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Terra Moscia

Ieri, con un ritardo di un paio di giorni, mi sono vista la quarta puntata di Terra Nova. Parliamo subito degli aspetti positivi: faccio un sacco di esercizio con l’inglese. Sì, perché ci sono attori americani, attori inglesi, tanti accenti…Fossi un insegnante di inglese lo farei vedere in classe. E poi…e poi basta. Fine aspetti positivi.
È che questa quarta puntata è stata davvero brutta, sotto molteplici punti di vista. Il problema è che, visto che siamo ancora alle battute iniziali, uno si aspetterebbe una tensione alta, e un bel po’ di riferimenti alla mitologia della serie. Invece niente, siamo già alla minestra riscaldata. La puntata sostanzialmente ricalca la precedente: se si sostituisce il virus misterioso con la pappa ai feromoni otteniamo la 1×03. Pensateci. La struttura e le tematiche sono identiche: problema, dottoressa + amichetto di vecchia data che collaborano, marito geloso, colpo di genio che porta alla risoluzione del tutto. Con l’aggravante che anche qua i personaggi iniziano a fare cose assurde: per esempio, Elisabeth nota subito che Jim non sta male, ma si dimentica la cosa per tutto il resto della puntata, salvo ricordarsene alla fine. Vogliamo dire che era rincoglionita dal morbo? Insomma, visto che lavora sul vaccino con un certo successo. E magari il marito potrebbe anche farle notare che tirargli un po’ di sangue e capire perché lui non si ammala è un buon punto di partenza. Comunque, qui il problema è più profondo: la serie non capisce quali sono i suoi punti di forza, e continua a concentrarsi sugli aspetti meno interessanti del tutto. Innanzitutto, qualcuno mi spieghi a cosa servono i dinosauri. Ho capito che se ne va un milione di dollari ogni volta che un dinosauro entra di striscio nell’inquadratura, ma se non puoi permetterteli, be’, non ce li metti. Misfits è tutta fatta con due lire, con effetti speciali risibili, ma è quanto di meglio abbia visto nell’ultimo anno. Se decidi invece di metterci i dinosauri, me li devi sfruttare. Perché, diciamoci la verità, la gente ha iniziato a vedere Terra Nova per quello: si aspettava qualcosa stile Jurassic Park, si aspettava tensione, casini a non finire. Invece sulla terra di Terra Nova – perdonate il bisticcio – ci sono meno dinosauri di quelli che c’erano sull’isola di Jurassic Park, e quelli che ci sono o sono dei rincoglioniti o sono innocui. Pensate agli ovosauri che, dovendo scegliere tra una leccata di nichel e un marines pronto a essere divorato, preferiscono…il nichel. Ci fosse mai un tentativo da parte di un carnosauro di sfondare la barriera di Terra Nova. Anche quando i nostri escono dal perimetro sembra che la cosa che li spaventi di più siano i Sixties. Allora, ripeto, non ce li mettere, i dinosauri. In ogni caso, l’ambientazione non è sfruttata per niente. Per dire, siamo nella terra di 85 milioni di anni fa, un posto molto diverso da oggi, che, si suppone, pulluli di virus con cui l’uomo non è entrato mai in contatto. Quindi, se proprio vogliamo parlare della malattia misteriosa, il topos dei topoi degli stereotipi della fantascienza, basta che mi fai starnutire un dinosauro vicino ad un uomo. Voilà la malattia. E invece no. Ci dobbiamo inventare il centro di ricerche che conduce esperimenti illegali sul DNA. Non si capisce poi perché siano illegali, visto che il tizio che li conduceva stava cercando una cura per una specie di Alzheimer. Cos’è, a Terra Nova per legge occorre schiattare per il morbo di Gordon o come cappero si chiama?
Infine, a fronte di spettatori che vogliono sapere cos’ha fatto Taylor nei mesi in cui è stato solo su Terra Nova, che fine ha fatto suo figlio, chi sono i Sixties e cosa sono soprattutto i geroglifici, gli autori perdono tempo intorno al triangolo più telefonato della storia. Non ce ne frega niente di Jim geloso, non ce ne frega niente che la moglie non si ricordi di lui e dei figli. E l’inglese deve morire male, malissimo, perché è il personaggio più irritante del mazzo, e ce ne vuole, perché sono più o meno tutti insopportabili. Taccio su Josh e Skyes, davanti alla scena del bacio Giuliano ha invocato l’arrivo di un tirannosauro. E come dargli torto…
Patetici, infine, i tentativi di richiamare Lost. A parte l’idea di partenza e alcuni particolari simili – pochi umani in un contesto alieno, gli Others/i Sixties, i mostri nella jungla – stavolta hanno cercato di rifare la hatch. Con risultati patetici. Lost è passato, e non tornerà mai più. È stato sicuramente un momento importante nella storia della televisione, ma per fare Lost ci vogliono molte idee, bravi sceneggiatori, ottimi attori e anche una faccia di bronzo non indifferente. Qui manca tutto: gli sceneggiatori lavorano al minimo sindacale, non si vede un’idea neppure a pagarla e gli attori…a parte Stephen Lang è la fiera del basito, soprattutto per quel che riguarda Josh e Jim. Che poi anche sul casting avrei da ridire. Tutti bellissimi. Anche Maddy, che dovrebbe essere la secchiona complessata del mazzo, è una stocco di ragazza che buttala. Ok, anche in Lost erano tutti fighi, ma c’era anche gente normale, che andava in giro per altro sbattuta, zozza e senza trucco. A Terra Nova, invece, è tutto pulito, lindo e perfetto.
Insomma, altro buco nell’acqua. Inizio a credere che la grande stagione dei telefilm americani si stia avviando al tramonto. Qualche anno fa avevi l’imbarazzo della scelta su cosa seguire: c’era Lost, c’era House, c’era Dexter, c’era Californication, Carnivale e via così. Adesso, a parte i sopravvissuti di quel periodo, io vedo il deserto creativo. Idee vecchie riciclate. Mentre invece sul fronte europeo le cose sembrano migliorare (anche se in effetti Borgia l’ha fatto Tom Fontana, che è americano, ma il resto, a partire dalla produzione, è europeo).
Credo che continuerò in ogni caso per qualche puntata. Innanzitutto per l’esercizio con l’inglese, e poi perché ho bisogno di qualcosa che mi sgombri la mente, di sera, e in mancanza d’altro…Ma andiamo male, molto male.

