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Un viaggio oscuro

Alla fine non ho resistito. Il post che avevo iniziato a scrivere ieri, finisce in quello di oggi. In mezzo, una lunga sessione di scrittura, che aiuta sempre. Semplicemente, se non ne scrivo adesso non ne scriverò mai più, e invece ci sono cose che sento di dover dire, anche se non sono l’unica e neppure la prima, ma che significa.
Come vi dicevo, ho fatto in questi giorni una lunga cavalcata nel “lato oscuro”: ho letto le 1500 pagine del memoriale di Breivik. Non tutte, ovviamente. Le ho scorse, ho letto quelle sulle quali si appuntava la mia curiosità. Non è stato bello e non è stato neppure facile. I terroristi hanno una specie di ossessione per la logorrea: dai chilometrici proclami delle BR, agli sproloqui di Bin Laden fino alle 1500 pagine di Breivik, sembrano non essere capaci di spiegarsi in poche righe. Se ne discuteva qualche tempo con Valberici su Twitter, e ci eravamo detti che probabilmente quel che il terrorista cerca è una narrazione di cui essere protagonista, un racconto che ne giustifichi l’esistenza. Ma questa gente non conosce l’abc del narrare, e manca anche tutto sommato di fantasia, e per questo produce polpettoni lunghissimi e indigeribili.
In ogni caso, ho scorso le 1500 pagine, perché è facile dire “è un pazzo” e marcare una linea di definizione netta tra noi e lui, più difficile è capire chi a questo “pazzo”, se pazzo è davvero, ha dato le armi, chi l’ha nutrito e l’ha cresciuto. E poi la letteratura si interroga spesso sul male: cosa di meglio per uno scrittore di uno che quel male lo racconta di sua spontanea volontà, parlandoti non solo della sua ideologia, ma anche della sua vita, dei suoi pensieri, dei suoi amici.
Dicevo che non è stato piacevole. Innanzitutto perché la famosa linea che ci piacerebbe tracciare tra noi e lui è labile e indefinita. Cercate di capirmi, non voglio giustificare nessuno. Ma, come dice Guglielmo ne Il Nome della Rosa, “Se bastò così poco agli angeli ribelli per mutare il loro ardore d’adorazione e umiltà in ardore di superbia e di rivolta, cosa dire di un essere umano? E fu per questo che rinunciai a quella attività [di inquisitore]. Mi mancò il coraggio di inquisire sulle debolezze dei malvagi, perché scoprii che sono le stesse debolezze dei santi.” E noi dobbiamo essere ben consci che ci vuole poco per saltare dall’altra parte, davvero poco. L’ardore folle che ha spinto Breivik a sentirsi il difensore di una razza in via d’estinzione, se lo si svuota del contenuto ideologico, è simile alla forza buona e giusta che spinge a morire per i propri ideali, senza trascinare con sé centinaia di innocenti, è la stessa che da secoli induce gli uomini a lottare per migliorare le cose. La differenza? Che Breivik non muore in prima persona, ma uccide altri, e non lotta per persone vere, concrete, ma per un ideale astratto che non trova concretizzazione in nessuna delle persone che ha intorno. Se il primo punto è chiaro, il secondo forse merita un po’ di approfondimento.
In coda alle 1500 pagine, c’è un diario che Breivik ha redatto negli anni in cui ha progettato l’attentato. Ne emerge l’immagine di un qualsiasi trentenne, incline al divertimento e forse giusto un pelo solitario. Sebbene negli ultimi tempi per sua volontà avesse iniziato a isolarsi dal mondo – per essere sicuro che nessuno potesse scoprirlo o tentare di fermarlo – aveva degli amici di cui parla. Mai una volta accenna però a loro come persone da salvare dal multiculturalismo, la forza malvagia che nella sua testa sta portando letteralmente alla morte il mondo occidentale. Se la parte ideologica si dilunga sui crimini che a suo parere il “marxismo culturale” ha causato (stupri, omicidi, torture, arriva a elencare i numeri di quello che lui considera un vero e proprio genocidio) nel diario non identifica mai queste vittime con i suoi amici. Loro sono un mondo a parte, al quale non appartiene più, che ha deciso di abbandonare. Non è per salvare loro, che combatte. Per altro, la fidanzata di un suo amico è un’attivista laburista. Non spende per lei parole d’odio, non valuta nemmeno la possibilità che prima o poi gli tocchi ucciderla perché “traditrice”; accenna vagamente a lei, e non la identifica col nemico.
