Sabato 15 ottobre, mentre a Roma andava di scena la rivoluzione, io ero ad un matrimonio. E non un matrimonio qualsiasi, ma quello della mia migliore amica del ginnasio. Eravamo inseparabili. Passavamo i pomeriggi insieme, ci dicevamo tutto, condividevamo sogni e amori. Ci facevamo anche grandi promesse che saremmo rimaste sempre amiche, che non ci avrebbe mai separato nessuno. Poi, come mi è successo troppe volte nella vita, è arrivato il tempo: siamo cambiate, siamo cresciute, e lentamente ci siamo allontanate. Mi sono trovata un nuovo amore, praticamente antitetico al ragazzo che mi piaceva al ginnasio, sono diventata sempre più la piccola snob E.A.M. (Estranea Alla Massa, come scrivevo sul mio diario con una prosopopea che si può perdonare solo perché ero una ragazzina) che tanti ragazzi sono a quell’età lì e ci siamo perse di vista. Dopo il mio trasloco – prima vivevo nella casa di fianco alla sua – ha dato il colpo di grazia al nostro legame, e ci siamo un po’ perse di vista.
Il suo matrimonio per certi versi è stato un’esperienza lisergica. Al ristorante, schierato in fila, c’era il mio passato. Le figlie del mio vicino di casa, che ricordavo bambine, sono diventate due bellissime giovani donne, che per di più mi leggono anche. La madre stentavo a riconoscerla, sembrava un’altra persona. I bambini erano tutti diventati ragazzi, le persone anziane erano tutte appesantite. E io mi sentivo invece ferma ad un’altra epoca. Sebbene tutto fosse così disperatamente cambiato, avevo l’impressione di essere tornata indietro nel tempo. Io ero ferma a sette anni prima, quando avevo traslocato. O forse a prima ancora, a quando ero una ragazzina tremebonda delle superiori, infagottata in camicie extralarge e con l’apparecchio ai denti. Perché tra tutti gli invitati c’era proprio lui, il ragazzo che mi piaceva al ginnasio.
Non lo vedevo da quasi quattordici anni. In quattro anni in cui abbiamo calcato lo stesso pavimento in linoleum, nel nostro liceo, avremo parlato quattro volte. Le ho tutte registrate sul mio diari dell’epoca, un’orrenda agenda di un begiolino senza personalità. Se mi sforzo, riesco a ricordarmele una ad una. E ricordo le sensazioni che provavo all’epoca, la paura e l’eccitazione di quella prima cotta senza speranza, che mi sembrava la cosa più grande e importante del mondo.
I ricordi che ho di lui si fermano al ginnasio: al liceo avevo già iniziato la mia storia tira e molla col violinista, e di quel ragazzo che mi piaceva solo pochi mesi prima mi ero completamente dimenticata. Non so neppure esattamente dove stesse e cosa facesse mentre io consumavo tutto il rito classico della prima dichiarazione, il primo bacio, la prima delusione d’amore.
Ebbene, per un attimo, quando l’ho intravisto nella folla, mi è sembrato identico ad allora. Ed è stata quest’illusione a farmi sentire per un istante solo in imbarazzo come allora. Pochi secondi, e il tempo si è ripiegato su se stesso. Come allora lui mi ignorava, come allora io mi sentivo in imbarazzo. E poi…e poi niente. Poi passato e presente hanno ripreso ciascuno il loro posto: lui è invecchiato, come me, del resto, e io ho preso tutta un’altra strada, io non sono più la stessa persona di prima. Ho ricominciato a fare foto, come mio solito, sono tornata ad ossessionarmi col cibo – mangio troppo, queste quante calorie saranno, guarda che cosce che mi ritrovo – ho seguito Irene nel parco, ho baciato Giuliano tra i castagni.
All’epoca, eravamo tutti assetati di giustizia, eravamo convinti che avremmo fatto la rivoluzione, e ci infervoravamo alle assemblee d’istituto. Sfilavamo alle manifestazioni, e a volte finiva male. Proprio come i ragazzi che in quello stesso istante, mentre noi celebravamo quel matrimonio, le stavano dando e le stavano prendendo in piazza. Di tutta quella rabbia, di tutto quel desiderio di essere diversi, era rimasto solo il cerchietto strano che indossavo quel giorno, quello con “l’uccello morto”, come lo chiama affettuosamente Giuliano. Il mio tributo ad un’epoca lontana mille e più anni. Resta qualcosa di quel che è stato, di quel che eravamo? Io credo di sì. Quella rabbia, diversa, più adulta, me la porto ancora dentro, e sarà sempre con me. In un angolo della mia mente, nei miei cappelli, nelle mie scarpe colorate, in quel che scrivo, sono ancora la ragazzina che un giorno si alzó in piedi in assemblea – era la prima volta che lo faceva – ed ebbe il coraggio, col cuore a mille, di dire qualcosa che nessuno, lì dentro, condivideva. E come allora, mi prendo i fischi, tiro le maniche della camicia a coprire le mani, ma non smetto di credere che le parole sono armi.