Ed eccomi qua. Il giorno dopo. Il collo di marmo, i polpacci che mi fanno male, poca voce e poco udito.
Pensavo non sarebbe stato bello come le altre due volte, un po’ perché c’era la questione Irene, un po’ perché era pur sempre la terza volta. E invece.
Arriviamo alle 19:00. Ok, lo confesso, i gruppi spalla non li ho mai capiti. Tendenzialmente vorrei tenermi le orecchie vergini per il concerto, e invece in genere arrivo all’inizio che sono già mezza sorda. Sentire poi canzoni ignote ad un concerto non è il massimo per apprezzare un nuovo gruppo. È per questo che abbiamo saltato il primo dei ben tre gruppi spalla. Entriamo che stanno suonando i Friendly Fires, o qualcosa del genere. Io mi dedico ad un’attività estremamente rock’n'roll: il sudoku. Il tempo mi passa, ma mi sento piuttosto vecchia. Realizzo che dall’ultimo concerto sono passati tre anni e una gravidanza, e allora mi tiro su guardando il quarantenne seduto davanti a me.
I posti sono buoni. Centrali, prima fila dal prato. Meglio di così solo le transenne sotto il palco, ma so che lì non sarò mai capace di starci, la folla mi mette ansia.
Per inciso, non me ne vogliano i milanesi, ma San Siro è veramente bruttarello. Per altro, il mio settore è dotato di soli due bagni. Invento così un nuovo passatempo: la fila chilometrica per far la pipì. Quaranta minuti di coda, mentre i Kasabian, il cui cantante, in occhiali da sole e camicia hawaiana, è improvvisamente diventato il mio mito, cantano musica decisamente non disprezzabile.
Poi, si attende. Un sacco. Io ho già sonno. Alla fine, un gruppo di scalmanati bandiera-armati sale sul palco. Le bandiere sono rosse con su dei triangoli neri e bianchi – confesso che la cosa non mi ricorda nulla di noto – i tipi srotolano degli striscioni con le citazioni salienti di Uprising, in un trionfo di fuochi artificiali. L’effetto è molto coreografia da partita di calcio, e devo dire che mi sfugge un pochino il senso del tutto. Tanto è vero che mi ci vuole qualche secondo per capire che i Nostri sono saliti sul palco. Mezza nota e riconosco l’inconfondibile attacco di Uprising, e si va.
Io ci sto dentro da subito, agitandomi e a cantando come una pazza. Giuliano accanto a me comincia con le foto a raffica. A fine serata, a scorrere tutte le foto una di seguito all’altra, avremo praticamente il filmino muto del concerto.
Ok, il palco è tamarrissimo. Ok, Matt sembra una specie di cioccolatino con su un pregevole completo argentato, la cui giacca finisce frullata via alla terza canzone, ma l’unica cosa che davvero conta è la musica, come sempre. Musica perfetta, coinvolgente, potente, che da sotto i piedi poggiati sul cemento sale su per le gambe e batte tra stomaco e cuore, come a Roma quattro anni fa, come a Verona tre. 55 000 persone all’unisono cantano “they will not force us, they will stop degrading us, they will not contro us, we will be victorious”, e non avete idea dell’effetto complessivo. Improvvisamente non sembrano più solo parole, improvvisamente sembra vero, che quelle 55000 persone possano davvero cambiare qualcosa, come se fosse possibile un’Italia, un mondo diverso. Una pia illusione, lo so, ma la musica è anche questo, due ore passate a credere l’impossibile, a pensare che le note siano più di semplici vibrazioni dell’aria.
Si prosegue sull’onda tamarra, con una Supermassive Black Hole tutto sommato nella media. Manca il bridge che in genere fanno sempre live. Questo non mi impedisce di agitarmi a più non posso.
Siccome il pubblico è caldo, e il ferro va battuto finché si può, si passa a New Born senza soluzione di continuità. L’unico peccato è che l’intro al piano non la fa Matt, ma Morgan. E vabbeh, ce ne faremo una ragione.
