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Amarcord

Sabato 15 ottobre, mentre a Roma andava di scena la rivoluzione, io ero ad un matrimonio. E non un matrimonio qualsiasi, ma quello della mia migliore amica del ginnasio. Eravamo inseparabili. Passavamo i pomeriggi insieme, ci dicevamo tutto, condividevamo sogni e amori. Ci facevamo anche grandi promesse che saremmo rimaste sempre amiche, che non ci avrebbe mai separato nessuno. Poi, come mi è successo troppe volte nella vita, è arrivato il tempo: siamo cambiate, siamo cresciute, e lentamente ci siamo allontanate. Mi sono trovata un nuovo amore, praticamente antitetico al ragazzo che mi piaceva al ginnasio, sono diventata sempre più la piccola snob E.A.M. (Estranea Alla Massa, come scrivevo sul mio diario con una prosopopea che si può perdonare solo perché ero una ragazzina) che tanti ragazzi sono a quell’età lì e ci siamo perse di vista. Dopo il mio trasloco – prima vivevo nella casa di fianco alla sua – ha dato il colpo di grazia al nostro legame, e ci siamo un po’ perse di vista.
Il suo matrimonio per certi versi è stato un’esperienza lisergica. Al ristorante, schierato in fila, c’era il mio passato. Le figlie del mio vicino di casa, che ricordavo bambine, sono diventate due bellissime giovani donne, che per di più mi leggono anche. La madre stentavo a riconoscerla, sembrava un’altra persona. I bambini erano tutti diventati ragazzi, le persone anziane erano tutte appesantite. E io mi sentivo invece ferma ad un’altra epoca. Sebbene tutto fosse così disperatamente cambiato, avevo l’impressione di essere tornata indietro nel tempo. Io ero ferma a sette anni prima, quando avevo traslocato. O forse a prima ancora, a quando ero una ragazzina tremebonda delle superiori, infagottata in camicie extralarge e con l’apparecchio ai denti. Perché tra tutti gli invitati c’era proprio lui, il ragazzo che mi piaceva al ginnasio.
Non lo vedevo da quasi quattordici anni. In quattro anni in cui abbiamo calcato lo stesso pavimento in linoleum, nel nostro liceo, avremo parlato quattro volte. Le ho tutte registrate sul mio diari dell’epoca, un’orrenda agenda di un begiolino senza personalità. Se mi sforzo, riesco a ricordarmele una ad una. E ricordo le sensazioni che provavo all’epoca, la paura e l’eccitazione di quella prima cotta senza speranza, che mi sembrava la cosa più grande e importante del mondo.
I ricordi che ho di lui si fermano al ginnasio: al liceo avevo già iniziato la mia storia tira e molla col violinista, e di quel ragazzo che mi piaceva solo pochi mesi prima mi ero completamente dimenticata. Non so neppure esattamente dove stesse e cosa facesse mentre io consumavo tutto il rito classico della prima dichiarazione, il primo bacio, la prima delusione d’amore.
Ebbene, per un attimo, quando l’ho intravisto nella folla, mi è sembrato identico ad allora. Ed è stata quest’illusione a farmi sentire per un istante solo in imbarazzo come allora. Pochi secondi, e il tempo si è ripiegato su se stesso. Come allora lui mi ignorava, come allora io mi sentivo in imbarazzo. E poi…e poi niente. Poi passato e presente hanno ripreso ciascuno il loro posto: lui è invecchiato, come me, del resto, e io ho preso tutta un’altra strada, io non sono più la stessa persona di prima. Ho ricominciato a fare foto, come mio solito, sono tornata ad ossessionarmi col cibo – mangio troppo, queste quante calorie saranno, guarda che cosce che mi ritrovo – ho seguito Irene nel parco, ho baciato Giuliano tra i castagni.
All’epoca, eravamo tutti assetati di giustizia, eravamo convinti che avremmo fatto la rivoluzione, e ci infervoravamo alle assemblee d’istituto. Sfilavamo alle manifestazioni, e a volte finiva male. Proprio come i ragazzi che in quello stesso istante, mentre noi celebravamo quel matrimonio, le stavano dando e le stavano prendendo in piazza. Di tutta quella rabbia, di tutto quel desiderio di essere diversi, era rimasto solo il cerchietto strano che indossavo quel giorno, quello con “l’uccello morto”, come lo chiama affettuosamente Giuliano. Il mio tributo ad un’epoca lontana mille e più anni. Resta qualcosa di quel che è stato, di quel che eravamo? Io credo di sì. Quella rabbia, diversa, più adulta, me la porto ancora dentro, e sarà sempre con me. In un angolo della mia mente, nei miei cappelli, nelle mie scarpe colorate, in quel che scrivo, sono ancora la ragazzina che un giorno si alzó in piedi in assemblea – era la prima volta che lo faceva – ed ebbe il coraggio, col cuore a mille, di dire qualcosa che nessuno, lì dentro, condivideva. E come allora, mi prendo i fischi, tiro le maniche della camicia a coprire le mani, ma non smetto di credere che le parole sono armi.

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vento

Scendo dalla macchina tra il rassegnato e l’affaticato. Ho fatto palestra, e mi sento ancora la stanchezza addosso. Mi avvio attraverso il parcheggio dell’università a capo chino. Poi, mentre mi avvicino al viale alberato, alzo gli occhi. Manco da solo un giorno, ma già tutto è cambiato: il giallo dei platani è vivo, intenso. Poi, un colpo di vento. Le foglie si staccano, rotolano a terra, mi tagliano la strada, come un’onda di risacca quando c’è mareggiata. Per un istante mi sembrano vive, e rimango ferma e guardarlo passare, questo mare d’autunno. Sorrido tra me e me, mentre il vento di quieta, le foglie si fermano. È che a volte semplicemente ci dimentichiamo di cercarla, la bellezza.