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Sponsorizzato dal Family Day

Mi riferisco a Falling Skies e Terranova, il primo appena finito, il secondo appena iniziato. Ebbene, i punti di contatto sono molti, a partire da Spielberg che produce entrambi, ma il più evidente è che la famiglia è al centro di tutto. È un male in assoluto? No, certo. Anche Borgia parla di famiglia, ma lì siamo proprio su un altro pianeta. La cosa è un male se si decide di parlarne nel modo più becero possibile. Anyway, passiamo alle mie opinioni su questi due telefilm.

Falling Skies
Avete presente la vecchia pubblicità dello Jägermeister, quella di Degan prima che si desse ai conigli spellati spacciati per feti alieni? Era celebre per la frase “Bevo Jägermeister perché…perché…non so perché”. Ecco, io non so perché ho visto fino in fondo la prima stagione di questo telefilm. Avevo subodorato la moscezza complessiva del tutto fin dal primo episodio, ma ho insistito per tutte e dieci le puntate. Comunque, è un dato di fatto, l’ho visto tutto. Evidentemente, al di là di ogni altra considerazione, si fa vedere.
Comunque. Falling Skies non è brutto. A parte il fatto che, come al solito, i personaggi agiscono in modi assurdi quando si tratta di mantenere quel minimo sindacale di suspance sulla trama (avete due ragazzini che sono stati con gli Skitter un sacco di tempo e non gli fate manco una domanda al riguardo, neppure quando vi offrono la possibilità su un piatto d’argento, tipo quando Rick accenna al fatto che gli Skitter hanno un piano) non si può dire che sia scritta veramente male, e gli effetti speciali non sono male. Ok, la storia è vista e rivista, ma questo non è necessariamente un problema. No, il fatto è che Falling Skies ha il terrore di osare. Vuole, fortissimamente vuole essere un prodotto medio, senza una sorpresa che sia una, senza uno slancio. È un treno lanciato su un paio di binari dritti e senza attrito: procede in linea retta inanellando una quantità di stereotipi da far spavento. C’è veramente tutto, pare un film di Emmerich senza le catastrofi. C’è il padre costretto a far l’eroe, che fa sempre la cosa giusta, il figlio adolescente scapestrato, il bambino traumatizzato, il militare stronzo, il medico saggio, quella che si affida alla fede, pure la donna incinta. E non c’è alcuno sforzo di indagare dietro lo stereotipo. No, ognuno fa quel che deve, ognuno aderisce graniticamente all’etichetta che ha scritta in fronte. Se sono il buon padre, non farò mai una cazzata. Se sono il guascone un po’ stronzo e un po’ simpatico non scantonerò mai nella bastardaggine pura. Va da sé che di fronte a personaggi del genere il coinvolgimento dello spettatore è meno di zero. L’unico istinto che ho provato durante la visione era il desiderio viscerale che Lourdes, con la sua fede plastificata da predicozzo à la Settimo Cielo, morisse malissimo. Spoiler: non lo fa. Per il resto, non sono mai stata coinvolta nelle vicende dei nostri. Va aggiunto che nonostante l’ambientazione postapocalittica la tensione narrativa è zero. Non c’è angoscia, non c’è sensazione di pericolo. Le scene di azione sono noiose e tirate oltre il limite di sopportazione, le interazioni tra i personaggi assolutamente banali. E poi ci sono buoni sentimenti a pacchi. Ripeto, nessuno di questi elementi preso da solo sarebbe un problema: è l’averli messi tutti assieme e averli cuciti con una regia incolore, una scrittura scontata e una serie di interpretazioni appena passabili a rendere il tutto indigesto. Già La Guerra dei Mondi aveva sviscerato (male) il tema “padre con figli in mezzo alla fine del mondo”, e davvero non si sentiva il bisogno dell’ennesimo compitino sull’esaltazione della genitorialità. A breve scriverò un lungo post incazzato su questa santificazione della maternità (o demonizzazione dell’esperienza, a seconda dei contesti) che gira di questi tempi peggio dell’influenza. Comunque, sforzandosi con l’ernia, su 12 puntate gli sceneggiatori sono riusciti a partorire due (2) idee, una delle quali in finale di stagione, tanto per metterci un cliffhanger che tiri la visione della seconda. Io me la vedrò? Mah, tutto sommato penso di no.

