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Il sogno della Smemo

Da ragazzina il diario scolastico era per me una specie di propaggine, una delle forme con cui esprimevo me stessa, come i vestiti che indossavo, le cose che scrivevo, la musica che ascoltavo. Li riempivo di disegni, frasi che mi avevano colpita, canzoni che amavo. Li conservo ancora, perché sono un pezzo di me. Su uno scrissi anche una serie di riflessioni a caldo dopo il mio viaggio ad Auschwitz.
Comunque, il feticcio di quegli anni per me era la Smemo. Era diversa da tutti gli altri diari. La Comix la trovavo troppo triviale, i diari dedicati agli eroi dei fumetti e dei cartoni animati li trovavo tutto sommato infantili (anche se un anno mi sono concessa Lupo Alberto, ma quelli di Silver li consideravo fumetti da grandi), e quelli coi fiori e i decori romantici non si addicevano per niente alle mie camice XL e ai miei jeans sformati. La Smemo invece era perfetta. Era roba da adulti. Era un’agenda, mica un diario. E, soprattutto, era piena di cose da leggere. Vignette incazzate col mondo, di quelle che trovavi in prima pagina su L’Unità o La Repubblica, e racconti scritti dagli autori più disparati: scrittori, ma anche attori, registi, cantanti, comici. Quella blu, che aveva come tema il Mediterraneo, ogni tanto ancora la leggo. La Smemo, insomma, era una cosa mitica.
Stacco di quindici anni.
Primo giorno dei saldi, luglio 2011, un qualsiasi centro commerciale di Roma. Una cartoleria.
La Smemo, come ai miei tempi, è impilata in grosse torri sparse in giro per il negozio. Come ai miei tempi, viene via in varie colorazioni. Prendo quella blu, la apro, e guardo l’indice. La mia foto, per una volta, non è male: è una di quelle che mi ha fatto Rossella, e che trovate anche su questo sito. Il racconto, quando lo rileggo, mi lascia perplessa. È che quando passa più di un mese da quando le ho scritte, tutte le mie cose smettono di soddisfarmi, e vorrei riscriverle da capo. Sono duemila battute o giù di lì, forse un po’ di più, perché ricordo che avevo sforato come al solito il limite che mi avevano dato. Sono al 14 di aprile, guarda tu il caso.
Mi fa un effetto strano, di chiusura del cerchio. A quindici anni non avrei mai pensato di finire sulla Smemo. Lì ci andavano quelli cool, quelli bravi davvero, non certo una come me. E all’epoca, comunque, non pensavo neppure che avrei mai fatto una professione della scrittura. Ma ugualmente è una specie di sogno che si avvera. Ognuno ha le sue pietre miliari. Il premio letterario, la vendita di un milione di copie. Per me sono quelle duemila battuta sulla Smemo, strette tra un pezzo di Bertolino e uno di Bagnato. Chi l’avrebbe mai detto.

P.S.
Se vi interessa, è la Smemo 16 mesi del 2012, e c’è anche un disegni inedito di Paolo Barbieri che correda il tutto.

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Sweet

La leggenda l’ha iniziata mio suocero. Da poco stavo insieme a Giuliano, e non ricordo bene per quale occasione, un pranzo di qualche genere, immagino, preparai dei semplici biscottini glassati. Erano una cosa davvero ridicola a farsi, e infatti mi vennero buoni. Poi avevano quella cosa lì della glassa, sulla quale avevo messo delle codette colorate, che li rendeva anche quel po’ scenografici. Ma bastarono quelli. Da quel momento per mio suocero sono diventata quella che faceva bene i dolci.
Confesso di essermi crogiolata nell’illusione che fosse vero, ma confesso che per un sacco di tempo le uniche torte che ho fatto sono state quelle confezionate della Cameo. Finché, più o meno quando sono andata a vivere da sola, ho deciso di provare a rendere vera la leggenda.
Ho iniziato con gli strufoli, più che altro per dare una mano a mia madre, mi sono stancata, ma mi sono divertita. Così ho iniziato a fare qualche torta per le occasioni. Quella che feci a mia madre per un suo compleanno di qualche anno fa era un’orrenda schiacciata croccante di cioccolato. Ma non demorsi. Perché avevo un incentivo. Fin da quando ero bambina, e mia mamma mi faceva pasticciare con la pasta fatta in casa, adoro gli impasti crudi. Se faccio le tagliatelle almeno un paio devo mangiarle così, crude, stesso dicasi per gli gnocchi. Ragazzi, mangio addirittura i tortellini in scatola crudi. Ovviamente adoro gli impasti dei dolci. Ne mangerei a cucchiaiate. Finisce sempre che lecco la scodella, finché non salgono i sensi di colpa per la ciccia che si accumula e ficco tutto in lavastoviglie.
Di delusioni ne avute ancora un sacco. Tipo la torta foresta nera troppo dura. O il terribile tortino fondente che ho propinato a Sandrone di recente, che per una serie di circostanze che coinvolgono un frigo, un forno e un cronometro sono venuti troppo molli. Ma mi diverto. A volte riesco persino. Per dire, la tenerina al gianduia di ieri sera non era male.
So di non essere un granché in cucina. Ma a volte mi vien da sorridere della fama immeritata che godo presso mio suocero, e mi piace pensarmi come “quella che fa i dolci bene”, anche se non è vero. Perché certe illusioni sono dolci, proprio come una torta.

