davvero di cambiare le cose.
Mah. Probabilmente per me vale il ritornello di Cose Che non Capisco: “ti fai troppi problemi [...], non te ne fare più”, e sto montando un discorso senza senso intorno a due ore di puro svago, che mi sono goduta dall’inizio alla fine. Una canzone è solo una canzone, un concerto è solo un concerto. Ma le parole sono armi, e cambiano le cose. Ogni restaurazione parte sempre stravolgendo il linguaggio, e ogni rivoluzione ha sempre un proprio frasario, e se non ne fossi convinta, non farei il lavoro che faccio.

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Divertirsi

Ho avuto un vago, vaghissimo interesse per quella che ho ribattezzato “musica unz unz” quando avevo tredici anni. All’epoca giravo in improponibili shorts arancioni e toppini scollati, che la gente giustamente mi fischiava dietro, più che altro per come avevo il coraggio di combinarmi, e mi ero da poco affacciata alla pubertà. In quel periodo lì non desideri tanto essere grande – se mai io ho desiderato essere grande, e credo proprio di non averlo mai fatto -, piuttosto vuoi finalmente arrivare a questa benedetta adolescenza che tutti ti descrivono come un periodo fighissimo, in cui dai contro i genitori, scopri il sesso e puoi darti pose da giovane maledetto. È che a tredici anni per tutti sei ancora un bambino, e tu invece ti senti già ragazzo/a, e per questo ti dai pose da adolescente in crisi. Del quadro mentale che mi ero fatta dei sedici anni faceva parte anche la frequentazione delle discoteche.
A Roma, dove le mie amiche erano due ragazze con le quali componevamo il classico trio di sfigate evitate da tutti perché non abbastanza fighe e troppo dotate di cervello, la discoteca non sapevamo neppure dove fosse. Per inciso, non eravamo neppure brutte, io e le mie amiche; una di noi anzi era proprio bella. Solo che non ci atteggiavamo, avevamo una discreta lingua e io e la mia migliore amica avevamo l’apparecchio per i denti. Fate un po’ voi. Ma sto divagando.
E insomma, a Roma in discoteca non si andava. Ma d’estate, al mare, sì. L’estate dei miei tredici anni la passai tutte le sere nella discoteca dell’hotel. A ballare la “musica unz unz”, ossia, appunto, quella da discoteca. Che ai miei tempi era Gala: Free from Desire mi piaceva un sacco.
Poi sono cresciuta. Il tipo che mi piaceva sentiva i Nirvana, ho scoperto il rock e, niente, la musica unz unz ha iniziato a farmi schifo. Solo tre anni dopo, a Rimini in gita, in discoteca stavo per addormentarmi sul divano. Del resto all’epoca facevo il filo ad un violinista che ascoltava solo classica.
Quindi, niente, per qualcosa come diciassette anni della mia vita ho letteralmente schifato il pop. A parte i cantautori italiani, ho ascoltato solo rock e classica. E Caparezza, che non so dove infilarlo, visto che è proprio a-generico. Finché un pomeriggio dello scorso anno, non ricordo per quale ragione, mi comprai su iTunes The Fame Monster. Mi piacque subito. Da allora me lo sono sentito un sacco di volte. Questo per dirvi che io il genere che fa Lady Gaga non lo ascolto. Ascolto solo lei. E questo forse significa qualcosa.
Due settimane fa mi sono comprata anche Born This Way, nonostante i primi singoli non mi convincessero. L’ho già sentito una decina di volte, e me lo ascolterei altrettante. Mi mette addosso allegria. Mi fa scuotere la testa, mi fa canticchiare, mi aiuta durante il lavoro di tesi. Ne parlavo ieri con un amico. Born This Way è allegro, divertente. Si fa maledettamente ascoltare. Non è arte? Non lo so. Saper intrattenere è una dote non da poco, ancor più miracoloso è riuscire ad intrattenere una che su musica del genere normalmente si addormenta. Ognuno fa il suo lavoro: chi con la musica fa riflettere, e chi invece ti mette addosso carica ed energia. E ci vuole un po’ dell’uno e un po’ dell’altro.
Poi, vabbeh, ormai sono ossessionata da Bloody Mary. La prima volta che l’ho sentita, giuro, ho avuto i brividi. I brividi per una stupida canzone pop, che non so neppure esattamente di cosa parli. Ma mi piace, dannazione, mi piace. E devo dire che anche Government Hooker la trovo notevole.
E insomma, niente, non credo di star cambiando gusti musicali. È solo che forse, dopo aver imparato a divertirmi con la lettura e la scrittura, coi film e a teatro, sto imparando a divertirmi anche con la musica.

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Musica, maestro!