Terranova
Terranova parte abbastanza bene, con un dispiego di mezzi che mi fa temere che il resto sarà fatto con due lire. Il mondo prossimo al collasso ha il suo perché, i dialoghi sono quel filo più credibile di Falling Skies. Poi, vabbeh, presto cominciano le dolenti note. Che sono le stesse di Falling Skies. Ancora la famiglia, e che palle. Padre, madre e due virgola cinque figli, per citare il John dei Simpson. All’inizio ho sperato che almeno il padre ce lo giocassimo. Purtroppo no, ed è uno dei personaggi più irritanti del mazzo. Lo schema è sempre il solito: padre eroico, adolescente problematico con daddy issues (mannaggia a Lost che ha spinto il format ai suoi estremi…), Lisa Simpson, bambina. In più c’è la madre, che in Falling Skies mancava. Ora, rimanendo alle prime tre puntate, nel complesso mi sembra che la scrittura sia migliore di quella di Falling Skies, e il contesto in generale più interessante, anche se non inedito. Soliti problemi di trama (ragazzini che escono fuori dal perimetro per bere senza sapere una cavolo di dinosauri e in generale di come sopravvivere fuori? E non sono mai morti? Ferormoni sintetizzati con le mani, suppongo, vista l’assenza di fabbriche acconce all’uopo?), ma la storia dei geroglifici attira, così come i velati riferimenti fatti ad essi dai vari personaggi. Ma proprio come Falling Skies, anche questo prodotto sembra pervicacemente essere “medio”: un po’ di sangue, ma non troppo, un po’ d’azione, ma non troppa, e che nessuno si azzardi a toccare il sacro stereotipo della famiglia, mi raccomando. E poi stavolta le interpretazioni degli attori a volte chiedono vendetta al cospetto di dio e degli uomini: il padre ha una faccia basita che neppure in Boris…Vedrò la quarta puntata, poi valuterò se vale la pena proseguire.

Bonus Track
I Borgia

Dei Borgia di Tom Fontana posso dire solo tutto il bene possibile. È una serie ottima sotto molteplici punti di vista, e soprattutto riesce nel miracolo: appassionare con la storia degli intrighi di una famiglia rinascimentale. Finora una delle puntate più tese e appassionanti è stata quella sul Conclave. Sì, avete capito. Una puntata su una trentina di cardinali riunita in un posto chiuso per scegliere il papa. Sulla carta, la storia più barbosa della narrativa di tutti i tempi. Sullo schermo, un capolavoro di tensione narrativa.
Anche I Borgia parla di famiglia, e anche I Borgia ha i suoi stereotipi: la rivalità tra fratelli, il padre che ne preferisce uno all’altro, per dirne due. Ma il livello di profondità col quale le psicologie dei personaggi vengono indagate riempiono di nuovo senso figure tutto sommato note, archetipiche.
I Borgia mi fa appassionare alla storia, I Borgia mette in scena una galleria di personaggi indimenticabili, anche quando appaiono solo per breve tempo (Carlo VIII, ad esempio), I Borgia dimostra che se sei bravo, se hai mestiere puoi rendere appassionante qualsiasi storia, anche una intricata, complessa e sulla carta così poco catchy come quella de I Borgia. Perché la serie non cede al lato più ovvio della vicenda: Lucrezia non se la fa col padre o col fratello, ad esempio, visto che la storiografia ha accertato che la maggior parte delle voci che girano al riguardo furono messe in circolo dal suo primo marito. Eppure l’incesto fa audience.
Insomma, io ne sono entusiasta, e prego per una seconda stagione. Se è in programma una seconda stagione di Falling Skies, allora se devono fare almeno altre dieci de I Borgia.

Postille al post di lunedì
Non so, forse si leggeva tra le righe, forse no, ma manca un pezzo al fiume di parole che vi ho riversato addosso su tutta questa storia della Nonciclopedia. E ossia che un limite a quanto si può dire, online o nella vita vera, esiste, ed è stabilito per legge. Esistono l’apologia di reato, l’istigazione all’odio razziale, l’apologia del fascismo e via così. E questi sono i limiti invalicabili per chiunque faccia parte della società alla quale apparteniamo. Ma quel che penso è che se è giusto condannare Tizio quando esprime posizioni, che so, omofobe (anche se la legge non lo prevede, e questa purtroppo è un’altra, lunga e brutta storia…), non si può prendere la sua omofobia a pretesto per attaccarlo quando, che so, parla di filologia romanza. E poi…e poi basta. La cosa positiva del tutto è che ho imparato delle cose, la cosa negativa è che ho (ri)scoperto un sacco di cose brutte sul mio modo d’essere.

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Due cose che mi sono piaciute