Ecco, Breivik lotta per un’idea nel senso deteriore del termine: non lotta per persone vere e reali, ma per qualcosa di astratto che non si incarna mai. Parla di stupri che non ha mai visto, di vittime che non ha mai conosciuto, di morti che restano sempre sul piano astratto. E che rivoluzione è quella che non salva qualcuno di vero e reale, che non considera le persone per ciò che sono, carne viva e sentimenti, ma solo etichette?
Detto questo, la seconda osservazione è che Breivik è un figlio della democrazia. La parte introduttiva del suo memoriale si dilunga sull’assenza di libertà di parola nell’Europa moderna. E perché non ci sarebbe libertà di parola? Perché esiste uno stigma sociale – in Norvegia, suppongo, qui da noi non direi – verso gli xenofobi, gli omofobi, i razzisti. Breivik non si sente libero perché non può dire che gli islamici andrebbero deportati o costretti alla conversione senza che qualcuno gli dia del razzista. È evidente che qui c’è un malinteso di fondo su cosa sia democratico e cosa no. Certo, la libertà di espressione, ma è chiaro che certe cose non sono opinioni, sono semplici violazioni delle regole del vivere comune: dire che l’omosessualità è una malattia non è un’opinione, è una tragica inesattezza scientifica, invitare a sparare sui clandestini sui barconi non è un’idea legittima, è apologia di reato. Breivik questo non lo capisce. Se questo sia segno di follia o è la democrazia che da qualche parte ha fallito, che non ha saputo spiegare se stessa, io non so dirlo. Ma è qualcosa su cui riflettere.
Infine, nulla della parte ideologica del memoriale mi è sembrata nuova o originale. L’avevo già letta, ascoltata, confutata migliaia di volte: alla tv, ogni volta che hanno trasmesso un proclama di Bin Laden o chi per lui, quando ho letto l’articolo della Fallaci all’indomani dell’11/9, quando ho sentito certa gente come Borghezio e Calderoli aprire bocca e dar fiato ai polmoni. I razzismi sono tutti tragicamente uguali, basta cambiare due parole e dall’odio per l’occidente si passa all’islamofobia senza alcun problema. Del resto, l’ha detto anche Borghezio: si è riconosciuto in quel che dice Breivik. E non a torto, aggiungo.
Ora, di sicuro tra i proclami fatti dalla Lega in questi anni e le azioni di Breivik c’è una bella differenza. Ma occorre anche dire chiaro e tondo che in questi dieci anni molti politici hanno sostenuto una campagna d’odio, il tutto senza alcun senso di responsabilità. Immagino che per molti politici possa sembrare un gioco a costo zero aizzare la paura del diverso, parlare di “asse del bene contro il male”, di incentivare la logica del noi contro loro, porta voti e sembra non avere controindicazioni. Ma tra le migliaia di persone che ti stanno a sentire, e alla sera poi torneranno placidi alle loro famiglie e al mutuo da pagare, ce ne potrà sempre essere uno che ti prenderà molto, troppo sul serio. Le parole sono importanti, diceva Moretti, e tanto più lo sono quando hanno la forza di arrivare a molte persone, e influire sul pensiero di molti. Ora, qualcuno potrebbe obiettare che è con questo ragionamento che si arriva poi a dire che i videogiochi causano Columbine, ma qui l’ordine di grandezza, e le idee in gioco, sono completamente diverse. Qui si parla di odio indirizzato verso persone vere, con nomi e cognomi, di popoli criminalizzati, non di sparatorie finte in contesti ludici. Se Utoya dimostra qualcosa, è che la logica del “male contro il bene” non ci ha per niente resi più sicuri: ha inasprito la contrapposizione tra occidente e mondo arabo e ha persino aizzato un nemico interno all’occidente, che c’è sempre stato, per carità, ma in questi anni si è sentito giustificato, incoraggiato dal profluvio di politici, partiti e partitelli che hanno ripetuto a gran voce l’opinione dell’uomo qualunque rendendola oggetto di programma politico. Checché ne dica Breivik, checché ne dicano tutti quelli che oggi spalancano tanto d’occhi allo scoprire che l’assassino non farà più di trent’anni di carcere, che urlano che il multiculturalismo ha fallito, la capacità di accettare e accogliere l’altro per quello che è, il rispetto, la tutela dei diritti propri e altrui è l’unica cosa che ci può salvare, l’unica. E Utoya non è la prova che la democrazia e il multiculturalismo hanno fallito, al contrario: sono la dimostrazione che quando si rinuncia a vedersi specchiati nell’altro, quando si accetta di reificare anche una minoranza, allora ogni orrore è possibile, perché disumanizzare anche solo uno di noi, significa disumanizzarci tutti.