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Io avevo un post per oggi, lo giuro. Me lo sono scritto in testa ieri sera, dopo essere stata a Massenzio (ve lo ricordate?) a sentire David Sedaris e Stefano Benni. Era tutta una riflessione sul ritornare lì a Massenzio dopo due anni, sul fatto che non ricordo neppure da quanto tempo non facevo una cosa culturale, sui miei complessi d’inferiorità e via così. Solo che ieri sera ho bevuto. 20 cc di birra. Una weiss che avrà avuto 5 gradi a dir tanto. E sono rientrata all’una o giù di lì. E, niente, stamattina mi sentivo come una spiaggia dopo una tempesta: tabula rasa. Sonno da morire, movimenti rallentati, lingua felpata e stomaco in sciopero.
Era un bicchiere di birra. E non i bicchieri alla bavarese, proprio un bicchiere da vino dei nostri. Ed era l’una, forse anche prima.
Lungi dall’essere migliorata, la situazione è questa: mi muovo nel mondo ad una velocità almeno un paio di volte inferiore a quella del resto della gente. Per cui il previsto post si è perso nei fumi del dopo-non-sbronza e del dopo-non-bagordi.
Sto veramente invecchiando male.

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Ansia

Tra mezz’ora circa terrò un seminario sul mio lavoro all’università. Sono graditi pensieri di solidarietà tra le 13.00 e le 14.00.

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Ho visto cose che voi umani…

Ho viaggiato insieme a Giulietto Chiesa. Sono stata tentata di chiedergli se secondo lui anche in quel momento stavamo irrorando, ma mi sono trattenuta.

Sono stata sui tacchi per un giorno e mezzo, girando per altro per la Fiera come una trottola impazzita. Ho i piedi a pezzi, ma ho tenuto botta.

Su trentadue ore a Torino, ho avuto solo due ore libere. Le ho occupate leggendo Kick Ass. Giudizio: bella idea, ma Wanted era meglio.

Mi son sentita dare della gnocca, e, detto da un amico, ogni tanto fa anche bene alla scarsissima autostima. Che, ça va sens dir, è tornata bassissima tipo due secondi dopo.

Ho conosciuto Marco Presta, che avevo incrociato su un paio di voli in passato, ma cui non mi ero mai presentata causa la mia patologica incapacità di interagire con persone che non conosco direttamente, ma che stimo. Ci siamo immortalati, ci siamo scambiato libri e dediche, e, niente, sono stata contenta, perché lui e Antonello Dose mi hanno fatto splendida compagnia per un numero infinito di mattine col loro Ruggito del Coniglio.

Ho fatto un piacevole viaggio in macchina con un vecchio amico, e ho rimpianto di non aver potuto passare con lui più tempo.

Ho ritrovato Sandrone e ho fatto una presentazione con lui. E non c’è bisogno di aggiungere altro.

Ho parlato, ho stretto mani, ho sorriso e ho firmato fino ad essere esausta. In compenso, ho visto svelato un segreto. E, adesso, l’avete visto anche voi.