Scopro subito le carte. Ho iniziato a vedere Squadra Antimafia 3 perché Sandrone ne è l’editor. E quando ho visto la prima puntata, era roba come tre o quattro anni che non vedevo fiction italiana. Avevo persino abbandonato Montalbano, un po’ perché i libri mi piacciono sempre meno, un po’ perché…no, non lo so. Forse m’ero solo stufata.
Alla prima puntata, mi sono subito esaltata per Rosy Abate. Tutta la storia di come ritorna in Italia m’aveva veramente galvanizzata: voglio dire, troppo figa. Alla seconda puntata ho apprezzato i riferimenti precisi e puntuali alla realtà: innanzitutto il tema dello smaltimento illegale dei rifiuti tossici, che come sapete mi è molto caro, poi l’accenno l’eutanasia. Alla terza, ci stavo già dentro.
Lo posso dire? Lo dico. Mi sono veramente appassionata. Perché è un prodotto fatto veramente bene: ha tutto quel che deve avere una buona serie televisiva, la trama appassionante, l’azione, i bei personaggi, e, ripeto, la guardi e impari anche qualcosa. Cosa vuoi di più? Ah, e poi è una storia di donne, e che donne. A tirare le fila di tutto son sempre loro: LA mafiosa, LA poliziotta, persino il politico corrotto, con tanto di toy boy, è una donna.
Ho atteso l’ultima puntata con trepidazione: stirerà mica le zampe l’Abate? E De Silva? Si salva? E l’enigmatico deputato? Mi ammazzerete mica Leo, che se lo fate, giuro, vi picchio? Io in genere le puntate le guardo in differita: la sera scrivo, per cui me la registro, e me la vedo in pillole le sere successive. Non avete idea dei giramenti quando mi sono accorta che la registrazione mi aveva saltato gli ultimi 60 secondi. Ok, era evidentemente l’epilogo della narrazione, e dunque gli snodi principali di trama erano stati risolti, ma ugualmente io volevo quei dannati, ultimi 60 secondi. E in effetti poi li ho ottenuti, e che cavolo.
Mi spiace in effetti parlarne solo ora, a serie finita, ma ha visto in giro i dvd delle prime due stagioni, che sto pensando di recuperare, e suppongo quindi usciranno più in là anche quelli di questa terza. Io vi consiglio di recuperarli, perché merita. Io intanto aspetto la quarta :P

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Lo devo confessare: non è una buona annata libraria. Non so se sono io che sono diventata più esigente, più scassapalle o cosa, ma quest’anno ho incrociato sulla mia strada parecchi libri che non mi sono piaciuti più di tanto. In genere, su una media di quaranta libri l’anno, quelli che davvero mi deludono saranno un 10%. Ecco, quest’anno su 19 saranno almeno 10 o giù di lì. Stavo quasi pensando di buttarmi sul sicuro, che poi sarebbe I Promessi Sposi – lo so che al 99% degli italiani fa schifo, ma a me piace molto – quando ho preso in mano Un Calcio in Bocca Fa Miracoli, che, come saprete, mi sono procacciata in quel di Torino. Anche qui, ho iniziato a leggere perché Il Ruggito del Coniglio a me è sempre piaciuto un sacco. Ma, vista la sfiga con le letture che sta segnando questo 2011, ero un po’ titubante.
Mi è bastato l’attacco.

Sono un vecchiaccio.
Dovrei dire che sono una persona anziana, come mi hanno insegnato i miei genitori per i quali chiunque, anche un infanticida antropofago, arrivato a una certa età meritava rispetto.
La verità, però, è che sono un vecchiaccio.

Che gli vuoi dire? Non ti puoi che innamorare subito. E infatti.
Non è solo un libro di piacevolissima lettura, divertente e ben scritto. È un libro che ti lascia addosso qualcosa, quella dolce malinconia che in genere segna il passaggio all’età della ragione, quando capisci che non sei immortale, e ad un certo punto la giostra smetterà di girare.
Pur scegliendo un registro tutto sommato leggero, punteggiato di commenti caustici e battute, il libro dice – e bene – cose molto più profonde di tanti altri tomi che si prendono infinitamente più sul serio, e poi sbagliando bersaglio di un chilometro.
E poi per una volta c’è un quadro onesto della vecchiaia: né negazione del tempo che passa, né triste crogiolarsi nel vittimismo da nonno badante munito. Solo tanta, mesta consapevolezza che il meglio è alle spalle, ma che questo non significa affatto che non si possa continuare a dir no, e a essere se stessi fino alla fine.
Io l’ho trovato veramente delizioso. Me lo sono centellinato, questo libro, e adesso che l’ho chiuso, come sempre coi libri che ho amato, lo spingo verso altri lidi, perché le belle cose diventano ancora più belle quando le si condivide in tanti. Per cui, nulla, vi consiglio anche questo. E se non vi fidate di me, buttate un occhio di persona.

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Commentiamo il telefilm del giorno: Misfits 02×06

Ok, mi rendo conto che inizio ad essere stucchevole. Due post in due giorni sui telefilm sono troppi. Però non posso farci niente. Per il resto la mia vita è avvitata su lavoro astronomico e lavoro letterario; i dettagli del primo non penso possano interessarvi (il grafico che presenta un’anomalia, il talk da preparare…) e sul secondo sono io che non me la sento di dirvi niente, perché sono in fase di stesura del mio nuovo libro, ambientato in un mondo nuovo di zecca, e voglio mantenere un po’ di suspence. Restano libri e telefilm, ogni tanto un po’ di musica.
Per la verità, non voglio fare un vero commento della sesta puntata della seconda stagione di Misfits. È straordinaria, come le undici che l’hanno preceduta. Ormai adoro Nathan, vorrei un Simon di pelouche da coccolare la sera, mi capita di identificarmi nelle insicurezze di Kelly e vorrei tanto abbracciare e consolare Alisha. No, quel che mi ha colpita sono state alcune scelte narrative. Il diavolo di nasconde nei particolari, ma pure la cura degli stessi fa la differenza tra chi le storie le sa raccontare e chi no.
Per questo, vorrei parlarvi dei primi minuti della puntata. Si possono descrivere l’essenza di un personaggio, la sua storia, le sue ossessioni e il suo destino in tre minuti scarsi muti? Se sei un autore di Misfits, sì. Allego prova video.

