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Dottorandi

Oggi su Repubblica si parla di me. O meglio, di noi. Dei dottorandi. L’articolo è questo.
La mia condizione di dottoranda è ben descritta dalle prime righe. A volte mi sento proprio come poco dopo la laurea, in quella zona grigia in cui non puoi essere definito: non sei un ricercatore, ma non sei neppure uno studente in senso stretto. Sei qualcosa d’altro, nel mezzo. Ma mi piace. Non posso dire che mi sia pentita di aver fatto il concorso, affatto. Voglio ancora fare l’astrofisico, e lo sto facendo, anche se per lo stato sono uno studente. Il lavoro mi piace, e per due anni della mia vita, con uno ancora davanti a me, ho saputo e saprò cosa fare. Chi te li dà tre anni con un posto di lavoro, oggi?
Ma questo appartiene all’introspezione, all’esperienza personale. Quello su cui voglio soffermarmi invece è la condizione generale del dottorando medio. Che tutto sommato è grato, perché, appunto, per tre anni sa cosa fare della sua vita, ha un contratto e lavora, riuscendo a guadagnarsi un titolo assolutamente indispensabile se si vuole andare avanti con la ricerca.
E allora? I problemi sono due. Innanzitutto la paga, che, come avete letto, si aggira sui mille euro. Per la metà dei dottorandi. L’altra metà in teoria non prende niente. In pratica, se i tempi non sono troppo grami, il tuo professore si ingegna per trovarti qualcosa, tipicamente un assegno di ricerca che ha uno stipendio suppergiù pari alla borsa di dottorato, in qualche fortunato caso superiore. Il problema è che i tempi sono grami, e spesso l’assegno di ricerca vale per un anno, a volte sei mesi. E poi? E poi il tuo professore deve cercare altri fondi, e può capitare che non ne trovi subito, e allora finisci scoperto per qualche mese.
È vero, molti dottorandi – io per prima – vincono il dottorato nell’università in cui si sono laureati. Nel mio gruppo di ricerca, però, io sono l’unica dottoranda romana che ha studiato a Tor Vergata. Gli altri tre ragazzi sono tutti fuori sede. È evidente che allora diventa un problema se per uno, due, tre mesi non hai stipendio. Ci sono i genitori, ok, ma non sempre. E comunque si accede al dottorato tipicamente dopo i venticinque anni, quando uno in linea di massima sarebbe ben lieto di farsi una vita propria. E con mille euro al mese per tre anni, se ti va bene, o contratti da un anno a botta non è che sia facilissimo.
Ma il vero problema è il dopo. Dopo che fai? I concorsi per ricercatore. Che sono rari come l’acqua nel deserto. E quando arrivano, sono inaccessibili alla maggior parte dei nuovi dottori. Perché? Perché essendoci un concorso ogni morte di papa, i precari si accumulano. Esiste gente che ha quarant’anni ed è ancora precaria, e ovviamente ha montagne di titoli. Queste persone – giustamente – vincono i concorsi in virtù dell’esperienze e dei curricula che si sono costruiti in anni di precarietà. Il risultato? Aspettare anche dieci anni per avere un contratto a tempo indeterminato a volte è la regola. Intanto ti arrangi con gli assegni di ricerca, i co.co.co., se sei molto fortunato con un tempo determinato, anche quelli rarissimi.
All’estero, invece, i soldi circolano anche nei momenti di crisi. Nella maggior parte degli stati civili, è anzi durante i periodi di crisi che si investe nella ricerca, che è il motore trainante dell’industria. Per cui, ti accolgono a braccia aperte, con contratti a tempo determinato, post-doc e paghe ben più che dignitose (anche tremila euro). È ovvio che chi non ha famiglie e altre cose che lo blocchino in Italia, se può se ne va.
Ed è qui che volevo arrivare. Un dottorando alla società costa. Le tasse se ne vanno anche nella formazione di studenti e dottorandi. Un sacco di soldi che servono a formare i ricercatori di domani. E quando arriva il momento in cui ciascuno di noi potrebbe ripagare il debito, iniziando a produrre scienza vera, lo stato ci abbandona a noi stessi. Ci dice che dopo quattro anni di laurea e tre di dottorato, non serviamo più. Siamo parassiti inutili perché “non si mangiano panini con dentro Dante”, parole di Tremonti, e mi sento sporca al solo citarle. E quindi molti ragazzi se ne vanno all’estero, a vendere lì le capacità acquisite in Italia, o smettono di fare ricerca, riciclandosi nell’industria se va bene, nel call center se va molto male.
È questa la ragione per cui i problemi dei giovani ricercatori non sono solo fatti della nostra generazione, questioni che riguardano solo noi sfigati dottorandi. Sono soldi che la società tutta dà via a fondo perduto. È uno spreco di risorse che in pochi capiscono.
Sapete con chi ho parlato di questi argomenti l’ultima volta? Con un tassista che mi stava portando a casa da un’intervista. Esatto. Un tassista. Che era stato costretto a cambiare lavoro dal mercato, e che prima faceva – indovinate – il ricercatore in ambito sanitario. E il cerchio si chiude.