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Guerra – Pace

Art 11 della Costituzione

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Bel modo di festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia, con una bella guerra. Perché siamo in guerra, inutile starcela a menare.
Il potere dice: era necessario per salvare la popolazione civile dai bombardamenti di Gheddafi. Sarò tarda io, ma non ho mai capito come altre bombe possano salvare i civili. E ancora: qualcosa dovevamo pur fare. Se bisognava intervenire, occorreva farlo prima e con altri mezzi: con una forza di interposizione dell’ONU, ad esempio, che non si schierasse a favore dell’uno o dell’altro schieramento, ma che semplicemente separasse i contendenti, e magari imponesse elezioni e vigilasse su di esse.
Così semplicemente facciamo quel che è già stato fatto in Iraq: togliamo un dittatore che non ci sta più simpatico per metterci…chi? Chi ci mettiamo? Vedo profilarsi all’orizzonte quel che è già successo a Iraq e Afghanistan: il caos più totale, l’ingovernabilità, per altro ad un tiro di missile da noi.
Senza contare l’ipocrisia del tutto. Perché non andiamo a intervenire anche in Bahrain? Anche lì sparano sulla popolazione. La situazione è diversa. Perché?
E vi dico di più: io l’ho letto il trattato che sancisce i rapporti diplomatici tra Italia e Libia, e ha ragione Gheddafi, l’abbiamo violato. Ma Gheddafi è un dittatore sanguinario. E allora perché ieri gli abbiamo stretto la mano, l’abbiamo invitato da noi con la sua tenda e gli abbiamo offerto cinquecento fanciulle alle quali potesse delirare? Perché abbiamo stretto un accordo con lui?
Questa era la rivoluzione dei libici, espressione di una parte della sua popolazione, e come tale doveva continuare. I dittatori li abbattono i popoli che opprimono, è così che deve funzionare. Adesso è solo un’altra guerra che porterà altro sangue, altra confusione, altra instabilità.
Le immagini che vedo oggi in tv sono le stesse che vidi ventuno anni fa, quando ero ancora una bambina. Era il 1990 e c’era la Guerra del Golfo. Non è cambiato niente.

*****

Benché i giornali inizino già a dimenticarselo, il Giappone permane in una situazione di estrema prostrazione e di emergenza, e non solo per la questione Fukushima, ma soprattutto per il terremoto e lo tsunami. Io penso ancora a Tokyo, ci penso da dieci anni.
Lara Manni ha promosso questa iniziativa: si tratta di un blog che contiene al momento sessanta racconti scritti da professionisti e non. Alcuni sono stati redatti per l’occasione, e parlano in qualche modo del Giappone, altri no. Quel che vi chiediamo è di fare un’offerta a Save the Cildren, che in questo momento si sta occupando anche di Giappone. Donate quel che volete, anche pochissimo, ma, se potete, fatelo.
Due parole sul mio racconto. Non è stato scritto per l’occasione, ma è una cosa che avevo buttato giù nel 2007 per I Confini della Realtà. L’idea è ancora più vecchia. Mi venne in mente un giorno in aereo: stavo iniziando a sconfiggere la mia paura di volare, ma ancora non mi sentivo esattamente tranquilla a volare. Come sapete, nell’antologia poi ci finì Nulla Si Crea, Tutto Si Distrugge, e questo racconto qui finì nel cassetto. Mi è venuto in mente appena sono stata contattata per questa iniziativa. L’ho rimesso a posto sabato, ho riscritto alcune parti, ho completamente cambiato la scansione degli eventi e infine l’ho spedito. Non so se sia adeguato o meno all’occasione, visto che non parla né di Giappone né di terremoti, ma in qualche modo non ha mai smesso di parlarmi dal 2007, chiedendomi di essere messo a posto, e di essere letto. Mi appartiene molto, quando e se lo leggerete capirete perché.
Intanto, grazie a tutti.

Autori per il Giappone

P.S.
Non ce l’ho detto esplicitamente, ma ovviamente sono ben graditi i commenti sul racconto, eh? :)