Io una cosa così la chiamo in un modo solo: perfezione. Del montaggio, innanzitutto. L’alternarsi delle ripetitive, ossessive scene della colazione, inframmezzate a quelle del lavoro di questo oscuro ragazzino inglese: ci parlano di una vita alienante, tutta tessuta intorno alla ripetizione ossessiva di gesti ormai senza senso. Trenta secondi per dirci chi è il Nostro, e cosa pensa. Poi, stacco su di lei. Il sogno di un riscatto, dell’interruzione del ciclo eterno di una vita senza senso. E qui interviene la musica. Che cambia di colpo, raccontandoci i palpiti del nostro Milk Guy. Poi, stacco sull’evento cardine: la tempesta. E di nuovo la musica, in un crescendo grottesco. E interviene la recitazione. Lo sguardo del nostro protagonista nel momento in cui capisce qual è il suo potere ci dice tutto: sono modifiche minime dell’espressione, un sorriso accennato, una luce nuova negli occhi. E lo spettatore capisce tutto: che il Milk Guy ha smesso con le sue colazioni desolate e solitarie, che non ci saranno più latte e cereali, e che ha chiuso anche col suo lavoro del cazzo, e che la tipa che prima lo ignorava, beh, adesso forse ci sta.
Questi tre minuti, dai quali sento di avere da imparare una caterva gigantesca di cose, dicono tutto di Misfits, un prodotto girato con quattro attori in tre location, costato presumibilmente due lire e mezzo, ma così denso e pieno di idee da far paura. Misfits fa spavento per il grado estremo di consapevolezza, per la padronanza assoluta del mezzo, e per il rifiuto categorico di cedere al compromesso. Per questo piace. Perché osa.
Potrei poi dilungarmi sulle battute di Nathan – che tra l’altro fa la sua porca figura in smoking – oppure sull’immagine geniale di Super Madre Teresa che muore impalata sul premio che le hanno dato per la sua bontà, ma non aggiungerebbe nulla al tutto.
Io vorrei, vorrei davvero essere così brava a raccontare storie. Temo purtroppo non lo sarò mai.

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Lost vs Misfits

Sono diventata ormai una dipendente da Misfits. Attendo con ansia il lunedì, quando registro la nuova puntata su Sky, e poi il martedì sera, quando me la riguardo, rigorosamente in lingua coi sottotitoli (fuori sincrono, sob…) in italiano.
Come tutti gli amori, nel complesso è una cosa piuttosto irrazionale. Certo, ci sono miriadi di motivi per amare un prodotto come Misfits, e per altro li ho già espressi. Ma tutto sommato quel che ti fa amare un telefilm piuttosto che un altro è qualcosa di impalpabile, quell’atmosfera lì, difficile da descrivere, e quel quid che risuona con qualcosa che hai nel profondo.
Comunque, questo cappellotto per spiegare perché torno a parlarne di nuovo. È che due sere fa mi stavo guardando la seconda puntata della seconda stagione, e mi è venuto da pensare una cosa.
Quando Lost è finito, lo scorso anno, molti ci dissero che sbagliavamo a disprezzare il finale; la verità era che Lost non era mai stato un telefilm sui misteri dell’isola, ma che riguardava invece lo sviluppo psicologico dei personaggi, ed era dunque giusto finisse proprio con la conclusione del percorso esistenziale di Jack. Che a questa cosa non credessi molto, già ho avuto modo di dirvelo. Mi sono convinta ancora di più che come spiegazione con me non funziona guardando proprio Misfits. Anche in Misfits c’è il mistero: cos’è successo davvero durante la tempesta? E con la seconda stagione, chi è l’uomo mascherato? E l’immagine che Curtis ha avuto del proprio futuro, che senso ha?
A differenza di Lost, però, in Misfits è chiaro fin da subito che non sono i superpoteri o i misteri il centro dello show: quelli servono a mantenere una certa tensione narrativa, a dare compattezza alle varie stagioni. Ma lo spazio che occupano all’interno del singolo episodio – in tutti gli episodi – è evidentemente marginale rispetto all’indagine psicologica dei personaggi.
La prima puntata di Lost finisce con Charlie che si domanda: ma dove siamo finiti? E tutta la puntata è stata centrata sull’isola, più ancora che sull’interazione tra i personaggi. La prima puntata di Misfits finisce invece con l’occultamento di due cadaveri, e nessuna domanda specifica sui poteri dei nostri. Curtis, Kelly, Simon, Alisha e Nathan accettano i loro nuovi poteri senza farsi particolari problemi. Piuttosto si interrogano su quel che hanno fatto, su come scampare la galera per omicidio. Mi sembra lampante la differenza.
Misfits è uno show sui personaggi, sulle loro interazioni, sul modo in cui guardano al mondo. E questo perché i poteri, la misteriosa tempesta, e anche l’uomo mascherato nella seconda stagione, sono elementi in più, ma non fondano la mitologia del telefilm. Nella puntata di lunedì scorso, per dire, ci interessano molto più Nathan e il fratello, piuttosto che Simon e Alisha che cercano di capire chi sia l’uomo mascherato. Anche perché su 50 minuti di episodio, una decina a dir tanto sono dedicati alla seconda trama. E io attendo con ansia il prossimo episodio non per sapere chi sia l’uomo mascherato, ma per vedere un po’ che combineranno stavolta i nostri, se Nathan e Kelly quaglieranno, come faranno Alisha e Curtis a stare insieme senza toccarsi, se Simon riuscirà ad uscire dal guscio.
Ho amato molto Lost, lo sapete, probabilmente lo amo ancora. Ma non per i personaggi, che, in tutta sincerità, non mi sono mai sembrati, a parte rari casi, così terribilmente memorabili. Ma per tutto quello che c’era intorno, per l’isola. E adesso amo Misfits, molto, proprio per i personaggi, così tremendamente veri, così fragili, così simili a noi, che è impossibile non affezionarsi a loro.