La giornata è iniziata un po’ storta, ma pare si stia lentamente riprendendo. In ogni caso, per darmi (e darci) la carica, vi lascio la mia personale ossessione musicale degli ultimi tempi: i Pound.
Ne avevo già parlato, per chi di voi mi segue da molto. Nel 2009 hanno fatto uscire il loro primo album, che mi ero colpevolmente persa. L’ho recuperato qualche giorno fa e ormai gira in loop sul mio Mac. A me piacciono davvero tanto, soprattutto What I Fear the Most. In fin dei conti mi riguarda.
Enjoy

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Confesso

Tutti abbiamo passioni che in qualche modo risultino un po’ stridenti con l’immagine che di noi ha la gente. Roba di cui, tutto sommato, magari ci vergogniamo anche un po’.
Per dire, sono stata una grande appassionata di Dawson’s Creek, e non a quindici anni, ma a diciannove suonati. Due estati fa l’ho rivisto tutto, dalla prima alla sesta stagione, senza risparmiarmi neppure le puntate più oscene, e purtroppo dopo la terza stagione ce ne sono, ah se ce ne sono.
Oggi faccio un’altra confessione. Chi mi segue su twitter in verità già lo sa. A me piace Lady Gaga. Sì, proprio lei. Quella che fa la musica unz unz unz che in genere rifuggo tipo la peste. Per dire, un paio di annetti fa, dopo aver fatto alcune lezioni di total body al ritmo della sua musica, mi presi Hard Candy di Madonna. Neppure lo finii di sentire. La noia dilagava.
E invece Lady Gaga, che indubbiamente alla signora Ciccone si ispira, mi piace molto. Trovo la sua musica divertente e trascinante: è perfetta per svagarsi durante una riduzione dati o l’elaborazione di una routine SM (che non è SadoMaso, ma SuperMongo, il programma di analisi dati che uso a lavoro) particolarmente ardua. Ti induce a battere il piedino, ti mette la carica.
E poi mi piace proprio lei. Sì, lei come tipo. E considerate che io per natura diffido della gente che provoca per provocare. E invece Lady Gaga mi fa simpatia. Innanzitutto non è bella. È una ragazza normale. Anche quando balla e canta in slip e reggiseno – praticamente sempre, per altro – non fa l’impressione di una qualsiasi altra starlette musicale. Non è una strafiga stratosferica: ha il sedere basso, è un po’ troppo magra, è bassa come me e come me ha il nasone. Ma non sembra gliene freghi molto, è questo il bello. Si mette addosso quel che vuole, mostra il suo corpo di normale ventiquattrenne senza avere la pretesa che la gente le fischi dietro, ma con una naturalezza che scaccia via la volgarità di certi atteggiamenti.
E poi, appunto, provoca. Ma lo fa con un certo candore di fondo. Con quell’aria lì che sembra dire: Ehi, io sono così, se ti sta bene ok, altrimenti cambia disco. È che a me lei sembra proprio una strana. Che gode ad esserlo, e che si maschera perché tutto in lei fa parte della sua musica. Fateci caso, non la si vede mai nature. La sua essenza di persona è nascosta sotto chilate di travestimenti in lattice, sotto vagonate di trucco. Perché la sua arte è questa: musica, certo, ma anche tutto il resto. Il che spiega i suoi video lunghi il doppio della canzone: perché non conta solo la musica, ma contano anche le immagini che raccontano una storia, mandano messaggi.
Lo so. Io ero quella per la musica e basta. Quella che citava Matt quando diceva “The only way I want to touch people is through my music. Anything else is superficial and I want no part of it”. E invece Lady Gaga è il prototipo della musica fagocitata dallo showbiz. Eppure, non lo so, mi piace quel che fa e come lo fa. Nei suoi cappelli assurdi, nelle sue mise allucinanti, trovo qualcosa che risuona coi miei di cappelli, col mio modo strambo di mettere assieme la roba del mio armadio.
E poi mi piace quel che dice. Mi sembra una persona intelligente, o che quanto meno cerca di spendersi per cose intelligenti. Come il Don’t Ask, Don’T Tell, contro il quale si è espressa pubblicamente.
L’ultimo suo singolo non mi dice molto. È anche vero che l’ho ascoltato una volta sola, ma mi sembra meno potente dei suoi vecchi pezzi. Però c’è una frase bellissima, che certa gente si dovrebbe tatuare a fuoco sulla pelle.
I’m beautiful in my way,
‘Cause God makes no mistakes
I’m on the right track, baby
I was born this way

E insomma, niente, probabilmente a maggio mi prenderò il suo disco, e spero di godermelo come mi sono goduta The Fame Monster. Senza neppure troppi sensi di colpa, lo ammetto :P