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The birds

Da ragazzina vidi Gli Uccelli di Hitchcock. Mi piacque molto, a tutt’oggi è uno dei miei film preferiti, ma ovviamente mi lasciò anche abbastanza turbata. Voglio dire, è un film che inquieta, l’idea che creature ritenute sostanzialmente innocue come gli uccelli d’improvviso impazziscano e si mettano ad attaccare gli uomini tocca corde profonde. Comunque, quel film ha modificato il mio immaginario. Roba che quando vedo gli uccelli appollaiati sui fili dell’alta tensione, resto sempre un po’ in allerta.
Ora, a Roma c’è il problema degli storni. Credo sia una cosa che riguarda un po’ tutte le grandi città. Gli storni si muovono in grossi stormi, e mi pare siano anche abitudinari, perché la sera hanno l’abitudine di riunirsi sempre nello stesso posto. Quando ero ragazzina erano di stanza a Termini. Per me casino di tanti uccelli riuniti e guano come se piovesse significava che ero in centro, visto per altro che in centro ci andavo abbastanza raramente. Poi si sono spostati. C’è stato il periodo Trastevere, se non erro, e un altro paio di zone che ora non ricordo. Da dicembre è arrivato il turno della facoltà di scienze di Tor Vergata.
Quando esco, la sera, rimango assordata. Sono tutti lì, appollaiati sui platani davanti al parcheggio. È uno spettacolo impressionante. Centinaia di uccelli che strillano a tutto spiano appollaiati a grappoli sulle cime degli alberi. Sembrano complottare qualcosa, con quelle loro vocine stridule. E la cosa più impressionante è che ogni tanto si zittiscono. Di botto. Come seguendo un ordine. Tutti zitti per qualche secondo. Poi riprendono.
Li ho sempre trovati bestie inquietanti. Innanzitutto il fatto che si muovano in stormi così grossi. Contano centinaia di uccelli. Quando si spostano formano quelle nuvole cangianti che si vedono in cielo. Anche lì, hanno un comportamento irrazionale. Vanno dritti, poi, bon, girano tutti insieme, poi si fermano e tornano indietro, poi procedono, come se qualcuno gli impartisse degli ordini.
Io lo so che probabilmente funziona che uno o due uccelli d’improvviso stanno zitti, e gli altri lo imitano, e così lo stormo si zittisce tutto. Lo so. Ma non riesco a non guardarli con sospetto. Fermi sui rami, sembrano guardarti. Ormai quello è il loro territorio, non il tuo. Di giorno l’università è il regno degli uomini, ma di notte, quando tutte le luci si spengono, sono loro i padroni.
Così, la sera, quando esco dall’università, li guardo con sospetto, e loro ricambiano. Domattina ci sarà solo il loro guano, e loro saranno andati via, ma so che la sera li troverò di nuovo, pronti a reclamare ciò che gli spetta.

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Intervista col vampiro

In qualche modo, la sento. Forse una vibrazione dell’aria, una nota acuta che si alza sul ronzio di fondo del condizionatore, sullo scricchiolio dei mobili di casa. Apro gli occhi e lei è davanti a me.
A differenza di quanto si dice in alcuni libri, non è bella. Ma magra sì, sottile e sfuggente. Il suo corpo è progettato apposta per la caccia. Tutto in lei è finalizzato allo scopo, la sua vita sottile, il suo viso affilato. Milioni d’anni d’evoluzione hanno forgiato il suo fisico perché riesca a fare al meglio quel che la tiene in vita: succhiare sangue.
La guardo tra il rassegnato e il disperato.
«Ancora…».
La mia carne porta i segni degli ultimi pasti, una geografia tracciata dagli attacchi notturni e diurni. E sono stanca.
«Ancora» dice lei, una semplice constatazione.
Getto lo sguardo verso la porta della camera di mia figlia.
«Almeno risparmia lei».
«Sei tu che mi interessi».
Affondo la testa nel cuscino.
«Non ne hai abbastanza? Notte dopo notte?».
«Lo sai che è così che sopravvivo».
«Non è giusto. Non è leale».
Lei si appoggia alla sponda del letto.
«Potrei dire lo stesso anch’io. Cosa credi, che mi piaccia rischiare la vita ogni notte? So che è più facile attaccarvi all’aperto, quando neppure riuscite a vederci. Ma avevo fame, cosa dovevo fare? È la natura. Ci sono prede e predatori. In fin dei conti anche tu uccidi per vivere, o no?».
Certo. Eppure sento lo stesso che non è giusto. Penso ai poveri strumenti che ho messo in atto per tenere lontana lei e i suoi simili, là sulla sponda del letto. Ma le dicerie e le leggende non funzionano, e ancora più è impotente la scienza. Per quanto abbia cercato di proteggermi, sono di nuovo inerme davanti a lei.
«Come sei entrata?».
Sorride.
«Segreti del mestiere».
«Dalla porta? Dalla finestra? Attaccata ai miei vestiti?». Insisto. Voglio sapere dove ho sbagliato, dov’è la mia colpa, e se c’è qualcosa, in futuro, che potrò fare per proteggermi. Mi domando se è qualcosa nel mio sangue, nel mio odore, se sono nata così. Ma so che questa cosa, come tante altre della vita, è dominata dal caso; trovarsi in un luogo piuttosto che in un altro, andare a letto un po’ prima, o un po’ dopo. Non c’è davvero nulla che possa fare.
«Lo sai che ti ucciderò» dico.
«Provaci» mi sfida lei.
Ma sono stanca. Gli occhi mi so chiudono, il caldo mi ha fiaccata. Ha ragione lei. Non ho le forze per ingaggiare un’altra battaglia, e comunque il risultato è incerto. Provaci. Già, ha proprio ragione.
«Fa’ quel che devi, ma promettimi due cose: che non andrai di là» e indico la stanza di Irene, «e che poi mi lascerai dormire».
«Come vuoi» dice con noncuranza. E io mi abbandono sul letto, la pelle esposta.
Si alza bisbigliando dalla sponda del letto, si posa piano sulle gambe. Le preferisce, non so perché. Come sempre, non sento il suo tocco. Infila il pungiglione nella pelle, e quel che sento è solo la sua saliva urticante, e una sensazione tra il bruciore e il prurito. E poi il ponfo che si gonfia.
Lei sarà di parola. Pungerà solo me tutta la notte, e se ne andrà ronzando all’alba, a nascondersi in chissà quale anfratto di casa mia, o forse via, verso altre casi, altri pasti.
Fottute zanzare, ma mi volete lasciare in pace sì o no?