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Di giovani ed eternità

Ieri ho visto il season finale della prima stagione di Misfits. Sono ufficialmente innamorata. Sei puntate senza una caduta di stile, anzi in crescendo. La dimostrazione che anche con quattro lire si possono realizzare prodotti degnissimi, anzi ottimi, se ci sono le idee. E le idee ci sono eccome, a pacchi.
Gli attori sono sempre all’altezza, scelti con cura, perfetti. E hanno le facce giuste. Questa è una delle cose che mi piacciono delle serie europee: gli attori non sono fighi allucinanti, che mai incontreresti per strada, come in una qualsiasi serie americana. Non so, in Lost, ad esempio, pare che siano sopravvissuti solo i bonazzi, fatta esclusione per il povero Hurley. Nelle serie europee no. I protagonisti sono persone comuni. Girando per il mio vecchio quartiere, è pieno di gente come Kelly. E anche Alisha, la “bella” del gruppo, è una ragazza carina, ma nulla di straordinario, niente che tu non possa vedere mentre fai due passi in città.
La scrittura è perfetta, senza sbavature. Certo, è volgare, ma è giusto che lo sia. Da cinque teppistelli pieni di problemi non ti aspetti un eloquio da principe del foro, ma il linguaggio della strada. E i continui riferimenti al sesso sono giusti: quando, se non nell’adolescenza, il sesso è il chiodo fisso, che spaventa e attrae, esorcizzato con la volgarità, sempre inseguito, a volte catturato, ma quasi sempre nel modo sbagliato?
Le location sono quattro in croce, ma filmate da dio. Lo squallore degli ambienti urbani, il grigio del cemento, il colore dei graffiti, l’acqua. Ambienti che dicono molto dei personaggi, che non sono mero sfondo, ma parte integrante della narrazione.
Musiche scelte sempre con attenzione, ossessive o dolci, tamarre o raffinate.
Effetti speciali dosati con cura, messi solo lì dove davvero serve.
Insomma, in sei episodi io non sono riuscita a trovarci un difetto. Finalmente una serie che parla di adolescenza senza ipocrisie, con pacchi di sano cinismo e humor nero, mostrandoci i giovani per quel che sono: gente che si cerca disperatamente, senza trovarsi mai. E non occorre essere cresciuti in borgata per riconoscersi in Nathan, Curtis, Alisha, Kelly e Simon. Siamo tutti stati come loro, alcuni di noi lo sono ancora. Io, per dire, lo sono ancora, forse l’adolescenza non mi abbandonerà mai, forse sarò sempre la ragazzina che proprio non ci riesce a crescere, e per questo scrive quel che scrive.
Il tutto è riassunto perfettamente dal discorso di Nathan, in cima al tetto, verso la fine dell’episodio. La libertà di sbagliare, l’ebbrezza di sentirsi eterni ed onnipotenti, il diritto a essere liberi. Non è questo che volevamo, quando avevamo sedici anni? E i genitori non ci facevano arrabbiare perché invece sapevano sempre la verità, e ce la sbattevano in faccia ogni volta che sbagliavamo? Ecco, il discorso di Nathan è questo. Vi incollo la clip qui sotto, perché vale; è in inglese, ma per quelli di voi che conoscono la lingua non dovrebbe essere troppo un problema, Nathan ha una parlata abbastanza comprensibile. Per quelli di voi che invece non capisco, sotto metto una mia traduzione approssimativa. Ho censurato un po’ di roba, giusto per preservare le menti dei più giovani :P . Enjoy

Questa tipa vi sta facendo credere che questo è il modo in cui dovreste essere. Non lo è. Siamo giovani. Siamo fatti per ubriacarci. Siamo fatti per comportarci male e sco**re fino alla morte. Siamo fatti per fare casino. Lo dobbiamo a noi stessi di fare davvero un sacco di casino. Lo dobbiamo l’uno all’altro. È così. Questo è il nostro tempo. Ok, qualcuno di noi finirà in overdose, o diventerà matto. Charles Drawin disse “non puoi fare una frittata senza rompere un po’ di uova”. Perché di questo si tratta – rompere uova – e per uova intendo fot***si il cervello con un coktail di prima classe. Se vi poteste vedere. Voglio dire, avete addosso dei fot**ti cardigan! Avevamo tutto. E abbiamo mandato tutto a put**ne meglio e più in grande di qualsiasi generazione prima di noi. Eravamo così belli…Siamo dei cogl**ni. E ho intenzione di rimanere un cogl**ne fino ai trenta, e magari anche dopo. E mi sc**o mia madre piuttosto che lasciare che lei, o chiunque altro mi levi questo!