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Altre istantanee

Come al solito, dopo le immagini, torno a mezzi espressivi che mi sono più congeniali.
Ero già stata a Palermo, ero già stata in Sicilia, e sono stata contenta di esserci tornata. Non so, è un luogo che amo molto. Innanzitutto per motivi letterari: la patria di Pirandello, l’autore della prima opera che vidi a teatro – per la cronaca, I Giganti della Montagna – e alla cui filosofia devo molto come persona, il luogo natale del mio amato Montalbano, la Sicilia di Verga…Poi per i dolci. La pasta di mandorle è il mio dolce preferito, per tacere di cannoli e cassate. Poi…non lo so. È mediterraneo allo stato puro. È Grecia, è Roma, è saracena, è luce. Avete mai fatto caso alla luce, a quanto è intensa, a quanto è, non so, diversa da qui?
Lo sapete, io sono più il tipo nordico. Ma le radici sono nella Magna Grecia, e quando scendo sotto la linea gotica mi sento sempre a casa. Ci sono cose che possono succedere solo in città come Napoli e Palermo, solo in posti così intensamente mediterranei, figli di una cultura necessariamente bastarda, che hanno visto gli invasori passare, e mescolarsi fino a confondersi. Quella schiettezza di certa gente di mare, quella simpatia istantanea verso il viaggiatore, quel calore che si spiega solo così, col destino di un popolo nato dalle contaminazioni dei mille altri che l’hanno dominato.
Palermo è decadente. Ma non lo dico in senso negativo. È la bellezza sfatta, eppure fulgida, di una donna stanca. Per certi versi l’ho trovata grandiosa come Roma, coi suoi palazzi imponenti, di quel barocco contaminato quasi sempre da quel tocco d’arabo, le chiese che a volte sembrano moschee, una capitale, a suo modo. Poi giri l’angolo, e ti ritrovi davanti a vicoli pericolanti, a palazzi abbandonati. E ti sembra di essere finito nel fantasma della città che fu. A volte sembra una città erosa dal caldo e dalla luce, immersa in quel caos tipico dei posti di mare: Napoli, ancora, Barcellona, Atene, che pure dal mare dista un po’.
Mi ci sono consumata i piedi, come quasi sempre, quando visito un posto nuovo. E ho cercato di farmela entrare negli occhi. A volte preferisco fare così, piuttosto che andare in giro per luoghi famosi: sono sempre un po’ a caccia di sensazioni, spesso più che di nozioni.
In ogni caso, non mi sono fatta mancare quei tre o quattro posti must: il Palazzo dei Normanni, la Cattedrale, e la Cappella Palatina. Splendidi tutti i e tre. Quando giro per l’Italia ritrovo, se non il patriottismo, che proprio non mi appartiene, quanto meno l’orgoglio di vivere in un posto in cui ogni vicolo, ogni angolo cela una bellezza segreta. E dove un paese non è mai uguale all’altro. In questo siamo davvero unici al mondo.
Per il resto non c’è molto altro da dire. Ho rischiato di litigare con una principessa, ho rispolverato con tanta nostalgia i miei attrezzi da divulgatrice, ho guardato Irene tutta contenta di stare in un posto nuovo da scoprire. E ho vissuto a pane e caponata per tre giorni.

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Zio

Il ricordo più vivido è quello delle caramelle sotto il bancone. ‘A puteca, il piccolo emporio che vendeva un po’ di tutto, è chiusa da molti anni, ma io la ricordo benissimo. E sotto il bancone di vetro c’erano le caramelle. La mia memoria di bambina le ricorda numerosissime e colorate. Quando io e i miei cugini passavamo dal paese e facevamo il giro dei parenti, per salutare – “la benedica e comm’ s’è fatta ‘rossa!” dicevano tutti prima di acchiapparti la faccia e stamparti un bacio appiccicoso sulle guance – lui era dietro il bancone, e prima che ce ne andassimo apriva il cassetto, e ci diceva di scegliere quel che volevamo. Io ricordo le Big Bubble, grosse e rosa, le mie preferite, all’epoca.
Lui aveva sempre un’aria elegante, e il volto cortese e gentile, di una gentilezza signorile e innata. A sessant’anni parve smettere di invecchiare. Anche quando gli anni iniziarono a diventare tanti, più di novanta, sembrava dimostrarne venti in meno.
Da un po’ di tempo era caduto in una specie di dolce stupore, e non si ricordava più di noi. L’ultima volta che sono passata dal paese non l’ho visto, stava riposando. A dire il vero, non riesco a ricordare l’ultima volta che ci siamo visti. Passo sempre meno di frequente dal paese, la famiglia, il lavoro…e quando passo non sempre ci sono tutti. Il paese sembra svuotarsi lentamente.
E stamattina è andato via. Con lo stesso garbo di sempre, di chi nella vita è passato lieve. Quasi un secolo di vita. Quanti dolori, quante gioie?
È un altro pezzettino delle mie radici che va via. Gli anni passano, e anche quelle figure che pensavi che ci sarebbero sempre state pian piano se ne vanno. Sempre meno baci sulle mie guance, per le strade del paese.
Ciao, zio.