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Il mio vecchio quartiere

Andare in palestra nel mio vecchio quartiere mi offre spesso il destro per qualche post. È che sono ancora legata a quel posto, e tornarci mi stimola sempre qualche riflessione.
Intendiamoci, sono contenta di essermene andata da lì. Ho bei ricordi, ma anche alcuni meno piacevoli, e vivere in un posto un po’ più ordinato e meno degradato mi fa parecchio piacere. Ma la mia infanzia l’ho vissuta sempre lì, per cui, volente o nolente, quel luogo mi appartiene ancora.
Per dire, mi sono sempre chiesta chi ha scelto i nomi delle strade. Si rifanno tutti alla mitologia greco-romana. Mi domando chi abbia avuto l’idea di chiamare le vie coi nomi di dei ed eroi in uno dei quartieri più popolari della città, con un livello culturale degli abitanti medio-basso. Per altro con chicche di inaspettato romanticismo, tipo mettere vicine Via Endimione e Via Selene. Non so se sia stato un caso, o ci fosse un grigio impiegato statale che ha preso la decisione, in un impeto di orgoglio umanistico, in memoria della sua laurea in lettere che prende polvere in un cassetto di casa. E non solo riempie quelle vie sbilenche e strette, costruite come capitava tra grappoli di case abusive, di Centauri, Coribanti, e poi Atteone, Merope, Laerte, pescando anche nei miti meno conosciuti, ma fa anche la finezza di mettere assieme i personaggi legati da qualche storia. Me lo immagino come un ometto triste e un po’ folle, uno che non ha rinunciato a mettere un pezzetto di poesia persino in mezzo al cemento, un indizio che in pochi sapranno decifrare, tra casermoni, garage stipati di cinesi al lavoro e appartamenti pieni di immigrati clandestini.
Poi c’è il matto grafomane. Che prima ha iniziato a colonizzare Tor Bella Monaca, poi s’è pian piano spostato verso Torre Angela. Lo riconosci perché per le scritte sui muri usa sempre la stessa bomboletta azzurra. E poi non scrive in stampatello. Scrive in corsivo, con una calligrafia nervosa e affrettata, come se avesse urgenza di mandare il suo messaggio. Le scritte in genere sono lunghe, e piene di volgarità. Se la prende con immigrati, donne, politici e via così. La grammatica è approssimativa.
Non riesco ad avercela con lui. In fin dei conti è uno xenofobo che imbratta i muri della città. Invece mi interessa come personaggio. Perché passa le notti a scrivere la sua verità sui muri? Tutti quegli insulti glieli sussurra una qualche voce interiore? Li riceve in sonno, come una specie di oracolo moderno?
Lo vorrei conoscere. Mi sembra uno non molto a posto con la testa, me lo immagino avvolto in un qualche impermeabile stazzonato come nei migliori stereotipi del maniaco di quartiere. Avrà lo sguardo sfuggente, e soffrirà di una qualche forma di incontinenza verbale. Parlerà a ripetizione, fermandosi solo per tirare dalla sigaretta. I matti fumano spesso. È una delle mie poche certezze.
Però c’è qualcosa di poetico in questa sua ansia di comunicare. Qualcosa in cui in fin dei conti ci riconosciamo. Voglio dire, un matto è solo uno che soffre delle paranoie della gente “normale” all’ennesima potenza. Tutti abbiamo i nostri rituali quotidiani. Io conto di continuo. Oppure, quando cammino sui lastricati, cerco di non calpestare le linee di connessione tra le mattonelle, o regolarizzo il mio passo sul ritmo dei lastroni. Suppongo sia più o meno normale. Ma poi c’è quello che ha la sfiga di soffrire di disturbo ossessivo compulsivo, che non è altro che il mio piccolo rituale ingigantito a dismisura, fino a diventare qualcosa di imperativo, una successione di gesti cui non puoi sottrarti e di cui diventi schiavo. Oppure, tutti quando ci affacciamo ad un balcone proviamo l’istinto di buttarci giù. Poi c’è quello che si suicida.
Il mio matto delle scritte è solo uno che vuole comunicare. Ma forse nessuno lo sta a sentire, forse ha la testa così piena di cose che ormai gli è impossibile tirarle fuori, come un collo di bottiglia troppo stretto, che non fa passare tutta l’acqua che c’è sopra. E allora riempie i muri dei suoi deliri. Che, a pensarci bene, non è poi tanto diverso da chi tiene un blog, o scrive un libro.
È interessante vedere come, con un po’ di spirito di osservazione e fantasia, anche un brutto quartiere di periferia si possa popolare di figure mitiche e un po’ misteriose.

