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Canzoni, concerti e rivoluzione

Sabato sera sono andata al Rock in Roma a sentire Caparezza. È stato tipo il mio primo concerto pagato non dei Muse, o giù di lì. Non è che abbia al mio attivo molti eventi, ma ho visto un paio di concertoni del 1° maggio, e una volta, sempre al Rock in Roma, ascoltai Daniele Silvestri. Comunque, per me era un po’ un evento: Caparezza mi piace assai, ho quasi tutta la discografia (mi manca il primo disco), la so a menadito, anche se non so cantarla – è impossibile, non riesco a stargli dietro – ed era da un po’ che volevo vederlo live. Da Verità Supposte, per la precisione, quando diede un concerto in Sicilia proprio mentre noi eravamo nei paraggi.
Comunque. Innanzitutto, una piccola vittoria personale. Io soffro la folla. Riesco a stare in mezzo alla gente, ma mi prende il panico quando si sta tutti pigiati. Siccome sono bassa, ho sempre paura che qualcuno mi ciacchi, ho l’incubo Love Parade sempre stampato in testa. È la ragione per cui praticamente non ho mai fatto concerti sotto il palco. Ora, sabato stavamo a distanza di sicurezza, ma si stava comunque strettini. E, nulla, durante l’interminabile session del pur apprezzabile gruppo spalla – i Calibro 35, per la cronaca – ho iniziato ad accusare un po’ d’ansia. Nulla di chè, giusto quel po’ di insana voglia di scappare dove c’era un po’ più spazio. Già mi vedevo a rovinarmi il concerto per le mie paturnie, quando Caparezza è apparso. Tempo due millesimi di secondo dalla prima nota, e già saltellavo come un’indemoniata, urlando a squarciagola “Ilaria condizionata ha raffreddato la mia giornata!”. La paura era sparita. Un piccolo passo per l’umanità, un passo importante per me: è sempre bello quando riesco a rivalermi su qualche mia paura.
Anyway, il concerto. Purtroppo sfioro, senza raggiungerlo, il metro e sessanta, e quindi non ho visto niente. Sono salita per un po’ sulle spalle di un mio amico, ma davvero non me la sentivo di imporgli i miei 53 chili per due ore, senza contare la gente dietro che si sarebbe lamentata, per cui mi sono limitata a zompettare e cantare per tutto il tempo, inquadrando raramente un angolo del capello di Caparezza, un braccio e via così. Ma non è stato poi così importante. Perché il concerto è stato bello, piacevole, divertente, e lui si è dato molto. E poi quel che conta è il rito collettivo. Stare lì con altre diecimila persone che cantano, saltano, urlano con te. Hai l’illusione di far parte di una comunità compatta, unita. Hai l’illusione di essere lì per cambiare il mondo a forza di strofe urlate.
È una riflessione che mi viene da fare spesso, ogni volta che partecipo a qualche spettacolo del genere. Il senso di comunione è fortissimo, l’idea di trovarti in mezzo – finalmente – a gente incazzata come te, a gente che la pensa proprio come te sul mondo, sull’Italia, su come vanno le cose, è fortissimo. E l’impressione d’improvviso è che se urli abbastanza forte “Non siete Stato / voi che rimboccate le bandiere sulle / bare per addormentare ogni senso di / colpa” allora davvero qualcosa possa cambiare. È l’ebbrezza della folla, quel piacere sottile e tremendo dello sciogliersi nella massa. Non sei più solo tu, col tuo senso d’impotenza e la sensazione di non poter mai fare la differenza, ma sei noi, migliaia di teste che pensano un unico pensiero, migliaia di mani che se solo volessero potrebbero fare la rivoluzione.
E quando ci ho riflettuto, di ritorno, in macchina, ancora sudata e galvanizzata da tutto quel saltare, ho pensato che un concerto è qualcosa di bello e tremendo, proprio per quell’illusione che ti dà. Due ore a giocare a fare la rivoluzione, a sfogare la frustrazione di giorni passati ad ingoiare amaro. Ma poi? Poi tutti a casa con qualche foto ricordo, la maglietta sudata, e domani tutto come prima. L’uomo sul palco, lui, sì, le cose le cambia. Strofa dopo strofa spara il suo messaggio alla gente, e piano ne cambia la testa. Ma la folla ai suoi piedi, quella non cambia niente. Sfoga la propria rabbia per due ore, poi tutti a casa a fare di nuovo i conti col lavoro precario, i soldi che non ci sono, lo stato assente. Pronti per accumulare di nuovo l’incazzatura, fino al prossimo concerto.
Con questo non voglio dire che c’è qualcosa di male ad andare ad un concerto e saltare per due ore. Ma io mi domando sempre se quella gente che va a sentire Caparezza, che canta le sue canzoni, che strilla “Berlusconi pezzo di merda” sotto al palco, poi va a votare, per dirne una. Se il 13 febbraio era in piazza insieme a me. Se la sua è la rabbia dei quindici anni, quella fisiologica, che va via appena ti fai una famiglia e trovi un lavoro, o resta dentro a covare, e ti spinge a cercare davvero di cambiare le cose.
Mah. Probabilmente per me vale il ritornello di Cose Che non Capisco: “ti fai troppi problemi [...], non te ne fare più”, e sto montando un discorso senza senso intorno a due ore di puro svago, che mi sono goduta dall’inizio alla fine. Una canzone è solo una canzone, un concerto è solo un concerto. Ma le parole sono armi, e cambiano le cose. Ogni restaurazione parte sempre stravolgendo il linguaggio, e ogni rivoluzione ha sempre un proprio frasario, e se non ne fossi convinta, non farei il lavoro che faccio.