Quarta canzone, si scivola verso ritmi appena meno forsennati con Map of Problematique. Io non sono per niente arrugginita: ok, ogni tanto mi salta dalla memoria qualche parola delle canzoni di OOS (che comunque non ho mai saputo proprio bene bene, lo confesso, nonostante l’abbia sentito tipo un milione di volte), ma le canzoni le riconosco tutte dalla prima mezza nota.
Sono ancora lì tutta esaltata, che arriva il pezzo smosciante: Neutron Star Collision. Stacco, flashback. Lo sapete, la Meyer è una gran fan dei Muse. La dannata, forte dell’essere una scrittrice da milioni di copie e di scrivere in inglese, è riuscita dove io ho miseramente fallito (Rolling Stone? Ricordi ancora il nostro patto di sangue?): ha conosciuto i Muse, che hanno donato un po’ di song per i film tratti dai suoi libri e hanno anche scritto una canzone apposita, Neutron Star Collison.
In molti mi hanno chiesto di commentarla quando uscì. Lo faccio adesso. Il ritornello è molto catchy, e live lo è ancora di più. Voglio dire, è proprio impossibile stare zitti quando lui canta con quella sua splendida voce “our love will be forever and if we die we die together”. Però tolto quel pezzetto lì, il resto è di una smielatezza quasi imbarazzante. E anche la versione live mi lascia abbastanza fredda. Senza contare che dopo arriva la peggio di tutto The Resistance: Guiding Light. Non me la puoi mettere dopo Neutron Star. Cioè, sì, ok, sono identiche a livello di stile, ma io veramente mi ammoscio, ma di brutto. Sono così scarica che mi metto a far foto, per dire.
Ma per fortuna, parte un interludio che conosco benissimo: Hysteria. Meravigliosa, come sempre. Da staccarsi il collo a furia di head banging, che è quel che poi faccio. La canzone si stempera in un brano che sfido i 55000 a riconoscere. Nishe, b-side non ricordo se di OOS o di Showbiz, roba da intenditori, comunque, ripescata dal nulla chissà come, forse è la vincitrice del famoso pull sul loro sito, quello col quale è stata data facoltà ai loro fan di scegliere una canzone della setlist di starsera.
Anyway, momento di pausa. Fin qui è stata praticamente tutta un’unica tirata, con Matt che cambiava chitarre praticamente in corsa. Entra il pianoforte a coda. Godo. Il brano è United States of Eurasia, che non è che sia la cosa più bella da loro prodotta, ma ha dei pezzi al piano da sturbo, che Matt esegue come sempre alla grande. Subito dopo, Feeling Good, altra canzone ripescata dal pozzo dei ricordi. Sempre bella.
Matt, esce, restano solo Dom e Chris. Ogni tanto sbircio sui maxischermi la faccia di Dom. Mi è sempre piaciuto guardarlo quando suona, perché ha quella faccia lí del ragazzino cui hanno regalato un giocattolo nuovo. Si diverte, è così evidente, ed è così bello. È questo che mi piace dei Muse: che dopo tutti questi anni, dopo aver suonato quelle canzoni un miliardo di volte, nonostante i soldi, gli stadi, i palchi megagalattici, per loro è come per me quando scrivo, come vi dicevo qualche giorno fa: si divertono. Si guardano e ridono, si agitano come pazzi, stare su un palco resta una cosa bella, nuova ad ogni concerto, forse. Non riesco neppure ad immaginare cosa voglia dire tenere in pugno 55000 persone così, sapere che sono lì ai tuoi piedi ad urlare per te, che si sono fatti chilometri, attese interminabili sotto al sole per te, sentirli urlare all’unisono, cantare. Dev’essere una cosa fantastica. Se rinasco faccio la rock star 
Comunque. Dom e Chris zompano su un cosa semovibile che arriva più o meno a metà campo, sollevato di qualche metro sul pubblico. Dom suona una specie di borghi luminosi, Chris ovviamente sta al basso. Leggo dalla setlist che il brano si chiama MK Jam; non so cosa sia ma è fighissimo, ballo come una forsennata, mi sento come gli indigeni di King Kong durante il sacrificio della tipa, nel film di Peter Jackson che ho visto un paio di giorni fa. Mi agito così tanto che non arrivo alla fine, mi tocca prendere fiato prima. Sono veramente vecchia…
Poi, anche Matt zompa sul trespolo, e parte Undisclosed Desires, che live non avevo idea di come potesse risultare. Troppo sintetica, troppo strana per i loro standard. E invece è perfetta, veramente da ballare. E quanto urlo “I want to reconcile the violence in your heart” capisco che quelle parole sono perfette per il terzo libro delle Leggende, e che forse ce le metterò anche in apertura, guarda un po’. Tra l’altro, il trespolo è una bella idea, loro adesso son più vicini e le foto dell’infaticabile Giuliano vengono meglio.