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Una sera al cinema

Sabato sera mi volevo rilassare. Era un vita che non andavo a cinema, per cui mi sembrava che andare a vedere un film fosse un buon modo. Per altro c’era Watchmen che volevo assolutamente vedere, e sabato, per una serie di impegni incrociati, era l’unico momento in cui potevo farlo. Per cui nulla, sono andata.
La serata era iniziata bene che con un buon sushi che mi aveva favorevolmente predisposta. E anche il film era iniziato bene, mi stava piacendo, stavo apprezzando musica e sceneggiatura, quando è apparso il Dr. Manhattan. Che, come saprà chi ha visto il film, è nudo.
Ora, sebbene a trent’anni uno ormai di peni dovrebbe essere esperto e non dovrebbe più scandalizzarsi alla vista degli organi genitali, ci può anche stare che, a bassa voce, per fare lo splendido coi tuoi amici, tu faccia un commento salace sugli attributi del Dr. Manhattan, e ti conceda una sottile risatina.
Peccato che i tre coglioni dietro di me, e i tre affianco, abbiano iniziato a ridere sguaiatamente.
Poi, davanti al Comico che va a piangere da Moloc, si concedono un’altra crassa risata, perché al Comico cola il naso.
Da questo punto in poi è un tripudio. Una risata in ogni punto in cui non c’è nulla da ridere. Corpo esploso. Risata. Rorschach in galera. Risata. Ah, e il Dr. Manhattan nudo. Risata. Ogni volta.
Stavo per alzarmi e chiederglielo: “Ma la tua è invidia del pene? No, perché sennò non capisco”.
Ho iniziato a desiderare alzarmi e andarmene a metà film. Ho iniziato ad avere istinti omicidi dieci minuti dopo.
Perché le ipotesi sono due. Sei un fine intellettuale, il film ti sta facendo cagare e il modo per esprimerlo è sbeffeggiarlo. Perfetto. Vallo a fare a casa tua. Alzati e vattene. Giusto per lasciare agli altri il gusto di guardarselo fino alla fine, il film.
Oppure sei uno stupido. Un coglione che non sta capendo una benemerita della storia e di tutto il resto. E allora contieniti. È anche una questione di educazione.
La deficienza ormai ha preso il potere. Quella sala di cinema è immagine del mondo. Il mondo è così. C’è chi vorrebbe capire, interpretare, e magari poi alla fine schifare, ma nei limiti dell’educazione, senza rompere le balle agli altri. E chi invece ride, e non fa altro. Non capisce un cazzo, e quindi ride, perché gli hanno detto che lo può fare, e allora lo fa. E se ne frega di pestare i piedi agli altri, perché non gliene frega proprio niente di dar fastidio.
Non è la prima volta che vado a cinema e trovo degli imbecilli che rovinano il film. Ricordo la simpaticona che mi stava dietro quando andai a vedere Neverland, e passò le due ore di film, su ogni primo piano di Kate Winslet, a indicare la sua collana e dire sempre la stessa cosa: “Ahò, ma c’ha ‘na collana de cazzi!”.
Così per cinquanta volte.
E io sono proprio stanca della deficientocrazia, per cui a governare è la bassa reazione “de panza”. La crassa risata che non è sberleffo del potente, arguta critica, o anche, cazzo, consapevolezza dell’assurdità del mondo. No, è il riso del bimbo che si diverte a ripetere “cacca, cacca, cacca”. E questi qui poi ci governano, perché la sottocultura è proprio la stessa, e il rispetto del prossimo idem.
Vabbeh, sarò io che esagero.
Per sdrammatizzare, vi incollo una cosa che scrissi sui sei, sette anni fa, proprio dopo aver visto Neverland. Niente più che un divertissement, una cosa gore, ma che tutto sommato vorrebbe essere anche ironica. E vi rassicuro: sabato sera non ho neppure protestato. Son stata lì a subirmi le risate. Perché tutto sommato non vale la pena, perché essere educati significa pure questo.