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Amadeus

Ieri sera ho visto Amadeus. Lo vidi la prima volta da bambina, ma dovevo essere piccola, perché ricordo solo due cose: Salieri insanguinato all’inizio del film e Mozart che rideva di continuo con uno scemo. Ma il film in qualche modo doveva aver colpito il mio immaginario di bimba, perché avrei sempre voluto rivederlo. Approfittando del giornatone cinema di Sky per l’inaugurazione dei nuovi canali HD, l’ho fatto.
Ora. Ci sarebbe da parlare per giorni di questo film. Che è un capolavoro. Poco importa che la ricostruzione della vicenda Salieri Mozart non sia fedele alla realtà dei fatti. Amadeus è un apologo. Una lunga, ironica, grandiosa, sofferta riflessione sulla vita. Sì, sull’invidia, sul talento, su Dio. Ma soprattutto sulla vita. Sull’ingiustizia della vita.
Già il titolo dice tutto. Amadeus. Amato da Dio. Che poi sarebbe la traduzione letterale del secondo nome di Mozart, Theophilus. In latino, appunto Amadeus. E fin dall’inizio Salieri lo vede così. Un figlio eletto di Dio, addirittura una sua incarnazione. Un fanciullo “vanaglorioso, libidinoso, sconcio, infantile”, un uomo senza qualità, che però Dio ha investito di un talento sovrumano. Ed è qui il busillis, un busillis molto umano, che tutti ci sentiamo di comprendere: perché Mozart sì e Salieri no? Perché Salieri, che ha desiderato la musica per una vita intera, prendendola come sposa in una vita di castità, che si dedica alle note con un rigore da asceta, non riesce a scrivere quella stessa musica che Mozart non fatica neppure un po’ a produrre, che gli viene fuori dalla testa già perfetta, già conclusa, già sublime? A pensarci bene, questo è il problema dell’esistenza.
Ciascuno di noi ha dei sogni, delle aspirazioni. In qualche caso sono velleità artistiche. Ma la stragrande maggioranza di noi non ce la fa. Deve scendere a patti con le proprie capacità, coi propri limiti. E succede che per quanto si ami profondamente fare qualcosa, quella sia, guarda un po’, l’unica cosa che non siamo in grado di fare. Che è una cosa che porta dolore, certo, ma si potrebbe anche sopportare. Se non fosse poi che viene fuori qualcuno che invece quella cosa la fa benissimo, senza alcun merito, senza anni di studio, di impegno, senza sacrificio. Me ne vengono in mente di casi del genere. Dov’è la giustizia in questo?
Il talento è immeritato. Sempre. È un dono che qualcuno ha, e qualcun altro no. Non c’è alcun merito nell’averlo. È come nascere con gli occhi azzurri invece che neri. Un capriccio del caso. Qualcosa che ti scende dal cielo. È incredibile quanta tragicità ci sia in una constatazione simile. Una tragicità che il film, nel suo andamento quasi farsesco, coglie in pieno. Meravigliosa in questo senso è una delle scene finali, con Mozart che detta a Salieri alcuni brani del Requiem. Salieri si affanna a star dietro alla dettatura di Mozart, ma non ci riesce, non ce la fa, non capisce. Perché il talento è incomprensibile, un mistero. Chi ce l’ha appartiene ad un’altra razza, che partecipa del futuro. Salieri è un gran compositore, ma è radicato nel presente. Mozart no. Mozart è avanti, ragiona in un modo che per i suoi contemporanei è incomprensibile (l’imperatore che si lamenta che Le Nozze di Figaro hanno “troppe note”). E così Salieri, che pure per tutto il film è stato benedetto (o meglio maledetto) da un’altra forma di dono, la capacità – unico tra i suoi contemporanei – di comprendere fino in fondo il genio di Mozart, quando entra in contatto con la sua genialità si rende conto di quanto essa sia inafferrabile, inspiegabile, irriducibile ai canoni della musica dell’epoca. Ed è in quella scena che finalmente i due si toccano per davvero: Salieri che succhia via la linfa creativa di Mozart, e non è più per rubargli la sua ultima composizione, ma per sentirsi – in un modo larvato e triste – partecipe di quel genio, e Mozart, che in tutta la sua tracotanza, in tutte le sue pose da rockstar (perché alla fine Forman così ce lo mostra, una rockstar del ’700 con tanto di vita dissoluta, alcool e debiti a palate), in fin dei conti è alla disperata ricerca dell’approvazione di qualcuno (“pensavo che di me e della mia musica non vi importasse…perdonatemi”).
Grandioso. Grandioso e tragico.
Poi, ovviamente, su questo tema portante se ne innestano una miriade di altri, proprio come in un pezzo orchestrale. Il rapporto tra un uomo e i propri miti, per dire. In fin dei conti, il vero peccato di Mozart è quello di non corrispondere all’immagine ideale che ne ha Salieri. Salieri s’immagina un uomo sul cui viso, nei cui atteggiamenti in qualche modo il talento abbia lasciato un segno. E invece si trova davanti un ragazzino che rincorre un paio di tette. Dimostrazione di un’altra grande verità: il genio non ci fa migliori. Si può essere straordinari musicisti, grandissimi scrittori, ed essere al contempo persone piccole piccole. Occorrerebbe saper accettare l’umanità dietro il mito, ma la maggior parte della gente non ne è in grado.
Oppure il tema continuo di Dio che truffa l’uomo, lo induce in tentazione per il proprio diletto, prima lo illude, e poi lo punisce. O ancora il rapporto tra vita e arte. Salieri non vive, e la sua arte è povera, sterile, ridotta al rispetto dei canoni dell’epoca, Mozart fa la vita del dissoluto, e la sua musica palpita di vita e di divino. E poi il rapporto coi padri, la follia…un sacco di cose. Messe in scena in un modo grandioso, sostenute da grandissime prove attoriali. Un film che dura tre ore, ma alla fine ti pare ne sia passata al massimo una.
Io non ho mai amato particolarmente Mozart. Qualcuno una volta mi prese in giro, chiedendomi se fosse perché c’erano troppe note. Non è quello. È che è un po’ troppo allegro per i miei gusti. Non a caso l’unica sua cosa che mi piace molto è il Requiem, che è giustamente deprimente, e tutto sommato anche poco riuscito. E nonostante io sia decisamente una Salieri, e questo senso schiacciante di mediocrità me lo porto addosso sempre, come un vestito un po’ stretto, non ho potuto fare a meno di tifare per l’enfant prodige per tutto il tempo: perché il talento ci attrae, il suo essere misterioso, indecifrabile, ci parla di una dimensione altra, ci avvicina, davvero, al divino.
Il film è stato ridoppiato. E te pareva. Ma io tanto non ricordo il doppiaggio originale. E poi devo dire che Max Alto fa veramente un lavoro bello bello bello in modo assurdo.