Tutti e tre tornano a terra, e parte un accenno di Adagio di Albinoni, e io me lo sento: it’s Resistance time. E infatti.
Che vi devo dire. Fantastica. È una delle loro canzoni che preferisco, e live è potentissima, con quel grido disperato, “love is our resistance”, che poi sento così mio. E infatti lo grido a squarciagola, anche se praticamente sono già afona e mi viene da tossire.
Si passa a Starlight, che mi ricorda il mio viaggio di nozze – la sentii mentre la nave salpava, sulla prua, sotto il cielo viola di un freddo tramonto baltico – e tutti i viaggi per mare che ho fatto. Sarò banale, ma è così. E anche qui canto un sacco.
Poi c’è il momento inedito, che non ti aspetti. Matt diventa semplice chitarrista, e sale su un tizio, che scopro chiamarsi Nic Cester, e che a me sembra sputato Faramir de Il Signore degli Anelli. E canta Back in Black degli AC/DC. Loro si divertono un sacco, il pubblico pure, quindi tutto ok. Io la canzone la conosco, ma le parole non le so, per cui mi limito a scuotermi.
Di nuovo tempo di grandi classici: Time is Running Out. Scopro di non ricordare alcune parole. Male, molto male. Un ritornello è affidato del tutto al pubblico, e io urlo come non ci fosse un domani.
Si chiude la prima parte con una Unnatural Selection a dir poco sublime, soprattutto il bridge. La chitarra letteralmente squarcia l’aria con grida disperate, ti prende sotto lo stomaco a tradimento, ti apre in due, meraviglioso.
I nostri escono e scopro che è passata tipo un’ora e un quarto che a me è parsa qualcosa come cinque minuti. A ricordarmi il tempo passato, le taniche di sudore e la stanchezza che ho nelle ossa. Sono proprio invecchiata…
Rientrano. Dom ci chiede di accendere i cellulari, e io becco Unintended dai primi arpeggi. Mi fa uno strano effetto sentirla. È praticamente la canzone che suono meglio alla chitarra, oltre ad essere la ninna nanna dei primi giorni di Irene. Bellissima. Struggente come al solito.
In tutto questo, per altro, ad un certo punto, non ricordo quando, hanno anche trovato il tempo di infilarci un accennino di House of the Rising Sun strumentale.