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A briglia sciolta

Stamattina era una giornata piuttosto uggiosa. Sono uscita di casa tra l’infreddolito e l’assonnato, davanti la prospettiva di una giornata non proprio leggera. Ho fatto il solito percorso, un po’ di radio per tenermi su. A duecento metri dal parcheggio dell’università, all’ingresso di una delle molteplici rotatorie che punteggiano questo quartiere (penso sempre ad Eriadan, quando mi ci infilo), l’illuminazione. Sul prato di lato alla strada c’è una donna, una busta che le pende da un braccio e una bimba sui sei anni appesa all’altro. Ha un po’ l’abbigliamento di chi va a fare le grandi pulizie di primavera. Davanti a lei, un aspirapolvere. È stato un istante. E mi si è spalancato davanti l’abisso delle possibilità.

Ha deciso di setacciare il prato alla ricerca di un quadrifoglio, e l’aspirapolvere le è sembrato un modo rapido per farlo.
Ha finito di pulire casa, e la cosa l’ha alienata così tanto che adesso vede pavimenti da pulire ovunque. Oramai senza più alcun contatto con la realtà, è uscita e ha iniziato ad aspirare il prato.
Sono io che per qualche distorsione spazio temporale sono finita in un’estensione pratosa di casa sua. In verità lei lì ci passa l’aspirapolvere tutte le mattine, solo che io passo sempre tardi, e lei ha già finito.
Anche i prati hanno bisogno delle pulizie di primavera, e la nostra prode eroina ha un aspirapolvere magico, che toglie le erbe vecchie e pianta quelle nuove e verdi verdi.

A volte fa bene avere la tendenza a fantasticare.

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Un grazie mancato

Vado sempre a mangiare a mezzogiorno. Mi viene fame presto, e siccome per motivi dietetici vado in un ristorante al centro commerciale, in genere indulgo all’appetito, e vado a mangiare presto, da sola.
Mangiare da sola è un misto di piacere e sottile sofferenza. Un po’ rimpiangi i pranzi coi colleghi, quando lavoravi da un’altra parte, un po’ ti piace star lì a navigare con l’iPhone mentre mangi polpette e melanzane. Semplicemente ti lasci scomparire nel rumore di fondo; quando mangio da sola, insieme ad altri quattro disperati soli anche loro, ad almeno due tavoli di distanza da me, mi sento invisibile, ed è una bella sensazione.
Qualcuno dei mie compagni di pranzo lo conosco. Tipo il professore che mi faceva esercitazioni di analisi I, la bellezza di dieci anni fa. Quando seguivo le sue lezioni ancora non avevo iniziato a scrivere le Cronache, tenevo i capelli ancora lunghi fino alle orecchie e non stavo con Giuliano. Una vita fa, insomma. Solo lo vedo andare e tornare dalla mensa, solo lo vedo mangiare. Ci scambiamo al massimo un sorriso impacciato. Mi domando se si ricorda davvero di me. Io lui me lo ricordo bene, benissimo.
Appena arrivata all’università mi portavo dietro il mio bagaglio di insicurezze e soprattutto una conoscenza scarsissima della matematica. Non per colpa mia: al classico si fanno due ore a settimana, e il mio professore aveva qualche problema a mantenere la disciplina della classe.
Annegai quasi subito alle prime lezioni: non avevo neppure idea che la matematica potesse essere una cosa del genere. Teoremi ne avevo visti pochissimi in vita mia, non sapevo neppure cosa fossero derivate ed integrali, e mi ritrovavo catapultata in un mondo di limiti, sommatorie, insiemi, dimostrazioni. Ero sicura di non farcela.
Eravamo in sessanta, al primo anno, ma saremmo usciti in dieci a novembre. Molti iniziarono a mollare già durante il corso. Per questo al ricevimento professori c’era sempre qualcuno che potesse darti retta, che potesse aiutarti a capire il teorema complicato, la dimostrazione ostica. E quel qualcuno era lui. Timidissimo, ma con un cervello finissimo e una capacità empatica che non avresti mai sospettato. Finii per andarci praticamente una volta a settimana, assieme a Giuliano – col quale avevo iniziato a flirtare – e ad un nostro compagno di corso. Non solo mi aiutava a capire le cose che a lezione mi sfuggivano, ma mi insegnava anche quel che avrei dovuto sapere dal liceo.
C’ho messo un anno a fare l’esame, e alla fine presi 26, che per la difficoltà dello scritto e l’esigenza del professore per me valeva quanto un 30. Ma so che senza i pomeriggi di ricevimento non ce l’avrei mai fatta. E se non avessi superato analisi I non sarei qui, e non ci sarebbero un sacco di cose.
Forse lui non si ricorda poi proprio bene di me, ma io mi ricordo benissimo di lui. E penso che non gli ho mai detto grazie, eppure gli devo davvero tanto.