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(Quasi) flusso di coscienza

Stamattina dal cielo sembrava dovesse spuntare da un momento all’altro la scritta The Simpson.

Ho finito stamattina Caino. Non mi ha entusiasmata. Sull’argomento ho letto cose che mi sono piaciute di più. E ho realizzato che in gioventù ho fatto letture allucinanti. Credo avessi tipo tredici o quattordici anni quando ho letto La Gloria di Berto. Per altro ve lo consiglio.

Mi muovo da una solitudine all’altra, in questi giorni. Oggi in università, ieri all’osservatorio. Quando, nel 2004, Giuliano andò per tre mesi a lavorare in Cile, io, che in Italia facevo la vedova bianca, iniziai a lavorare tutti i sabati. All’epoca l’osservatorio era un posto vivissimo, pieno di ragazzi, dal lunedì al venerdì risuonava di voci, eravamo anche in sei o sette per stanza. Il sabato diventava un posto stranissimo. Ci andavamo in due o tre, direttore compreso. I corridoi, amplissimi, si allargavano a dismisura, i fantasmi del passato emergevano dal sottosuolo e se ne andavano a spasso per la cupola deserta. A me piaceva da impazzire. Anche per quel breve percorso verso la mensa, per un caffé, che mi toccava fare al buio, alla base della cupola. Due minuti di paura per corroborare la giornata lavorativa. L’osservatorio era così, ieri. Un posto deserto e solitario, un avamposto che un tempo era ai margini del deserto, e ora è circondato ovunque dalla sabbia.

Ho letto un bel racconto, molte estati fa. La Raccolta di Silenzi del Dr. Murke, si chiamava, di Böll. Per altro, Opinioni di un Clown è tra i libri d’amore più belli che abbia mai letto. Sì, d’amore. Sì, la critica sociale, l’attacco al cattolicesimo, quel che volete. Ma secondo me è prima di tutto un libro d’amore. Comunque. Parlavamo della Raccolta. Il racconto inizia col Dr. Murke che sale in ascensore, una specie di montacarichi che gli incute una certa paura. È la sua cura. Ogni mattina si fa quei due, tre minuti di paura che lo aiutano a cominciare bene la giornata. Ecco, io ho qualcosa di simile. Il sottoscala del mio palazzo, quel luogo di nessuno tra i piani abitati e il garage. È il regno degli insetti e dei ragni. Ci sono zanzare a profusione, scarafaggi, pochi grilli moribondi scappati dall’olocausto del prato. E, da qualche giorno, un ragnone nero orrendo. Forse è anche morto, non lo so. Sta sempre allo stesso posto. Ma per me, che di ragni e insetti ho la fobia, è assolutamente terrificante. Anche se è morto. Passo di corsa per qui pochi metri, e combatto giornalmente la mia battaglia con la paura. Chissà che un giorno non mi riesca di passare da lì senza angoscia.

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