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Palestra

I.
Madri snaturate

Sono nello spogliatoio, e mi sto cambiando. Il mio turno coincide con quello delle bambine di danza, per cui incrocio sempre mamme con prole. Stavolta si tratta di due bambine, di cui una, bionda e ricciolina, che avrà un paio di anni.
Le sorrido, e – sorpresa – lei mi ricambia con un sorriso amplissimo.
Lei: “Come ti chiami?”
Io, piacevolmente stupita dalla sua intraprendenza: “Licia. E tu?”
Lei: “Francy”
Io: “Francesca? Che bel nome! Il mio papà si chiama così. E quanti anni hai?”
Lei: “Due”
Io: “Sai che io ho una bimba che ne ha uno? È più piccolina di te”
Lei: “È un maschio?”.
La mamma borbotta qualcosa su Francy che non si fa mai i fatti suoi, ma tutto sommato è divertita dalla scena.
Io: “È una femminuccia, si chiama Irene”
Lei: “E adesso dove sta?”
Io: “Con la nonna”.
lei: “E il papà?”
Io: “A lavoro”
A questo punto interviene la mamma.
“È che lei non è abituata all’idea dei bimbi che stanno coi nonni. Lei i nonni ce li ha lontani”.
È un commento semplice, tanto per fare quattro chiacchiere, non ha implicazioni di sorta. Ma nella mia testa si apre una finestra tipo Windows, ed è la fine.
Ecco. Il papà sta a lavoro, e vabbeh, è giustificato. Ma la mamma sta qua a fare palestra. È questo che starà pensando quest’altra mamma: che io lascio la figlia alla nonna per venire in palestra. Sono una madre snaturata… e via così di autoflagellazione in autoflagellazione.
Avoja a fare le donne emancipate e di mente aperta. Certi stereotipi te li ficcano in testa con tanta forza e per così tanto tempo che non adeguarsi è pressoché impossibile.

II.
Potenza del TG1
La bimba è uscita. Io prendo le ultime cose dalla borsa: asciugamano, acqua, chiave dell’armadietto. Davanti a me una ragazza più o meno mia coetanea.
Lei: “Scusa…presentazione…libro?”
C’è la musica, per cui colgo solo queste parole. Cerco di metterle insieme in qualcosa di compiuto e giungo alla conclusione che mi sta chiedendo se possa avermi visto a qualche presentazione. Sorrido un po’ timida.
Io: “Sì può essere”
Lei: “Sì, domenica scorsa”.
Resto perplessa. Non faccio presentazioni da due mesi, e domenica scorsa sono rimasta a giacere sul divano fino a compenetrarmici, per cui non vedo come possa avermi visto da qualche parte.
Io: “Ti ricordi dove?” continuo fingendo di aver capito.
Lei: “Eh, non mi ricordo…era una trasmissione sui libri…”
E finalmente ci arrivo. Domenica scorsa hanno mandato in onda la mia breve intervista per il TG1.
Io: “Ah, sì, è stato al tg1. L’hanno vista tutti tranne me” e via di breve conversazione sulla cosa, con complimenti e chiacchiere varie.
Non pensavo che quel minuto e mezzo sarebbe stato visto da tutta ‘sta gente. No, perché è tipo la decima persona che si complimenta. Mi hanno vista in osservatorio, mi hanno vista i parenti, mi avete vista voi…È un po’ come quando feci un’intervista per Tu. D’improvviso tutti l’avevano letta. Potenza del TG1…

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La buona notizia del giorno

Non è un bel periodo, e questo l’abbiamo capito. La considerazione che l’Italia gode presso gli altri paesi è ai minimi storici, la percezione è che tra l’altro di questo all’italiano medio freghi meno che niente, e mentre il mondo cambia – vedi Albania, vedi Tunisia, vedi Egitto – noi restiamo attaccati alle mutande del premier.
La sensazione è che si stia scivolando sempre più in basso, in una spirale della quale non si vede la fine. Siamo indignati? Ce ne frega qualcosa? Pare di no.
È ovvio che tutto si gioca intorno alla figura della donna. As usual, verrebbe da dire. D’improvviso, sembra che anni e anni di lotte femministe, di conquiste sudatissime, finiscano diritte nel cesso. Vai con prostituzione minorile, gente che finisce in parlamento per meriti che hanno ben poco a che fare col cervello e molto con tette e culo, la rivelazione che siamo ancora ferme lì, alla donna che è solo un pezzo di carne, e che dunque solo tramite la carne può aspirare a qualcosa di diverso, con tanto di beneplacito dei genitori che sanno e annuiscono soddisfatti, se non partecipano direttamente al commercio.
È desolante. Per questo penso che quel che serve ora è un po’ di speranza. Perché senza speranza non si va da nessuna parte. La disperazione è amica dei potenti: se sei disperato non fai niente, stai lì a crogiolarti nel tuo dolore, convinto che nulla di quanto tu possa fare servirà mai a qualcosa. Ma è un inganno. Si può fare sempre qualcosa. E per questo si deve farlo.
Vi ho già parlato de Il Corpo delle Donne e di Lorella Zanardo. Nelle poche parole che avemmo modo di scambiarci a Matera, in autunno, mi parve di intravedere una persona che non solo si lamentava di come stavano le cose, ma cercava mezzi concreti per cambiarle. Una mattina di queste, surfando tra intercettazioni sempre più deprimenti e i deliri isterici del premier, ho trovato questa notizia. Che è una buona, buonissima notizia.
In genere stiamo sempre lì a dirci che il mondo non si cambia. Che è brutto che la tv ci mostri un’immagine grottesca della donna, e che la società cerchi di relegarci in ruoli assolutamente marginali e decorativi. Ma che comunque non ci puoi fare niente. Voglio dire, è la tv, che cosa posso fare io singolo? Quello che sta facendo Lorella Zanardo. Mostrare il re nudo. Insegnare a svelare l’inganno, a guardare oltre l’immagine laccata, per capire il messaggio. Vi pare poco? A me per niente. Il mondo si cambia cambiando la testa della gente, la rivoluzione si fa conquistando un’anima alla volta. Una ragazzina consapevole è una ragazzina che difficilmente si farà incasellare. Un ragazzino che ha capito cosa c’è dietro l’ossessiva esposizione di tette e culi avrà più rispetto per le donne.
E insomma, questa è la mia buona notizia giornaliera. Il segno che c’è ancora una società civili, e che cambiare le cose è possibile. Forse non ne vedremo i frutti domani, e neppure dopodomani, ma l’importante è continuare a lottare.