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qualche foto migliore di ieri

Grazie ad una facilissima e ottima App per iPad per l’elaborazione delle foto, eccovi qualche immagine di ieri sera scelta con più criterio.
Vi invito a considerare le condizioni in cui il marito le ha fatte: tra noi e il palco c’era tutto il parterre, davanti avevamo un tipo cui forse avrei dovuto chiedere l’autografo, visto che il suo pugno è protagonista di metà delle foto (poco male, il mio di pugno sarà nelle foto di quelli dietro di me :P ), e soprattutto di fianco aveva me che mi agitavo come un’ossessa spaccandogli i timpani con la mia aggraziata vocina. Insomma, io direi che nel complesso è stato proprio bravo :P

30

the day after

Ed eccomi qua. Il giorno dopo. Il collo di marmo, i polpacci che mi fanno male, poca voce e poco udito.
Pensavo non sarebbe stato bello come le altre due volte, un po’ perché c’era la questione Irene, un po’ perché era pur sempre la terza volta. E invece.

Arriviamo alle 19:00. Ok, lo confesso, i gruppi spalla non li ho mai capiti. Tendenzialmente vorrei tenermi le orecchie vergini per il concerto, e invece in genere arrivo all’inizio che sono già mezza sorda. Sentire poi canzoni ignote ad un concerto non è il massimo per apprezzare un nuovo gruppo. È per questo che abbiamo saltato il primo dei ben tre gruppi spalla. Entriamo che stanno suonando i Friendly Fires, o qualcosa del genere. Io mi dedico ad un’attività estremamente rock’n'roll: il sudoku. Il tempo mi passa, ma mi sento piuttosto vecchia. Realizzo che dall’ultimo concerto sono passati tre anni e una gravidanza, e allora mi tiro su guardando il quarantenne seduto davanti a me.
I posti sono buoni. Centrali, prima fila dal prato. Meglio di così solo le transenne sotto il palco, ma so che lì non sarò mai capace di starci, la folla mi mette ansia.
Per inciso, non me ne vogliano i milanesi, ma San Siro è veramente bruttarello. Per altro, il mio settore è dotato di soli due bagni. Invento così un nuovo passatempo: la fila chilometrica per far la pipì. Quaranta minuti di coda, mentre i Kasabian, il cui cantante, in occhiali da sole e camicia hawaiana, è improvvisamente diventato il mio mito, cantano musica decisamente non disprezzabile.
Poi, si attende. Un sacco. Io ho già sonno. Alla fine, un gruppo di scalmanati bandiera-armati sale sul palco. Le bandiere sono rosse con su dei triangoli neri e bianchi – confesso che la cosa non mi ricorda nulla di noto – i tipi srotolano degli striscioni con le citazioni salienti di Uprising, in un trionfo di fuochi artificiali. L’effetto è molto coreografia da partita di calcio, e devo dire che mi sfugge un pochino il senso del tutto. Tanto è vero che mi ci vuole qualche secondo per capire che i Nostri sono saliti sul palco. Mezza nota e riconosco l’inconfondibile attacco di Uprising, e si va.
Io ci sto dentro da subito, agitandomi e a cantando come una pazza. Giuliano accanto a me comincia con le foto a raffica. A fine serata, a scorrere tutte le foto una di seguito all’altra, avremo praticamente il filmino muto del concerto.
Ok, il palco è tamarrissimo. Ok, Matt sembra una specie di cioccolatino con su un pregevole completo argentato, la cui giacca finisce frullata via alla terza canzone, ma l’unica cosa che davvero conta è la musica, come sempre. Musica perfetta, coinvolgente, potente, che da sotto i piedi poggiati sul cemento sale su per le gambe e batte tra stomaco e cuore, come a Roma quattro anni fa, come a Verona tre. 55 000 persone all’unisono cantano “they will not force us, they will stop degrading us, they will not contro us, we will be victorious”, e non avete idea dell’effetto complessivo. Improvvisamente non sembrano più solo parole, improvvisamente sembra vero, che quelle 55000 persone possano davvero cambiare qualcosa, come se fosse possibile un’Italia, un mondo diverso. Una pia illusione, lo so, ma la musica è anche questo, due ore passate a credere l’impossibile, a pensare che le note siano più di semplici vibrazioni dell’aria.
Si prosegue sull’onda tamarra, con una Supermassive Black Hole tutto sommato nella media. Manca il bridge che in genere fanno sempre live. Questo non mi impedisce di agitarmi a più non posso.
Siccome il pubblico è caldo, e il ferro va battuto finché si può, si passa a New Born senza soluzione di continuità. L’unico peccato è che l’intro al piano non la fa Matt, ma Morgan. E vabbeh, ce ne faremo una ragione.
Quarta canzone, si scivola verso ritmi appena meno forsennati con Map of Problematique. Io non sono per niente arrugginita: ok, ogni tanto mi salta dalla memoria qualche parola delle canzoni di OOS (che comunque non ho mai saputo proprio bene bene, lo confesso, nonostante l’abbia sentito tipo un milione di volte), ma le canzoni le riconosco tutte dalla prima mezza nota.
Sono ancora lì tutta esaltata, che arriva il pezzo smosciante: Neutron Star Collision. Stacco, flashback. Lo sapete, la Meyer è una gran fan dei Muse. La dannata, forte dell’essere una scrittrice da milioni di copie e di scrivere in inglese, è riuscita dove io ho miseramente fallito (Rolling Stone? Ricordi ancora il nostro patto di sangue?): ha conosciuto i Muse, che hanno donato un po’ di song per i film tratti dai suoi libri e hanno anche scritto una canzone apposita, Neutron Star Collison.