Sono uscita dalla lettura sgomenta. Perché il deliro di Breivik davvero toglie speranza. Il suo è un mondo senza luce, dominato dalla paura e dal dolore, in cui persino la vittoria non porta gioia, solo disperazione. Poi, ieri sera, ho letto questo. E ho pensato che non c’è modo migliore di rispondere a gente come Breivik. Affermare che l’uomo è sempre uomo, persino quando compie l’indicibile, persino quando ci appare disumano, è l’unico modo per combattere in chi vuole dividerci in uomini e topi. La gente come Breivik non si sconfigge con l’ergastolo, non si sconfigge con la pena di morte, né chiudendosi a riccio. Si sconfigge col coraggio di seguire fino in fondo ciò in cui si crede, si sconfigge con la forza di non avere paura. La paura è la vera nemica del nostro tempo, la più subdola delle schiavitù, che ci vorrebbe chiusi in casa, terrorizzati persino dal nostro vicino di casa. A gente come Breivik dobbiamo rispondere con la gioia, con la condivisione, dimostrando che la democrazia è forte e salda, e sa attraversare anche la più terribile delle tempeste.
Io ci credo che sia possibile, davvero. E ho imparato che credere è il primo passo per realizzare, che la speranza non è qualcosa di dato, ma che costruiamo noi giorno per giorno. E allora mi sono messa al computer, e con questo post ho chiuso i conti col mio viaggio nel lato oscuro.

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Il nemico dentro

Ci avevamo creduto davvero tutti. Era stato il primo pensiero. Il mio, almeno. Che fosse un attentato di Al Qaeda o chi per lei. Certo, mi viene da sghignazzare sulla prima pagina di Libero, ma poi mi fermo a pensare, e da ridere non c’è proprio niente.
L’attentato di Oslo e Utoya offre miriadi di spunti di riflessione, uno più tremendo dell’altro. La prima cosa che ha colpito me è stato il riflesso pavloviano del pubblico: sono stati i musulmani. Ci hanno cambiato la testa. Questi dieci anni hanno modificato il modo in cui percepiamo la realtà intorno a noi. Ci hanno insegnato cosa temere, ci hanno indicato il nemico, e noi – anche quelli più illuminati, quelli che hanno rifiutato questa cazzata dello scontro di civiltà dal primo momento – siamo stati ben lieti di adeguarci. Perché in fin dei conti è nella nostra natura: delimitare noi stessi rispetto agli altri, come se per poterci definire avessimo bisogno di tracciare il confine tra ciò che siamo noi, e quel che sono loro. Senza un nemico ci sentiamo persi, perdiamo il senso di noi stessi. Senza qualcuno da odiare, perdiamo consistenza.
E poi all’improvviso succede che il male viene incarnato da uno di noi. Sì, uno di noi. Bianco, cristiano, l’aspetto del bravo ragazzo. Ce lo siamo trovato accanto al matrimonio dell’amico, è stato in mezzo a noi per tutto il tempo, ha condiviso i nostri ideali, ha vissuto la nostra vita. Quando lo vediamo, non siamo in grado di tracciare un chiaro confine tra noi e lui, perché quando lo guardiamo negli occhi, ci vediamo riflessi.
Uno come noi un bel giorno ha fatto saltare Oslo, e con la massima calma ha massacrato 90 ragazzi della sua stessa età.
In generale, in questi casi si dice che è un pazzo. Io a questa tesi non ho mai creduto. I savi sono capaci di azioni indicibili, i pazzi per lo più fanno male a loro stessi, checché ne dica la cronaca, che ogni volta che c’è un crimine tira fuori la depressione. Breivik non è un pazzo. È un frutto di questa società. Solo che non sappiamo spiegare cosa l’abbia creato.
I soliti noti tirano fuori i colpevoli ovvi, quelli che l’ignorante medio tira sempre in ballo: i videogiochi, la musica metal. Videogioco anch’io, e sento anch’io rock e metal, ma non mi è venuta mai voglia di massacrare qualcuno.
