Ho pensato di parlarne un sacco di volte, ma poi non l’ho mai fatto, e non so perché. Forse a volte le cose sono così perfette che a parlarne si pensa quasi di rovinarle; una cosa come Bojack la guardi, e poi non c’è niente da aggiungere, perché sta tutto là, in quei ventisei minuti in cui poi ognuno vede quel che vuole. Ma adesso Bojack è finito, ed è difficile spiegare il vuoto che mi ha lasciato dentro.
Cominciamo dall’inizio, da quando, credo due anni fa, iniziai, piuttosto riluttante, a guardarlo. Ne avevo sentito parlare bene da tutti, sapevo che dunque era una tappa obbligata, ma non ne avevo granché voglia. Ma avevo necessità di staccarmi dai social, che, come succede periodicamente, iniziavano a farmi più male del solito, e allora ho iniziato.
Devo dirlo, la prima stagione non mi aveva granché entusiasmata. Mi sembrava che Bojack stesse sulla scia di un altro prodotto che aveva detto le stesse cose, ossia Californication: sì, L.A. e l’industria del cinema e della televisione sono il male, il protagonista è uno stronzo autoriferito, ma ha le sue ragioni per esserlo.
È dalla seconda stagione che ho iniziato a vedere altro, sotto la patina superficiale di una critica, tutto sommato indulgente, al mondo dello showbusiness. Non so quando sia successo, ma pian piano Bojack ha iniziato a parlare anche a me. Non era più la storia di una vecchia gloria della tv, in cui io, per altro, non mi sono mai immedesimata, come è capitato invece a tanti miei coetanei, ma qualcosa di più: il racconto triste ma sincero delle nostre esistenze insoddisfatte, della nostra disperata ricerca di una felicità che semplicemente non esiste, e di come la nostra infanzia ci abbia segnati tutti per sempre. E poi, certo, di che razza di tritacarne assurdo sia il successo, di come la società che ci siamo costruiti attorno, questo regno dell’apparire, non faccia altro che masticarci e sputarci via una volta che siamo stati prosciugati di tutto ciò che può interessare al pubblico. Quel che resta, alla fine, è solo un buccia vuota, perché dietro ciò che hai cercato di essere non c’è mai stato davvero altro.
E tutto questo viene raccontato senza compiacimento e senza indulgenza, ma con una sincerità, e una capacità di scavare dietro lo stereotipo, che davvero non ha eguali nell’animazione e nella serialità moderna.
Ho adorato un’infinità di cose. Ne dico una su tutte, molto recente: Diane che fa i conti con la sua depressione. Esiste questo stereotipo che circonda gli psicofarmaci, quest’idea che se li prendi sei un drogato, e che comunque non sei più te stesso, ma intontito e sedato. Ed esiste anche il mito che la creatività ha bisogno di sofferenza, che l’artista mezzo pazzo deve pagare il suo talento con una giusta dose di sofferenza psichica. Ecco, io non so quanto ringraziare Bojack per aver mostrato a tutti che no, non è così. Che sono tutte stronzate, che la depressione è una malattia e si cura, e che se poi non scrivi più non è perché “i farmaci ti intontiscono”, ma magari solo perché ti stai ostinando a scrivere una cosa che non ti appartiene. Eh, o Dio, quant’è bello quando Diana capisce che sì, tanto del dolore della nostra vita è semplicemente inutile, e non ha neppure senso cercargli un significato. La depressione, l’ansia, non ti rendono una persona migliore, non sono ponti che ti portano dall’altro lato del fiume e ti migliorano: è solo dolore, un dolore che va curato. E dire queste cose da dentro, da chi di quei miti si è sempre alimentato, ha una forza diversa, prorompente.
Ora, mentirei se dicessi che quest’ultima stagione mi è piaciuta in toto, o che abbia del tutto apprezzato il finale. Ne capisco il senso, “sometimes life’s a bitch and then you keep living” e, chissà, forse Bojack non meritava un’uscita di scena che mettesse fine a tutti i suoi tormenti. Il suo destino è star qui, e fare i conti con tutto quel che ha fatto nella vita, bere, e poi disintossicarsi ancora, perché questo è quel che facciamo: pentirci, e poi rifare sempre gli stessi sbagli, finché capiamo che a volte il vero atto eroico non è lottare, ma accettare i propri demoni. Ma ho sentito comunque una certa mancanza di compattezza tematica in quest’ultima stagione, e forse un’indecisione sul finale, che tirava tutto da una parte, ma poi magari è mancata la volontà di arrivare all’inevitabile conclusione. Ma non ha importanza. Bojack mi ha regalato un viaggio indimenticabile negli abissi dell’esperienza umana, un racconto privo di qualsiasi autoindulgenza su ciò che siamo una volta liberati da tutti i veli che poniamo tra noi e il mondo, e su quanto male siamo in grado di farci l’un l’altro, anche senza volerlo.
Grazie, Bojack. Quel che mi hai lasciato è destinato a durare per sempre. E a tutti quelli che non l’hanno visto: guardatevelo. Non state lì a temere che faccia male, che vi deprima o chissà che. Le storie sono qua non per consolarci, ma per appassionarci, per tirarci dentro al loro mondo e farci gioire e disperare, per sostituire il loro mondo al nostro, e per farci sospirare, alla fine, de te fabula narratur.