In molti mi hanno chiesto di commentarla quando uscì. Lo faccio adesso. Il ritornello è molto catchy, e live lo è ancora di più. Voglio dire, è proprio impossibile stare zitti quando lui canta con quella sua splendida voce “our love will be forever and if we die we die together”. Però tolto quel pezzetto lì, il resto è di una smielatezza quasi imbarazzante. E anche la versione live mi lascia abbastanza fredda. Senza contare che dopo arriva la peggio di tutto The Resistance: Guiding Light. Non me la puoi mettere dopo Neutron Star. Cioè, sì, ok, sono identiche a livello di stile, ma io veramente mi ammoscio, ma di brutto. Sono così scarica che mi metto a far foto, per dire.
Ma per fortuna, parte un interludio che conosco benissimo: Hysteria. Meravigliosa, come sempre. Da staccarsi il collo a furia di head banging, che è quel che poi faccio. La canzone si stempera in un brano che sfido i 55000 a riconoscere. Nishe, b-side non ricordo se di OOS o di Showbiz, roba da intenditori, comunque, ripescata dal nulla chissà come, forse è la vincitrice del famoso pull sul loro sito, quello col quale è stata data facoltà ai loro fan di scegliere una canzone della setlist di starsera.
Anyway, momento di pausa. Fin qui è stata praticamente tutta un’unica tirata, con Matt che cambiava chitarre praticamente in corsa. Entra il pianoforte a coda. Godo. Il brano è United States of Eurasia, che non è che sia la cosa più bella da loro prodotta, ma ha dei pezzi al piano da sturbo, che Matt esegue come sempre alla grande. Subito dopo, Feeling Good, altra canzone ripescata dal pozzo dei ricordi. Sempre bella.
Matt, esce, restano solo Dom e Chris. Ogni tanto sbircio sui maxischermi la faccia di Dom. Mi è sempre piaciuto guardarlo quando suona, perché ha quella faccia lí del ragazzino cui hanno regalato un giocattolo nuovo. Si diverte, è così evidente, ed è così bello. È questo che mi piace dei Muse: che dopo tutti questi anni, dopo aver suonato quelle canzoni un miliardo di volte, nonostante i soldi, gli stadi, i palchi megagalattici, per loro è come per me quando scrivo, come vi dicevo qualche giorno fa: si divertono. Si guardano e ridono, si agitano come pazzi, stare su un palco resta una cosa bella, nuova ad ogni concerto, forse. Non riesco neppure ad immaginare cosa voglia dire tenere in pugno 55000 persone così, sapere che sono lì ai tuoi piedi ad urlare per te, che si sono fatti chilometri, attese interminabili sotto al sole per te, sentirli urlare all’unisono, cantare. Dev’essere una cosa fantastica. Se rinasco faccio la rock star :P
Comunque. Dom e Chris zompano su un cosa semovibile che arriva più o meno a metà campo, sollevato di qualche metro sul pubblico. Dom suona una specie di borghi luminosi, Chris ovviamente sta al basso. Leggo dalla setlist che il brano si chiama MK Jam; non so cosa sia ma è fighissimo, ballo come una forsennata, mi sento come gli indigeni di King Kong durante il sacrificio della tipa, nel film di Peter Jackson che ho visto un paio di giorni fa. Mi agito così tanto che non arrivo alla fine, mi tocca prendere fiato prima. Sono veramente vecchia…
Poi, anche Matt zompa sul trespolo, e parte Undisclosed Desires, che live non avevo idea di come potesse risultare. Troppo sintetica, troppo strana per i loro standard. E invece è perfetta, veramente da ballare. E quanto urlo “I want to reconcile the violence in your heart” capisco che quelle parole sono perfette per il terzo libro delle Leggende, e che forse ce le metterò anche in apertura, guarda un po’. Tra l’altro, il trespolo è una bella idea, loro adesso son più vicini e le foto dell’infaticabile Giuliano vengono meglio.
Tutti e tre tornano a terra, e parte un accenno di Adagio di Albinoni, e io me lo sento: it’s Resistance time. E infatti.
Che vi devo dire. Fantastica. È una delle loro canzoni che preferisco, e live è potentissima, con quel grido disperato, “love is our resistance”, che poi sento così mio. E infatti lo grido a squarciagola, anche se praticamente sono già afona e mi viene da tossire.
Si passa a Starlight, che mi ricorda il mio viaggio di nozze – la sentii mentre la nave salpava, sulla prua, sotto il cielo viola di un freddo tramonto baltico – e tutti i viaggi per mare che ho fatto. Sarò banale, ma è così. E anche qui canto un sacco.
Poi c’è il momento inedito, che non ti aspetti. Matt diventa semplice chitarrista, e sale su un tizio, che scopro chiamarsi Nic Cester, e che a me sembra sputato Faramir de Il Signore degli Anelli. E canta Back in Black degli AC/DC. Loro si divertono un sacco, il pubblico pure, quindi tutto ok. Io la canzone la conosco, ma le parole non le so, per cui mi limito a scuotermi.
Di nuovo tempo di grandi classici: Time is Running Out. Scopro di non ricordare alcune parole. Male, molto male. Un ritornello è affidato del tutto al pubblico, e io urlo come non ci fosse un domani.