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Avatar

Era parecchio tempo che non entravo all’università dall’ingresso principale. È che vivo nel mio piccolo ufficio, che si trova attaccato ad uno degli innumerevoli accessi secondari. Quando ancora ero una studentessa di laurea, invece, lo facevo sempre.
Giuliano se lo ricorda bene, e spesso me lo racconta ridendo. Arrivavo quasi sempre curva sotto il peso della borsa, di corsa, tipicamente incazzata nera. Credo di aver iniziato ad essere ansiosa proprio all’università: ero certa di non essere all’altezza, di non farcela, ero terrorizzata dal risultato. E per questo forse ero sempre più o meno incazzata, la mattina.
Ricordo la mia immagine riflessa nel vetro della porta. Un’immagine che non mi corrispondeva. Nella mia testa ero minuta, più simile ad un ragazzino che a una ventenne alle prese con l’università. Nel vetro vedevo riflessa una ragazza tarchiata, col seno grosso, mascolina sì, ma con una fisicità che mi imponeva al mondo in un modo sfacciato che non ritenevo rappresentarmi.
Giovedì invece sono entrata di nuovo dall’ingresso principale. Il vetro mi ha rimandato la mia immagine, mentre mi avvicinavo ad ampie falcate, proprio come in quei giorni di dieci anni fa. E per un istante, uno appena, la mia immagine si è magicamente sovrapposta a quella che avevo in testa. Ero come mi immaginavo. Il mio avatar finalmente rispecchiava il modo in cui mi sentivo, forse appena più vecchio di quanto non mi piaccia credermi. E in quei pochi secondi che mi separavano dall’ingresso, ho capito che è per questo che cinque anni fa andai dalla dietologa, che è per questo che mi metto il cappello, mi vesto come vesto, e, quando me la sento, mi metto in tiro. Vesto la mia pelle perché somigli a quel che sono, perché il mio aspetto dica subito a chi mi guarda con chi ha a che fare. Cerco di far coincidere anima e corpo, perché non debba sentirmi un’estranea nei miei panni, e dunque un’estranea nel mondo.
Tanti anni, e sono ancora prigioniera del mio aspetto, della mia apparenza. Non riesco a farne a meno. Non so se sia una cosa positiva o una negativa. Lo amo, il mio corpo che ha dato la vita, che si muove preciso mentre sudo durante la lezione di total body, che offro a chi amo. Ma per tanto tempo me ne sono sentita prigioniera: mai abbastanza magro, mai abbastanza tonico.
Non voglio essere bella, non è questo. Non lo sono e non lo sarò mai. Voglio solo che questa carne mostri quel che sono davvero, il tramite che ho scelto di mostrare al mondo per dire: eccomi, sono io, e in qualche modo sono unica.
Sono stati pochi secondi, il tempo di consumare lo spazio tra il marciapiedi e il corridoio della Facoltà. Ma è durato un’eternità. E mi è piaciuto.

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Palestra

I.
Madri snaturate

Sono nello spogliatoio, e mi sto cambiando. Il mio turno coincide con quello delle bambine di danza, per cui incrocio sempre mamme con prole. Stavolta si tratta di due bambine, di cui una, bionda e ricciolina, che avrà un paio di anni.
Le sorrido, e – sorpresa – lei mi ricambia con un sorriso amplissimo.
Lei: “Come ti chiami?”
Io, piacevolmente stupita dalla sua intraprendenza: “Licia. E tu?”
Lei: “Francy”
Io: “Francesca? Che bel nome! Il mio papà si chiama così. E quanti anni hai?”
Lei: “Due”
Io: “Sai che io ho una bimba che ne ha uno? È più piccolina di te”
Lei: “È un maschio?”.
La mamma borbotta qualcosa su Francy che non si fa mai i fatti suoi, ma tutto sommato è divertita dalla scena.
Io: “È una femminuccia, si chiama Irene”
Lei: “E adesso dove sta?”
Io: “Con la nonna”.
lei: “E il papà?”
Io: “A lavoro”
A questo punto interviene la mamma.
“È che lei non è abituata all’idea dei bimbi che stanno coi nonni. Lei i nonni ce li ha lontani”.
È un commento semplice, tanto per fare quattro chiacchiere, non ha implicazioni di sorta. Ma nella mia testa si apre una finestra tipo Windows, ed è la fine.
Ecco. Il papà sta a lavoro, e vabbeh, è giustificato. Ma la mamma sta qua a fare palestra. È questo che starà pensando quest’altra mamma: che io lascio la figlia alla nonna per venire in palestra. Sono una madre snaturata… e via così di autoflagellazione in autoflagellazione.
Avoja a fare le donne emancipate e di mente aperta. Certi stereotipi te li ficcano in testa con tanta forza e per così tanto tempo che non adeguarsi è pressoché impossibile.