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Donne, immigrati, satira. In una parola, Vieni via con Me

E anche oggi la consueta esegesi di Vieni via con Me. Non è accanimento. È che io, ogni lunedì sera, esco un po’ modificata dalla visione, e il desiderio di parlarne, di condividere le mie osservazioni, è sempre fortissimo.
Stavolta, tra le tante cose, quella che mi è piaciuta di più è stato lo spazio dedicato alle donne. È sempre commovente per me vedere in tv donne che escono dallo stereotipo imperante: l’ho pensato quando sono andata ospite a Nero su Bianco, e mi sono trovata davanti una Casella professionale, seriamente interessata a me e al mio lavoro, l’ho pensato ieri sera, quando per una volta le donne non erano lì a fare le grechine – per usare una definizione efficacissima usata nel libro Sii Bella e Sta’ Zitta -, ma a parlare della condizione femminile, uno dei problemi in assoluto più ignorati nella nostra società.
Non ho trovato la Bonino poi molto incisiva: ha detto cose giustissime e condivisibili, ma anche lei non è riuscita a sfuggire alla tentazione del comizio. Io mi domando se scrivere una lista è davvero così impossibile per un politico. Invece sono state tremende e terribilmente efficaci le parole della Camusso, che ha portato alla luce una realtà che non si conosce o si preferisce ignorare. Infinite sono le declinazioni della discriminazione della donna sul lavoro, qualsiasi esso sia, che sia tra le mura di casa o fuori. E c’era una tale rabbia, in quell’elenco, che l’ho trovato adeguato persino a me, che tutto sommato sul lavoro mi sono sempre trovata bene, ma comunque devo fare i conti col tempo che manca, con l’estrema difficoltà di conciliare il mio essere madre, moglie e donna con tutto il resto.
Splendido anche l’elenco letto dalla Morante. Verissimo. Mi odio quando mi capita di uscire la sera e ho paura di prendere la macchina. Mi odio quando rientro, e non ho il coraggio di mettere l’auto in garage per la paura di quei pochi metri del sottoscala, chiusi tra due porte, dove se uno vuole farti del male può farlo indisturbato. Mi odio ogni volta che penso che certi vestiti posso metterli solo con Giuliano, perché così so che la gente non mi guarderà troppo, non mi considererà una puttana. Vorrei essere libera, vorrei essere abbastanza forte da non aver paura, ma non ci riesco. Perché gli stupri esistono, perché gli uomini spesso ti guardano come un oggetto. E sono sicura che questi pensieri li facciamo tutte, che ciascuna di noi ha paura e non vorrebbe. Quando finirà? Non lo so. Ma presentarci per quel che siamo, come persone dotate di talenti e capacità, non come meri corpi che esauriscono le loro attrattive in un paio di tette e due chiappe, è un passo. Per questo ieri sera è stato importante.
Capitolo Maroni. I politici in quella trasmissione ci azzeccano come i cavoli a merenda. Finora l’unico che mi è piaciuto è stato Vendola, come ho già avuto modo di dire. Gli altri si rifiutano di parlarne il linguaggio, non vanno lì a indurre riflessioni, vanno lì a dare stantie risposte preconfezionate con lo sterile stile del comizio. Maroni ha detto la sua, una sua che aveva già ripetuto nei tg e in duecento trasmissione diverse in una settimana. A Vieni via con Me è andato sostanzialmente a vincere il suo braccio di ferro vigliacco con uno scrittore di trent’anni che dalla sua ha solo la forza delle sue parole. E il bello è che l’ha anche perso. Innanzitutto perché non c’era nulla di efficace nel suo discorso, tranne un tardivo apprezzamento per l’operato di magistratura e forze di polizia. Poi perché Fazio non s’è voluto far mancare un accenno alla polemica, e perché Saviano non s’è fatto mettere i piedi i testa, e ha ribadito, nel suo secondo monologo, la “parola dello scandalo”, quell’interloquire che a Maroni proprio non va giù. Comunque, contento il ministro…
Infine, Guzzanti. Io Guzzanti lo adoro. Io sono cresciuta con l’Ottavo Nano, Pippo Chennedy Show, Il Caso Scafroglia. Io Guzzanti l’ho visto dal vivo, ed è straordinario. Secondo me Guzzanti si magna tranquillamente l’ultimo Benigni, Rossi e Luttazzi. E non mi ha delusa per niente. Intanto, ho apprezzato molto che decidesse anche lui di presentarsi con un elenco. Peccato per la brevità del tutto, ma sono state risate a scena aperta. Un grande. Trentatré battute tutte memorabili, ma credo che “La camorra contro Saviano: la scorta ci impedisce un contraddittorio” sia da antologia.
E per quella storia dei senza voce, per una volta abbiamo ascoltato questi tremendi immigrati che vengono qui a far nulla, a rubarci lavoro e donne. E non mi dite che queste sono voci che ascoltiamo, perché in genere uno o ha il vicino di casa di colore, o raramente in tv vede un clandestino o un rifugiato. Vende poco a livello politico, diciamo così.
Insomma, un altro lunedì in cui è valsa davvero la pena. Meno male che non tutta la tv è così, o non riuscirei più a scrivere dopo cena :P .

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