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Calciomania

Da bambina, per un po’ ho finto che il calcio mi interessasse. È che quando tutti intorno a te sono eccitati per qualcosa, poi ti viene naturale, specialmente se sei piccolo, cercare di adeguarti. Ho tifato Roma, ho tifato Sampdoria (l’anno dello scudetto), infine mi sono attestata sulla Lazio. Ma la verità è che me ne frega davvero poco. Non è snobismo. È proprio che le partite non mi divertono particolarmente. Mi piace il rito che c’è intorno. Guardare la nazionale con gli amici ha sempre il suo perché, ma finisce là. Mi piacciono altri sport, tipo il nuoto, che mi rendo conto che a tutti sembrerà infinitamente più palloso del calcio, ma tant’è.
In famiglia, ovviamente, le cose non vanno così. Giuliano non è esattamente un ultrà, ma tifa per la Roma. Spesso compra la partita per vederla in tv, segue il campionato. Per cui, quando hanno offerto a mio padre due biglietti omaggio per la partita Roma Palermo, Giuliano si è affrettato a dire che sì, la cosa gli interessava. Gli interessava molto.
Ora, come tutti gli ignoranti di calcio, la mia immagine dello stadio è un posto dove la gente va a menarsi la domenica, per cui la mia preoccupazione principale era la collocazione dei posti omaggio, perché anch’io nella mia ignoranza so che c’è la curva, poi ci sono i distinti, poi c’è la tribuna.
Ci avviamo allo stadio, parcheggiamo a Viterbo, e dopo una piacevole maratona, trafelati arriviamo nel posto dove ritirare i biglietti. Li prendiamo, e ci avviamo con la fiumana umana verso l’Olimpico. Ora, ignorante sì, ma all’Olimpico c’ero già stata in passato: a sentire la lirica e un paio di volte per il Golden Gala. Comunque, arriviamo, e i nostri posti non esistono sul tabellone con la mappa dello stadio. Restiamo perplessi. Ci avviamo comunque verso la tribuna Montemario, che mi dicono essere il posto più chic dell’Olimpico. Cominciamo ad intravedere hostess tacco 12 rigorosamente sopra il metro e settanta e sotto la 42. Intimoriti, ci avviciniamo a chiedere lumi.
“Più avanti, dopo le vetrate”.
Avanziamo, e praticamente tagliamo tutta la tribuna Montemario. Ma ingressi non ce ne sono. Tranne due. Uno con su scritto Ingresso Autorità, e lo scartiamo, l’altro appena appena meno figo del precedente, ma comunque farcito di hostess in tailleur nero. Sarà lì?
Sempre più intimoriti, entriamo e chiediamo ancora a una hostess. Considerate che il nostro look per la vita di tutti i giorni va sul casual assai spinto, che, unito alle nostre tipiche facce da bravi ragazzini, ci fa scambiare sempre per pischelli sottoproletari. Comunque, la tipa vede i biglietti, ci fa un gran sorriso e ci dice: “Sì, è qui, dietro questa parete salite le scale”.
E lì campiamo. I famosi biglietti sono nell’area vipppppppps. Ops. E infatti non puoi fare mezzo metro senza imbatterti in hostess e steward usciti da un catalogo di Dolce e Gabbana, sempre sorridenti e sempre pronti a darti indicazioni. Come se non bastasse, prima dell’accesso allo stadio c’è un’ampia sala con buffet, che io mi limito a rimirare da molto lontano, visto che ho già mangiato ma la fame non mi manca mai. E, finalmente, i posti.
Sono piccoli palchi con mezzi muretti in compensato, stile open space, da una decina di posti l’uno. Dentro, nessun sedile proletario, ma lussuosissime poltrone da cinema con tanto di porta vivande. Nella mia ci entrerebbero due me, e starebbero anche comode. Davanti al palco, un frigobar e uno schermo LCD che mostra la partita. Davanti, i giocatori ad uno sputo. Sulla destra, a cinque metri di distanza, Totti e il figlio in un palco uguale al nostro. Giuliano si esalta, io mi sento come un nobile francese durante la Rivoluzione. È che non mi abituo mai a cose così, anche se il mio lavoro mi ha messo svariate volte in situazioni del genere.
Comunque. A questo punto suppongo vorrete sapere com’era la partita. Io il calcio non l’ho mai visto live, e devo dire che l’azione combinata della poltrona da cinema e del televisorino mi hanno dato l’impressione che fossi a casa sul mio divano. Non ho percepito una sostanziale differenza tra lo star lì o davanti al televisore. A parte la gente. Ecco, la partita è un rito collettivo. Come quando vai ad un concerto. Certo, senti meglio la musica col cd sul tuo fido stereo casalingo, ma vuoi mettere essere lì, con la musica che ti batte nello stomaco, con migliaia di altre persone che urlano e cantano con te, e sfogarti, ballare, cantare…È tutta un’altra cosa. Così, il composto silenzio intorno a noi – a parte un ragazzo mio vicino che s’è sbracciato tutto il tempo a dare indicazioni ai giocatori, “tirala là! Quello lì è libero! Di qua!” – si opponeva il boato della curva. Una cosa allucinante. Migliaia di voci che gridano all’unisono, braccia tese nella stessa direzioni, piedi che fanno tremare l’intero stadio battendo il ritmo sul cemento. La forza della folla, insomma, che tante volte ho avuto modo di vedere, e temere. Ti esalta e ti spaventa. E soprattutto ti trascina. Perché alla fine, niente, ho iniziato a tifare. Debolmente, ma mi era impossibile resistere. Dovevo fare come gli altri, se riuscite a capirmi. E non è che d’improvviso ho cambiato fede calcistica, o ho iniziato ad interessarmi al calcio. È solo che la folla è potente, canta un canto irresistibile. È per questo che le masse fanno le rivoluzioni.
E insomma, niente, mi sono divertita, tutto sommato. È stata un’esperienza. Forse lo rifarei anche, pensa te. Ma, nonostante il mio esempio, Giuliano mi ha giurato che non verrà mai con me allo stadio a vedere la Lazio.

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