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Avatar

Era parecchio tempo che non entravo all’università dall’ingresso principale. È che vivo nel mio piccolo ufficio, che si trova attaccato ad uno degli innumerevoli accessi secondari. Quando ancora ero una studentessa di laurea, invece, lo facevo sempre.
Giuliano se lo ricorda bene, e spesso me lo racconta ridendo. Arrivavo quasi sempre curva sotto il peso della borsa, di corsa, tipicamente incazzata nera. Credo di aver iniziato ad essere ansiosa proprio all’università: ero certa di non essere all’altezza, di non farcela, ero terrorizzata dal risultato. E per questo forse ero sempre più o meno incazzata, la mattina.
Ricordo la mia immagine riflessa nel vetro della porta. Un’immagine che non mi corrispondeva. Nella mia testa ero minuta, più simile ad un ragazzino che a una ventenne alle prese con l’università. Nel vetro vedevo riflessa una ragazza tarchiata, col seno grosso, mascolina sì, ma con una fisicità che mi imponeva al mondo in un modo sfacciato che non ritenevo rappresentarmi.
Giovedì invece sono entrata di nuovo dall’ingresso principale. Il vetro mi ha rimandato la mia immagine, mentre mi avvicinavo ad ampie falcate, proprio come in quei giorni di dieci anni fa. E per un istante, uno appena, la mia immagine si è magicamente sovrapposta a quella che avevo in testa. Ero come mi immaginavo. Il mio avatar finalmente rispecchiava il modo in cui mi sentivo, forse appena più vecchio di quanto non mi piaccia credermi. E in quei pochi secondi che mi separavano dall’ingresso, ho capito che è per questo che cinque anni fa andai dalla dietologa, che è per questo che mi metto il cappello, mi vesto come vesto, e, quando me la sento, mi metto in tiro. Vesto la mia pelle perché somigli a quel che sono, perché il mio aspetto dica subito a chi mi guarda con chi ha a che fare. Cerco di far coincidere anima e corpo, perché non debba sentirmi un’estranea nei miei panni, e dunque un’estranea nel mondo.
Tanti anni, e sono ancora prigioniera del mio aspetto, della mia apparenza. Non riesco a farne a meno. Non so se sia una cosa positiva o una negativa. Lo amo, il mio corpo che ha dato la vita, che si muove preciso mentre sudo durante la lezione di total body, che offro a chi amo. Ma per tanto tempo me ne sono sentita prigioniera: mai abbastanza magro, mai abbastanza tonico.
Non voglio essere bella, non è questo. Non lo sono e non lo sarò mai. Voglio solo che questa carne mostri quel che sono davvero, il tramite che ho scelto di mostrare al mondo per dire: eccomi, sono io, e in qualche modo sono unica.
Sono stati pochi secondi, il tempo di consumare lo spazio tra il marciapiedi e il corridoio della Facoltà. Ma è durato un’eternità. E mi è piaciuto.

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