II.
Potenza del TG1
La bimba è uscita. Io prendo le ultime cose dalla borsa: asciugamano, acqua, chiave dell’armadietto. Davanti a me una ragazza più o meno mia coetanea.
Lei: “Scusa…presentazione…libro?”
C’è la musica, per cui colgo solo queste parole. Cerco di metterle insieme in qualcosa di compiuto e giungo alla conclusione che mi sta chiedendo se possa avermi visto a qualche presentazione. Sorrido un po’ timida.
Io: “Sì può essere”
Lei: “Sì, domenica scorsa”.
Resto perplessa. Non faccio presentazioni da due mesi, e domenica scorsa sono rimasta a giacere sul divano fino a compenetrarmici, per cui non vedo come possa avermi visto da qualche parte.
Io: “Ti ricordi dove?” continuo fingendo di aver capito.
Lei: “Eh, non mi ricordo…era una trasmissione sui libri…”
E finalmente ci arrivo. Domenica scorsa hanno mandato in onda la mia breve intervista per il TG1.
Io: “Ah, sì, è stato al tg1. L’hanno vista tutti tranne me” e via di breve conversazione sulla cosa, con complimenti e chiacchiere varie.
Non pensavo che quel minuto e mezzo sarebbe stato visto da tutta ‘sta gente. No, perché è tipo la decima persona che si complimenta. Mi hanno vista in osservatorio, mi hanno vista i parenti, mi avete vista voi…È un po’ come quando feci un’intervista per Tu. D’improvviso tutti l’avevano letta. Potenza del TG1…

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Entomofobia

Premessa
Ho paura degli insetti e dei ragni. Non c’è una ragione. Lo so che sono innocui, ma la molteplicità delle loro zampette mi inquieta nel profondo. Non riesco neppure ad ucciderli. Se me ne trovo uno davanti, tipicamente urlo, poi chiedo aiuto a qualcuno. Se non c’è nessuno, scappo.
È assurdo e illogico, non è che non lo sappia. Però è così. Per dire, io non capisco chi ha paura dei topi, o dei serpenti. Io li trovo carini. Gli insetti no. Gli insetti sono Il Male.

Scena
Esterno giorno. Gabbiotto della sicurezza all’ingresso di un ente di ricerca. Sto ritirando la carta di identità, che bisogna lasciare all’ingresso per avere il pass. La guardia prende il pass, cerca la mia carta d’identità, me la porge. La prendo in mano e vedo qualcosa, qualcosa di grigio, tondo, e orribilmente plurizamputo. Inizio a muovermi coma una tarantolata, tenendo la carta d’identità per un bordo e scuotendola a più non posso, mentre emetto suoni tra il mugolio e il gemito. Spazzarlo via con un dito, qualsiasi cosa sia, è fuori discussione, o se ne va così o non lo so. Gli lascio la carta d’identità, probabilmente.
La cosa procede così, con l’uomo del gabbiotto che si sta chiedendo se non sia epilettica o giù di lì, finché non emerge lui. Il salvatore. Uno. Uno qualsiasi. Un uomo.
Io: “Aiut’…”
Uomo: mi guarda senza capire.
Io: tenendo la carta d’identità per un microscopico lembo, porgendola al Salvatore e girandomi con la testa dall’altra parte “Ho problemi con gli insetti, mi può aiutare?”
Uomo: mi guarda interrogativo.
Io: “C’è un ragno, io li odio, mi dà una mano?”
Uomo: finalmente prende la carta d’identità, la guarda tranquillissimo, me la mostra “Non è un ragno”
Io: ad almeno tre metri dalla bestia malefica “…no?!…”
Uomo: serafico “No, è un piccolo scarafaggio”. Poi, come solo gli Eroi sanno fare, unisce indice e pollice e con una schicchera delicata ma decisa caccia l’invasore. Mi porge la carta d’identità sorridendo.
Io: sorridendo di rimando “grazie”.
E lì mi rendo conto. Della stratosferica, catastrofica, ineguagliabile figura di cacca che ho appena fatto. Una donna adulta. Una Madre. Una – ahimé – quasi trentenne. Che si fa battere da un fottuto scarafaggino.
Non so, a volte penso che dovrei farmi vedere da uno bravo.

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