Si chiude la prima parte con una Unnatural Selection a dir poco sublime, soprattutto il bridge. La chitarra letteralmente squarcia l’aria con grida disperate, ti prende sotto lo stomaco a tradimento, ti apre in due, meraviglioso.
I nostri escono e scopro che è passata tipo un’ora e un quarto che a me è parsa qualcosa come cinque minuti. A ricordarmi il tempo passato, le taniche di sudore e la stanchezza che ho nelle ossa. Sono proprio invecchiata…
Rientrano. Dom ci chiede di accendere i cellulari, e io becco Unintended dai primi arpeggi. Mi fa uno strano effetto sentirla. È praticamente la canzone che suono meglio alla chitarra, oltre ad essere la ninna nanna dei primi giorni di Irene. Bellissima. Struggente come al solito.
In tutto questo, per altro, ad un certo punto, non ricordo quando, hanno anche trovato il tempo di infilarci un accennino di House of the Rising Sun strumentale.
Poi, mentre ancora ci ripigliamo dalla commozione, dal palco esce un ufone gigante. Exopolitics? Adesso parte un gippone di Matt sugli alieni? La risposta è più semplice, e più bella: Exogenesis I, la mia preferita, quell’Ouverture che è una delle cose più belle che abbiano mai prodotto, la mia canzone preferita. Stavolta non canto e non ballo. Stavolta resto inchiodata al cemento con gli occhi chiusi. Peccato, perché all’ufone sospeso in aria è attaccata una ballerina che sembra tanto Lidja quando fa il suo numero dei teli aerei. Ma adesso per me conta solo la musica. Che è sublime. Sentirla live, anche se l’orchestra è registrata (e vorrei vedere, impossibile tener lì degli orchestrali solo per una canzone…), è un’emozione unica. In testa mi esplodono mille idee, e ne fiorisce in particolare una, che mi gira in mente da un po’. Sono tre minuti di assoluta perfezione, di unione col cosmo. La voce di Matt, la chitarra, la sera estiva. Meraviglioso. Unico. Tre minuti che da soli valgono il prezzo (alto) del biglietto, che vorresti registrare e rimandare avanti all’infinito, per riviverlo ancora, e ancora. Per me il concerto può anche finire qua. Ho portato a casa l’obiettivo di questi 600 km di viaggio. Ma c’è ancora tempo. E parte un’indiavolata Stockholm Syndrome. Bene, avevo voglia di agitarmi un po’. Si agita anche Matt, che a fine canzone tira la tarammo-chitarra – è una Manson rossa con su i brillantini, una roba oscena degna di finire sbattuta da qualche parte – contro la batteria di Dom. Ricordo che già qualche tempo fa Dom rischiò di beccarsi non ricordo qualche chitarra in fronte. Comunque, l’oggetto va ad abbattersi a un metro dal nostro batterista del cuore e dal suo strumento.
Altra uscita di qualche secondo, poi rientrano. Matt sale sul trespolo in una tenuta memorabile: completo coperto di lucine rosse e blu intermittenti, corredato da occhialoni giganteschi sbrillucicosi anche loro. Un uomo, un mito.
Così bardato, riesce a cantare un’intensa Take a Bow, e senza manco ridere. Bella, as usual.
Parte Plug in Baby. Stasera Matt è veramente in buona, perché spara degli acuti che non gli ho mai sentito negli altri due concerti. Gli ha fatto bene essere mollato dalla tipa? Cioè, povero, non è che mi faccia piacere, eh, ma a quanto pare gli ha rinverginato le corde vocali. Sul pubblico scendono i consueti palloni. Io un po’ ci spero che arrivino da noi, ma la cosa è proprio senza speranza. I palloni, che poi sono enormi occhi, si fermano più o meno a metà del prato.
Poi, Chris attacca l’armonica a bocca. Non sapevo la suonasse. L’effetto è assolutamente splendido, improvvisamente San Siro diventa un pezzo di west, sembra di veder spuntare Clint Eastwood da un momento all’altro. E io so cosa ci aspetta. Knight of Cydonia. Quel che non so è che sarà la più bella Knight of Cydonia che abbia mai sentito. Non so cos’è. Forse la potenza. Forse il bridge, diverso da quello del disco, più bello, e che finora avevo sentito solo in un bootleg raccattato in giro. Ma mi carica da impazzire, è assolutamente fantastica.
E il concerto finisce così, con un po’ di inchini, mentre la chitarra di Matt geme a terra, con tanti applausi, i nostri a loro e i loro a noi, e già un po’ di nostalgia.
Il bilancio è ottimo. Io sono meno pimpante di tre anni fa, ma loro sono sempre grandi. Avrei gradito un po’ più di piano, Matt al piano è poetico, e ho notato che ormai le canzoni live sono quasi identiche alle versioni da studio, che è un peccato, perché adoravo il fatto che live le canzoni fossero ancor più belle che sul disco, ma non posso dire di essere delusa, ma manco un po’. Sì, forse Verona è stato più bello, ma contava anche l’acustica ottima del posto, e la sua bellezza ovviamente. Ma è stato bellissimo ritrovarli, e ritrovarsi in loro. Sono ancora la groupie che urla per due ore sulle loro canzoni, il cui immaginario è così profondamente influenzato dalle loro canzoni, e che si esalta per un concerto.
Qui sotto, qualche foto sparsa. Sono in treno, e sto usando il WordPress per iPad per comodità, ma che è un pochino limitato rispetto alla versione full di Safari; per questo le foto non sono nel corpo del post. Comunque, credo siano abbastanza autoesplicative :P