Qui sono tutti shockati. Vedeste come mi guardano. Sconvolti. Io sinceramente non capisco. E appena vi avrò raccontato non capirete manco voi. Perché, giuro, io non sono pazzo. Mi giravano solo le palle. Cazzo, capita a tutti, no? Ecco, a me è capitato, ma invece di starmene lì a rodermi in solitudine, ho agito. Suvvia, a tutti voi è capitato uno stronzo qualsiasi che vi rompesse l’anima, uno il cui senso all’interno del cosmo proprio non capivate, magari anche più d’uno. Uno che vi siete detti: a poterlo fare gli staccherei la testa a morsi. Ecco. A morsi ve lo sconsiglio, ci rimettete i denti e la soddisfazione è bassa. Ma con una bella accetta, invece… Ok, ok, devo andare in ordine, altrimenti come niente mi dite che divago, che non ragiono, perché invece sono lucidissimo, lucidissimo, giuro! C’è della logica, e tanta, in quel che vi dico, vedrete! Ero andato a cinema. Era stata una giornata di merda, tra mia moglie e le sue solite recriminazioni, e la marmocchia che urlava come un’ossessa. Mi sentivo un trapano nel cervello, un chiodo fisso nella tempia. E sono andato a cinema. Sì, non fate quelle facce. Io mi rilasso così. A cinema. Ok? A me il mal di testa passa così. Nel buio della sala a spettacoli in cui possibilmente vadano pochi scassapalle. Che poi, scassapalle sono tutti gli altri spettatori tranne me. Io ne capisco di cinema, lo sapete? Da ragazzino avevo pensato di fare il critico. Scrissi un paio di articolini. Comunque, ho il mio essai di fiducia. Un posto che a guardarlo è indegno. Una saletta minuscola. Le poltrone di una scomodità folle. Però mi piace. Fa roba che altrove non si trova. E c’è sempre poca gente. Era sul tardi. Saranno state le dieci-undici quando sono entrato in sala. Gli Uccelli di Hitchcock. Goduria. L’ho visto un miliardo di volte, ma ogni volta mi prende come la prima. Quando vedo Tippi Hedren che si fuma la sua bella sigaretta in panchina, mentre dietro di lei i corvi si radunano a frotte, mi piglia sempre il brividino. Per un po’ è andato tutto bene, e il chiodo piano piano stava smettendo di trapanarmi la testa. Poi sono arrivati questi due. Due coglioni. Due teste di cazzo. Due…non so manco io come definirli. Col pop corn in mano. Comprato fuori, perché nel MIO cinema non ne fanno di queste assurdità. E hanno iniziato a sgranocchiare, facendo un casino della malora. Sul silenzio perfetto e sublime di certe scene, c’era il rumore volgare delle loro mascelle di microcefali che mangiucchiavano. Sentivo il pop corn che cadeva per terra, sulle poltrone, e le manine sudice e unte che ravanavano nella busta di plastica. Ma sopportavo. Sono una persona calma e posata, io. Poi hanno cominciato a commentare. A fare battute del cazzo, mentre ridevano sguaiatamente. Non ci pensare. Non li stare a sentire. Tu sei come Buddha, imperturbabile da queste merde. Ma loro continuavano, e continuavano, e il trapano è tornato, cazzo, è tornato prepotente, violento, e adesso sentivo pure i loro denti che scricchiolavano, e l’aria che entrava e usciva dai polmoni, ogni fottuto rumore che facevano. E poi la goccia. “Che film di merda”. Mi sono alzato con calma. Il trapano s’era fermato di botto, e io ero calmo, giuro, come adesso. Vedi la mano? Ferma. Dio com’ero lucido. La lucidità dell’angelo vendicatore. Sono sceso per il corridoio e sono arrivato all’angolino che sapevo. In quel posto non ci sono uscite di sicurezza. Però affianco alla porta c’è un’ascia. Dietro un vetro. E’ bastato un pugno, li fanno apposta perchè si scassino a volo. “Scusi, ma che diavolo…”. Era la maschera. Un tipo simpatico. Mi sorrideva sempre. Infatti un po’ m’è dispiaciuto. Gli ho fatto volare la testa sotto lo schermo. Così. Non ha manco finito la frase. Era buio, ma di sangue ne è uscito, me ne sono accorto. Voi non potete capire che liberazione. Che sensazione piacevole, il suo sangue sulla mia camicia. Prima caldo, poi freddo. Una goduria. Vi suggerisco di provare. Ma non volevo mica lui. Erano i due stronzi che dovevo castigare. Stavano al loro posto fermi come due coglioni. Gli ci è voluto un po’ anche per gridare. Più o meno il tempo che c’è voluto a me per arrivare fino al primo. Sono agile, molto, facevo atletica da ragazzino, e ancora mi tengo un po’ in allenamento. Zak. Colpo e via una mano. Lo stronzo ha iniziato a gridare come un vitello, ed è cascato nello spazio tra le poltrone. Gli ho dato un colpetto sulla schiena. Così, per non farlo andare via. Poi mi sono buttato sul secondo. Già era arrivato alla porta, il bastardo. Prima gli ho preso una scapola, e lui è scivolato a terra lasciando la sua bella strisciata di sangue lungo la porta. Bellissimo. Poi lì, confesso, non ci ho capito più niente per un po’. Sapete, la foga…Ho cominciato a colpire a caso. Una, due, tre volte. C’erano schizzi di sangue dappertutto, la maggior parte mi finivano addosso. Una pioggia miracolosa. Quando gli ho spaccato la testa doveva essere già morto. S’è aperta come un melone maturo. Stesso rumore di scatola vuota. Il cervello, l’inutilissimo cervello di quell’invertebrato s’è sparso per terra. Sono andato verso l’altro. E il coglione di prima m’ha messo i bastoni fra le ruote. Sono scivolato sulla roba che gli era uscita dal cervello. Ho sparato una bestemmia, ma mi sono alzato in fretta. Quello stava strisciando come un verme chiamando aiuto. Ero già un po’ stanco, e del resto il sacrificio dell’idiota dal cervello viscido m’aveva già abbastanza soddisfatto. L’ho fatta breve: un solo colpo in testa. Gli ho dato giù pesante, perchè un occhio gli è schizzato fuori dall’orbita. Silenzio. Sulla porta, immobile e con gli occhi sbarrati, la signorina che dà i biglietti. Sullo schermo, la scena finale, uccelli ovunque. Ho guardato la tipa, e mi sono sentito davvero pacificato con me stesso. Bellissimo. La pace. “MI scusi per il casino, ma ‘sti qui non mi facevano vedere il film in santa pace…” Solo allora ha trovato la forza di urlare.

53

Così inizia la storia…

PROLOGO

L’uomo in nero avanzò lentamente. Si muoveva sicuro tra i vicoli deserti della città, il cappuccio a coprirgli il volto, il mantello ad accarezzargli gli stivali. Ombra tra le ombre, imboccò deciso la via che sapeva. Aveva fatto qualche sopralluogo, qualche giorno prima. 
L’ingresso era anonimo: una porta di legno, un architrave in pietra. Non ebbe bisogno di vedere il simbolo inciso sulla chiave di volta per sapere di essere arrivato.
Si fermò un istante, conscio che non era quello il suo obiettivo primario, che un’altra era la sua missione.
«Trovarlo è di vitale importanza, mi capisci?» aveva detto Kryss, l’ultima volta che l’aveva visto.
«Lo so» si era limitato a rispondere lui, chinando il capo.
«E allora non ti fermerai finché non l’avrai trovato, e non permetterai a niente e a nessuno di mettersi tra te e il tuo obiettivo».
Kryss lo aveva guardato senza aggiungere altro, perché l’uomo in nero fosse libero di soppesare quel silenzio e riempirlo di sinificati. Ma lui in nero non era tipo da farsi spaventare da così poco.
Trucchetti buoni per chi ti adora come un dio, non per me.
Si era inchinato in segno di rispetto e si era avviato alla porta.
«Ricorda il nostra patto» gli aveva detto Kryss prima che varcasse la soglia.
L’uomo in nero si era fermato un istante. Non potrei mai dimenticarlo, aveva pensato.
E adesso era davanti a quella porta. Avrebbe ancora potuto fermarsi e andarsene. Riprendere la strada e tornare alla sua missione.
Sei pronto anche a questo, per il tuo obiettivo? si domandò, mentre gli occhi indugiavano sulle venature della porta. Non abbe neppure bisogno di cercare la risposta.
Prese un grosso respiro e con lentezza sguainò la spada. Poi diede un calcio al legno, e fu dentro.