La verità è che la risposta non ce l’abbiamo. Nessuno sa realmente dire cosa fa di noi all’improvviso dei mostri. Ci immaginiamo la Norvegia come un posto perfetto, dove le cose funzionano davvero, con uno stato sociale forte, libertà, integrazione per tutti, e in più una natura splendida, soverchiante, a ricordarti che sei solo un puntino nell’universo. Ma già leggere quel che Lindqvist e Larsson hanno da dire sulla Svezia fa sorgere il dubbio che anche in Scandinavia le cose non siano esattamente perfette, che c’è qualcosa che va in profondità, qualcosa di realmente marcio nel modo in cui viviamo.
Io la risposta su questo male che abbiamo dentro non ce l’ho. Dico solo che dieci anni a sentir gente come Bush parlare di “lotta del bene contro il male”, a dirci che la società occidentale è superiore a quella di quei buzzurri degli arabi, che dunque si meritano le nostre bombe, non ci hanno fatto per niente bene. Anni fa se sputavi veleno contro i rumeni o i marocchini la maggior parte della gente ancora ti guardava storto. Adesso no. Adesso che gli xenofobi siedono in parlamento, non ti vergogni più a dire che i marocchini se ne devono andare “fora di ball’”. Perché il razzismo trova giustificazione in tutte le autorità che l’hanno sdoganato, rendendo l’opinione dell’uomo qualunque programma elettorale.
Ma la colpa non è solo di chi sparge odio. La colpa è di chi non sa dare un’alternativa. Continuo a credere che le idee si sconfiggono con altre idee. Questi dieci anni dimostrano che chi parla di rispetto, di accettazione della diversità come ricchezza, non ha saputo far penetrare a fondo queste idee. La sua voce è sempre apparsa debole davanti a quella di coloro che presentavano la soluzione facile: li ammazziamo tutti e via. La colpa è anche nostra, che abbiamo scrollato le spalle davanti a chi deumanizzava l’immigrato irregolare solo perché non aveva il permesso di soggiorno, che ci siamo voltati dall’altra parte quando a Sarno partiva la caccia al nero. Perché le nostre parole non sono forti abbastanza? Perché ci continua a crescere questo vuoto dentro, e io so che lo percepiamo tutti, anche se uno su diecimila imbraccia il fucile, ma lo sentiamo tutti? Non lo so. Ma sarebbe ora che ce lo chiedessimo.

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Alla morte di Amy Winehouse, è stato facile per molti dire che è una vergogna che la morte di una tossica faccia lo stesso scalpore di quella di novanta ragazzi ammazzati senza un perché in Norvegia.
Io invece non mi sono indignata manco un po’. Perché se migliaia di persone si sono sentite toccate in questi giorni dalla morte di una cantante, forse c’è un motivo che vale la pena indagare, qualcosa che ci dice molto su chi siamo e cosa vogliamo.
Non sono mai stata una fan della Winehouse, e avrò sentito di suo due canzoni al massimo. Ma la sua parabola discendente, orgogliosamente esibita a titoloni sui giornali, a beneficio di tutti coloro che guardavano le sue foto ubriaca, la deridevano, e così per due ore potevano sentirsi migliori di qualcuno, mi ha sempre messo addosso un’angoscia senza pari.
Anche Amy era una che il nemico se lo coltivava dentro, pervicacemente e con una coerenza di fondo da far spavento. Aveva talento, la possibilità di essere tutto ciò che voleva, e ha preferito buttarsi via in ventisette anni di scelte sbagliate. E alla notizia della sua morte, ho percepito esattamente quel che diceva John Donne nel lontano XVI secolo: “la morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità”. Perché ho visto nel suo dramma il riverbero, moltiplicato centinaia, migliaia di volte, di qualcosa che anch’io conosco, che ognuno di noi conosce. Quel vuoto. Quell’avere tutto, e non riuscire a goderlo. Quel perdersi senza sapere perché, quella sensazione di non potere, non riuscire ad essere felici, nonostante tutto. Io so che anche voi lo conoscete, che tutti lo conoscono. il nostro nemico.
Ecco. Le gente piange Amy Winehouse anche per questo: non perché “la società dello spettacolo, la perdita di valori” e le altre stronzate pseudo-sociologiche che ci ammanniscono in questi casi, ma perché la sua ansia di distruzione la conosciamo bene. È una di noi che non ce l’ha fatta. E ci domandiamo perché noi invece ci siamo salvati.
A molti probabilmente sembrerà una mancanza di rispetto parlare di due argomenti così difformi, addirittura quasi accomunarli, nello stesso post. Io però li ho vissuti così. Due facce della stessa medaglia. Due forme di quel nemico che ci cresce in seno, come società e come individui, e che non riusciamo mai a cogliere davvero. Fino a quando non ci addenta.

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