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e così ci siamo

Domani c’è il concerto dei Muse, io vado a Milano e Irene resta a Roma.
Non mi sento male. Di più. E non è questione di scarsa fiducia nei nonni. Io mi fido completamente e totalmente dei miei, ovviamente. No, è proprio strizza generalizzata.
E se le manco.
(pia illusione, ogni volta che sono uscita di casa per qualche ragione lei non s’è mai fatta problemi, a stento mi faceva un sorrisino quando rientravo)
E se la traumatizzo con l’assenza.
(considerando il mio carattere, la traumatizzo più con la presenza)
E se piange e non si calma.
E se non dorme
E se…
No. La verità è che già mi manca. Sono io che sono traumatizzata dalla distanza, sono io che poi non dormo. A volte penso che la maternità è un lunghissimo distacco: cresci i figli per vederli andare via, gli insegni a essere progressivamente indipendenti da te, mentre tu vorresti che avessero bisogno di te in eterno. E invece devi insegnargli a tradirti, magari anche a mandarti a quel paese. E purtroppo si comincia presto.
Vabbeh.
Vi segnalo un’intervista che ho rilasciato per il canale YouTube Mondadori durante il Salone del Libro di Torino. La trovate qua.

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Pensieri del venerdì: post bipartito

Martedì vado al concerto dei Muse. Fosse stato sei mesi fa, starei qui a fare il conto alla rovescia. Sarebbe tipo l’evento del mio inizio estate. Invece adesso la vivo con un misto di ansia e apprensione. È che per andarci lascio ovviamente Irene a casa. Il che mi genera ovviamente tutto uno spettro di paranoie tipicamente mammesche. E pensare che a novembre dello scorso anno non mi sembrava per niente un problema andarmene via di casa per un giorno. Adesso la cosa assume contorni da tragedia greca. Come cambiano le prospettive.