Una sala di semplici mattoni, dal soffitto assurdamente basso. Il Veggente lo diceva sempre: «È una sistemazione provvisoria, abbiate pazienza. Ma almeno ci garantisce quella segretezza di cui abbiamo disperato bisogno. Penseremo poi, quando saremo a buon punto col piano, a cercare una sala più dignitosa».
Lo spazio asfittico di quel sotterraneo era rischiarato da una serie di torce infisse nel muro. L’odore di muffa si confondeva con quello acre del fumo. Uomini vestiti di bianco vagavano da una sala all’altra. Sul volto, cupe maschere di bronzo, lisce, con due semplici fori per gli occhi. Porte chiuse, dalle quali provenivano mugolii, e un salmodiare lento, ipnotico. Odore di sangue e magia, sentore di morte. In quel silenzio gravido, lo schianto della porta abbattuta risuonò con la violenza di un’esplosione. I primi Veglianti, quelli più vicini all’ingresso, non ebbero neppure modo di rendersi conto di quanto stava accadendo. L’uomo in nero li falcidiò con un unico, fluido movimento della spada. I manti bianchi si tinsero di rosso, le maschere di bronzo caddero a terra tintinnando. Sotto, i volti contorti dal dolore di un paio di sottotenenti dell’accademia e di un ministro.
Gli altri ebbero il tempo di prepararsi. Chi era armato tirò fuori le spade e combatté, molti corsero a nascondersi, a salvare il salvabile. 
L’uomo in nero sembrava inarrestabile. Del resto, non erano nemici alla sua altezza. Nei lunghi anni di vagabondaggio aveva avuto modo di scontrarsi con ben altri opponenti, e le cicatrici sul suo corpo testimoniavano ciascuna di quelle battaglie.
Ecco la mollezza di un mondo da troppo tempo in pace, pensò con disprezzo. 
Un fruscio alle sue spalle. Non dovette neppure voltarsi. Pronunciò le parole a mezza voce, e una sfera argentata lo avvolse. I pugnali tesi contro di lui rimbalzarono sulla superficie elastica della barriera.
«Un mago…» mormorò con orrore qualcuno.
L’uomo in nero sorrise con ferocia.

Adrass chiuse la porta col chiavistello. Il suo respiro sembrava non trovare la strada che dai suoi polmoni conduceva all’esterno.
Premette il corpo contro il legno, appoggiandovi l’orecchio. Stridio di lame che si incrociavano, urli, tonfi di corpi che cadevano a terra.
Che stava succedendo? Li avevano forse scoperti?
Cominciò a battere i denti. Lottò contro il terrore. No. No. Non era quello che gli avevano insegnato. Era stata la prima lezione, quando aveva messo piede là dentro. 
«Se mai ci scoprissero, cercate di salvare il nostro lavoro. È l’unica cosa che conta, qui. Noi lavoriamo per un progetto più grande, per un fine superiore, non dimenticatelo».
Parole del Veggente. Adrass deglutì. Salvare il nostro lavoro.
Si staccò dalla porta con decisione, e corse verso gli scaffali addossati ad una delle piccole pareti del cubicolo in cui si trovava. Frugò tra le vecchie pergamene, tra gli appunti fitti, stilati nella sua calligrafia minuta ed elegante. Ne mise alcune in una borsa di cuoio, altre le stracciò. Rovistò tra i barattoli e i filtri, tra le ampolle e le erbe. Anni di lavoro. Come si faceva a scegliere cosa salvare nella fatica di una vita in pochi attimi convulsi?
Un mugolio attrasse la sua attenzione verso il tavolo al centro della stanza.
Adrass tornò in sé. Ecco cosa doveva salvare: la creatura. Era l’unica cosa che valesse la pena portare fuori di lì. Lei contava più dalle loro misere vite, più dei loro stupidi studi. Lei era tutto.
Grida di ragazze oltre la porta.
No! Stanno uccidendo anche loro!
Si avvicinò sul tavolo. Sciolse le cinghie di cuoio che trattenevano la creatura, la liberò. La prese rudemente per le spalle, costringendola a tirarsi su.
«Svegliati, forza, svegliati!» le disse, schiaffeggiandole le guance. Ma lei rimaneva inerte fra le sue braccia, gli occhi mezzo chiusi.
Dietro la porta, rumori più violenti. I nemici si stavano avvicinando.
Il cuore di Adrass fece una capriola.
Io morirò, ma il nostro lavoro non andrà perduto. Io morirò, ma il nostro lavoro non andrà perduto… Ripeteva come un mantra la cantilena che gli avevano insegnato quando era diventato Vegliante. 
Se solo collaborasse! si sorprese a pensare con stizza. Perché la creatura non si svegliava?
La tirò via dal tavolo a forza e lei si accasciò al suolo, inerte. Muoveva appena le labbra.
Adrass prese un’ampolla con dell’acqua e gliela versò addosso. Lei trasalì.
«Perfetto, brava, brava…ascoltami». La sollevò per le spalle, la fissò negli occhi, occhi spenti. Forse era troppo presto…Scacciò quel pensiero.
«Adesso ti porto in un posto, d’accordo? Ascoltami!».
Un barlume di vaga comprensione accese lo sguardo della creatura.
«Brava, così».
Uno schianto appena fuori dalla porta. Adrass trasalì. La afferrò da dietro, prendendola per le ascelle, e la trascinò via. Riuscì a raggiungere il pulsante sul muro. Una piccola sezione della parete scattò, rivelando un cunicolo angusto.
«Cerca di star su, ti scongiuro…» gemette.
Si chinò per entrare nel passaggio. La creatura si lamentava, ma finalmente iniziava a muoversi.
«Bravissima, avanti…».
Si trovò a strisciare tra le pareti umide di muschio. Dietro di lui, la creatura avanzava a stento. I rumori della lotta si affievolirono, e il cuore di Adrass rallentò per un attimo la corsa.
Ce la posso fare, ce la posso fare…
«Di qua!» urlò girandosi alla prima biforcazione, poi avanzò ancora un poco, finché non si imbatté in un muro. 
«Eccoci, eccoci» disse più a se stesso che per la creatura. Spinse un mattone con mani tremanti e davanti a lui si aprì una stanzetta minuscola. Afferrò la creatura per un braccio e la spinse dentro. Lei provò a lamentarsi. Quando le sfiorò la guancia, si accorse che era bagnata. Stava piangendo. Il cuore gli si strinse un istante appena. Ricordò le parole del Veggente.
«Le creature sono meri oggetti. Sono gli strumenti della nostra salvezza, e come tali dovete guardarle. Non pensate a loro come a delle persone; non lo sono. Scacciate la pietà e l’affetto che sarete tentati di provare: sono semplici ostacoli al compimento della nostra missione».
Adrass tornò presente a se stesso.
«Ora sta’ in silenzio, chiaro? Resterai qui ad aspettarmi. Non ci metterò molto, d’accordo?».
La creatura annuì debolmente.
«Brava». Adrass si lasciò sfuggire un sorriso. «Non uscire per nessuna ragione».
Poi chiuse la porta di mattoni, e rimase lì davanti per qualche istante. Nessun rumore. Forse la creatura aveva capito. Si concesse qualche momento di riposo. Ora poteva morire in pace. Chissà, forse proprio quell’essere patetico che giaceva là dietro li avrebbe salvati, chi poteva dirlo. Ma lui aveva compiuto il proprio dovere. Rifece a ritroso tutta la strada percorsa. 