Poi, mentre ancora ci ripigliamo dalla commozione, dal palco esce un ufone gigante. Exopolitics? Adesso parte un gippone di Matt sugli alieni? La risposta è più semplice, e più bella: Exogenesis I, la mia preferita, quell’Ouverture che è una delle cose più belle che abbiano mai prodotto, la mia canzone preferita. Stavolta non canto e non ballo. Stavolta resto inchiodata al cemento con gli occhi chiusi. Peccato, perché all’ufone sospeso in aria è attaccata una ballerina che sembra tanto Lidja quando fa il suo numero dei teli aerei. Ma adesso per me conta solo la musica. Che è sublime. Sentirla live, anche se l’orchestra è registrata (e vorrei vedere, impossibile tener lì degli orchestrali solo per una canzone…), è un’emozione unica. In testa mi esplodono mille idee, e ne fiorisce in particolare una, che mi gira in mente da un po’. Sono tre minuti di assoluta perfezione, di unione col cosmo. La voce di Matt, la chitarra, la sera estiva. Meraviglioso. Unico. Tre minuti che da soli valgono il prezzo (alto) del biglietto, che vorresti registrare e rimandare avanti all’infinito, per riviverlo ancora, e ancora. Per me il concerto può anche finire qua. Ho portato a casa l’obiettivo di questi 600 km di viaggio. Ma c’è ancora tempo. E parte un’indiavolata Stockholm Syndrome. Bene, avevo voglia di agitarmi un po’. Si agita anche Matt, che a fine canzone tira la tarammo-chitarra – è una Manson rossa con su i brillantini, una roba oscena degna di finire sbattuta da qualche parte – contro la batteria di Dom. Ricordo che già qualche tempo fa Dom rischiò di beccarsi non ricordo qualche chitarra in fronte. Comunque, l’oggetto va ad abbattersi a un metro dal nostro batterista del cuore e dal suo strumento.
Altra uscita di qualche secondo, poi rientrano. Matt sale sul trespolo in una tenuta memorabile: completo coperto di lucine rosse e blu intermittenti, corredato da occhialoni giganteschi sbrillucicosi anche loro. Un uomo, un mito.
Così bardato, riesce a cantare un’intensa Take a Bow, e senza manco ridere. Bella, as usual.
Parte Plug in Baby. Stasera Matt è veramente in buona, perché spara degli acuti che non gli ho mai sentito negli altri due concerti. Gli ha fatto bene essere mollato dalla tipa? Cioè, povero, non è che mi faccia piacere, eh, ma a quanto pare gli ha rinverginato le corde vocali. Sul pubblico scendono i consueti palloni. Io un po’ ci spero che arrivino da noi, ma la cosa è proprio senza speranza. I palloni, che poi sono enormi occhi, si fermano più o meno a metà del prato.
Poi, Chris attacca l’armonica a bocca. Non sapevo la suonasse. L’effetto è assolutamente splendido, improvvisamente San Siro diventa un pezzo di west, sembra di veder spuntare Clint Eastwood da un momento all’altro. E io so cosa ci aspetta. Knight of Cydonia. Quel che non so è che sarà la più bella Knight of Cydonia che abbia mai sentito. Non so cos’è. Forse la potenza. Forse il bridge, diverso da quello del disco, più bello, e che finora avevo sentito solo in un bootleg raccattato in giro. Ma mi carica da impazzire, è assolutamente fantastica.
E il concerto finisce così, con un po’ di inchini, mentre la chitarra di Matt geme a terra, con tanti applausi, i nostri a loro e i loro a noi, e già un po’ di nostalgia.
Il bilancio è ottimo. Io sono meno pimpante di tre anni fa, ma loro sono sempre grandi. Avrei gradito un po’ più di piano, Matt al piano è poetico, e ho notato che ormai le canzoni live sono quasi identiche alle versioni da studio, che è un peccato, perché adoravo il fatto che live le canzoni fossero ancor più belle che sul disco, ma non posso dire di essere delusa, ma manco un po’. Sì, forse Verona è stato più bello, ma contava anche l’acustica ottima del posto, e la sua bellezza ovviamente. Ma è stato bellissimo ritrovarli, e ritrovarsi in loro. Sono ancora la groupie che urla per due ore sulle loro canzoni, il cui immaginario è così profondamente influenzato dalle loro canzoni, e che si esalta per un concerto.
Qui sotto, qualche foto sparsa. Sono in treno, e sto usando il WordPress per iPad per comodità, ma che è un pochino limitato rispetto alla versione full di Safari; per questo le foto non sono nel corpo del post. Comunque, credo siano abbastanza autoesplicative