Ieri sera scrivevo. Sono un po’ in ritardo sulla stesura del terzo libro delle Leggende, o quanto meno mi sono convinta che sia così, per cui ho accelerato i tempi: scrivo tutte le sere, cerco di scrivere più pagine a sera. E nonostante mi debba sempre fare un po’ forza per iniziare a lavorare, la sera, per quella nota legge per cui scrivere è un bisogno, ma anche due ore sbracata sul divano lo sono, mi sono accorta di una cosa. Nonostante sono sei anni che vengo pagata per farlo, per me non è un lavoro. L’atteggiamento con cui mi siedo alla scrivania, inizio a pensare alla trama e poi scrivo è esattamente lo stesso del 2001 o giù di lì, quando iniziai le Cronache. Non sto lì a domandarmi “venderà questo libro?”, non sto lì pensare a quel che faccio come fosse un lavoro. Continua ad essere una cosa che faccio con lo stesso piacere con cui mi dedico ai miei hobby. È che le vendite, gli aspetti più terra terra del mio lavoro, restano alla fine un pretesto per continuare a fare quel che mi piace: se il libro piace, posso scriverne altri e farne la mia professione. Suppongo sia una cosa positiva.

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Inutile tritolo

Si sa che io sono facile all’ossessione. Quando mi piace una cosa spesso entro in trip. Ne parlo ovunque, mi esalto, me la godo da tutte le angolazioni. Soprattutto ne fruisco ripetutamente. Tipo le dodici letture de Il Nome della Rosa, o gli innumerevoli ascolti di tutto quanto sia stato partorito dai Muse. Stavolta però inizio a preoccuparmi anch’io.
Ho comprato Storia di un Impiegato qualcosa come una, due settimane fa, sulla scorta di un’ossessione per una canzone del disco, Il Bombarolo. Non so spiegare perché, ma mi piaceva moltissimo, insieme a Canzone del Maggio, che viene dallo stesso lavoro. Ecco, Canzone del Maggio è già più comprensibile. Il Bombarolo meno. Comunque, ho preso il disco a 7 euro da iTunes. Ora, potrei partire con un elogio di tre pagine sulla musica su iTunes, su questa validissima alternativa alla pirateria musicale e via così, e probabilmente un giorno lo farò, ma cercherò di stare sul pezzo e continuare a parlarvi della mia ossessione.
Dopo il primo ascolto di Storia di un Impiegato, commentai su Facebook: “Incredibile quanta bellezza e verità vada via a sette euro”. E puffete! Ero stata catturata.
Non so quante volte abbia sentito il disco da allora. Più o meno una volta al giorno. Canticchio le sue canzoni in ogni dove. Ce le ho in testa, piantate tra l’aorta e l’intenzione, tanto per parafrasare. E ho iniziato a chiedermi perché. Perché questo disco e non altri. Perché non La Buona Novella, Non all’Amore, Né al Denaro, Né al Cielo, che pure mi piacciono tanto. Perché questo, e perché ora.
Scopro che all’epoca dell’uscita, la critica non apprezzò. Non mi stupisco. Faber era uno che andava sempre in direzione ostinata e contraria, lontano dalle facili verità, e sempre un passo in anticipo sui tempi. La sua sete di verità, e il modo onesto e spietato con cui la cantava lo rendeva inviso a chiunque fosse preda del dogma, e ce n’erano, negli anni ’70 (come ce ne sono adesso, d’altronde). Il suo impiegato, che finisce bombarolo, non poteva certo piacere alla borghesia dell’epoca, quelli che si sentivano assolti perché il fuoco aveva risparmiato le loro 1100. E non poteva piacere neppure a chi la rivoluzione l’aveva fatta, visto che i metodi di quella rivoluzione metteva in dubbio, in una spietata analisi di come certe forme di ribellione finiscano per essere più conservatrici di quanto si pensi.
A me invece piace. È intriso di una disperata ribellione, è la storia di una ricerca, e credo che tutte le vite siano questo: una ricerca senza fine e senza requie. E allora forse inizio a capire perché mi piace tanto. Giunta alle soglie dell’età della ragione, qualcosa in me (per fortuna) non si arrende. E spera in una ribellione che faccia saltare le maschere del potere. Una ribellione solitaria, proprio come quella dell’impiegato. Costruisco le mie inutili bombe davanti alla mia scrivania, alla fioca luce della lampada, nella speranza che possano servire a qualcosa, ma nella consapevolezza un po’ triste che tutto sommato io e il mio tritolo siamo davvero innocui. Dentro so perfettamente di essere anch’io un meccanismo del potere. Tutti ci siamo dentro, hanno ragione i Wu Ming. Però quel canto finale, Nella mia Ora di Libertà, mi fa sperare. Che un giorno si decida tutti di imprigionare i secondini nella nostra ora d’aria, che si decida, insieme, che è tempo di cambiare. E in fondo so che non rinuncerò mai a questo desiderio di cambiare, forse un po’ sterile, ma che ci rende eternamente giovani.

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