L’uomo in nero non si fermò davanti a nulla. Erano anni che non si scatenava così, da quel giorno lontano in cui l’avevano catturato, e aveva fatto la conoscenza di Kryss. La sensazione del suo corpo che si muoveva con precisione, il lieve indolenzimento dei muscoli sotto sforzo, l’odore del sangue…lo inebriavano, lo faceva no sentire bene. 
Uccise tutti, senza distinzione. I soldati e gli uomini di potere, i giovani e i vecchi, le fanciulle, soprattutto le fanciulle. In fin dei conti era venuto per loro. Povere cose nelle mani di quei folli stregoni. Per un istante pensò che stava facendo loro un favore.
Ecco il mondo che hai contribuito ad edificare, Maestro. Forse facesti bene, quel giorno, ad andartene e a ripudiarlo.
Poi, sfondò l’ultima porta. Lui era là dietro. Tra le mani, libri antichi e pergamene. Le sue dita tremavano. Il Veggente, il capo di quella congrega di folli. L’uomo in nero avanzò lentamente. Dietro di lui, la sua spada lasciava una scia di sangue.
«Un uomo solo?» disse il Veggente incredulo.
«Un uomo solo» ribadì lui, con un sorriso truce.
Il Veggente si fece indietro, addossandosi al muro.
«Chi ti manda?».
«Nessuno. E se anche ti dicessi chi è il mio sovrano, non capiresti neppure di chi sto parlando».
Il Veggente tacque per qualche istante.
«Noi stiamo salvando il Mondo Emerso! Perché non lo capite? Date ancora ascolto alle farneticazioni di quella vecchia pazza? Senza di noi sarà il caos, la morte!».
«Del caos e della morte non m’importa proprio niente. E di salvare questo mondo meno ancora».
Nonostante la maschera che ne celava il volto, l’uomo in nero percepì tutto lo sgomento del Veggente.
«Tu sei un folle».
«Forse».
Un unico colpo di spada, e il Veggente si accasciò a terra.
La Congrega dei Veglianti aveva cessato di esistere.

Yep, oggi esce Le Leggende del Mondo Emerso – Il Destino di Adhara

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Oggi vi beccate un’altra memoria dal sottosuolo. La terribile combinazione venerdì/cinema mi ha tolto gran parte della voglia di essere produttiva, e quella che resta è stata convogliata al reparto “lavoro come astrofisica”.
Ho recuperato un vecchio raccontino che scrissi per il Fight Blog. L’argomento della disfida era 13 Marzo 1968. Non mi chiedete perchè fu scelta quella data. Però io, che sono dotata di straordinaria fantasia, mi concentrai più che altro su quel ’68 finale. Fu così che scrissi il mio primo, e probabilmente unico, racconto riguardo il sesso. Non vi fate strane idee. Innanzitutto, nonostante la prima persona, non è autobiografico. O almeno non lo è del tutto. Certo, mentre scrivevo avevo in testa quei pochi giorni di occupazione che feci a scuola nel ’95; non dormii da quelle parti, ma occupai per tipo tre giorni. E ovviamente lo feci perchè da quelle parti c’era un tizio che mi piaceva. Molto. Quindi, il Mamiani del racconto in verità è molto modellato sul Kant.
Secondo, mi sono sono palesemente ispirata a Come Te Nessuno Mai, che per me resta tutto sommato IL film sull’adolescenza.
Del ’68 non so niente, quindi da quel punto di vista il racconto è stra-campato in aria.
Non so, tanto per farvi capire perchè non scrivo mai di sesso :P

Aspiranti Porci con le Ali 

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