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Riflessioni sparse

All’inizio di tutta questa storia, quando la mia ansia era oltre i livelli di guardia, mi si fece notare che il problema non era tanto il virus o la situazione, ma io e come la stavo prendendo.
Ecco, quella cosa, che allora non capii a fondo, ora si applica a tutta intera la nostra società. La stiamo prendendo malissimo, ma nel senso che il nostro prenderla così male, un po’ da tutti i lati, ci sta attivamente allontanando da qualsiasi possibile soluzione a una situazione sì brutta, ma che si è ripetuta infinite volte nella storia dell’uomo, che è connaturata alla nostra esperienza da quando abbiamo avuto quella gran bella idea di smettere di essere cacciatori e raccoglitori, e metterci a fare gli agricoltori e i pastori.
La nostra società è preda da settimane di una crisi isterica generalizzata, basata sul fatto che a nessuno di noi era mai capitata una cosa del genere, e che se n’era persa persino la memoria storica. La spagnola, l’ultimo grande evento simile a quello che stiamo vivendo, dista cento anni pari pari, piuttosto pochi, a ben vedere; eppure, finita, l’abbiamo abilmente rimossa e infilata nel cassetto delle cose che abbiamo arbitrariamente deciso non potessero più capitarci.
Del rapporto schizofrenico delle società moderne con la scienza ho già detto: o prevale il complottismo, che è uno scimmiottamento della scienza, oppure la scienza diventa la nuova divinità laica che tutto sa e tutto può. Eh sì che ce l’avevano detto: non sappiamo molte più cose di quelle che conosciamo, la scienza non ha tutte le risposte, e, quando ne trova alcune, ci mette tantissimo tempo e sono tipicamente risposte limitate nel tempo e nello spazio. Ma no; le epidemie sono cose morte e sepolte, perché abbiamo gli antibiotici, i vaccini e i medicinali. E allora quel che è successo è che abbiamo perso la capacità di accettare di non sapere le cose.
Non sappiamo la letalità del virus, non sappiamo come si diffonda, non sappiamo quanto sia contagioso, non sappiamo quali sintomi abbia, non sappiamo come si cura. E questa cosa ci manda ai matti. Perché per gli ultimi ottant’anni abbiamo vissuto in un’illusione di certezza cui ci siamo assuefatti: nonostante tutto quel che ci dicevamo, sapevamo dove stavamo andando, anche quando avevamo la certezza che la strada fosse sbagliata (vedi cambiamento climatico, per dire). Così, alla prima incertezza vera, alla prima battuta d’arresto, siamo rimasti tutti di sasso.
Cerchiamo disperatamente certezze: sapere quando finirà, sapere come finirà, che fine faranno i nostri progetti, quel che facevamo prima. E non avendo risposte, ci creiamo come sempre degli idoli: i runner che escono e spargono il contagio, le code sulle strade – causate semplicemente dai posti di blocco che abbiamo voluto per essere sicuri che tutti rispettino la quarantena – di chi si suppone vada in vacanza, i complottismi e ogni sorta di idea bislacca su come evitare il contagio. Ora come ai tempi della peste di Manzoni, e prima ancora quella del ’300, e poi ancora più indietro. Ogni volta lo schema è sempre più o meno quello. Ci credevamo moderni, ma siamo come i nostri antenati: preda di malattie sconosciute, e proni alla superstizione.
Ovviamente, ci sono domande che è giusto farsi: chiedersi di chi sia la responsabilità della tragedia italiana, che al momento non ha eguali nel mondo, domandarsi dove abbiamo sbagliato, o come proseguire da qui in avanti. Tutto giusto. Ma il senso di catastrofe che emerge dai social, persino dagli sguardi da gatto paralizzato dal terrore davanti alla macchina che lo investirà che ognuno di noi sfoggia mentre va a fare la spesa, beh, quelli non servono a niente.
Ci è capitato perché sì. Ok, ci sono indubbiamente errori che abbiamo compiuto che hanno portato alla pandemia. Ma saremo tutti d’accordo che son ben veniali rispetto al prezzo che stiamo pagando. Quindi è capitato perché capita. Non ne sapremo ancora a lungo, e nel frattempo c’è una sola cosa da fare. Accettare la situazione e adattarsi.
Pensavo che ci avrei messo una vita ad adattarmi a stare sempre dentro casa, a fare due ore di fila al supermercato, a convivere con la consapevolezza che i miei cari possano morire e la causa della loro morte possa essere io. E invece ci ho fatto i conti. Ieri, con la mascherina, in fila dal salumiere, canticchiavo Lady Gaga che stava passando alla radio. Mi sono inventata una nuova routine per la giornata, sto pensando a nuovi modi per fare spesa che non passino dal supermercato. Non penso mai a quando tornerò al ristorante, a fare presentazioni, ad andare in vacanza. Accetto l’oggi per quel che è.
Certo per me è facile. Sono entrata in questa quarantena con tutte le facilitazioni possibili e immaginabili e con un solo handicap. C’è gente che vive in condizioni intollerabili, e ovviamente occorre fare tutto il possibile perché questa gente possa uscire viva e in salute da questa epidemia – perché non si muore solo di COVID, in questo periodo, ma ci piace dimenticarlo -, ma per il resto, la vita ci ha dato molti limoni, da un giorno all’altro. Possiamo star qui a piangere, o farci una marmellata, o tanta limonata. Ci si adatta; l’homo sapiens non sarebbe arrivato fin qua se non sapesse adattarsi pressoché a tutto. E ci si adatta pure a vivere nell’incertezza. Perché la verità è che l’incertezza è sempre esistita. Non abbiamo mai saputo davvero niente, ma ce la raccontavamo. Ora non possiamo raccontarcela più, meglio farci i conti.
Ho avuto un sacco di problemi, nella mia vita, con la spiritualità, chiamiamola così. È un aspetto ineliminabile del mio essere, ma è anche qualcosa che non riesco ad accettare così, senza star lì a farmi duemila problemi e domande, a credere e basta. Non sono io, semplicemente. Ma se c’è una cosa che alla fine mi piace del modo in cui l’ha Chiesa ha deciso di stare accanto alla gente in questo periodo, è che non ti dice “passerà” – continuo a odiare l’hashtag “andrà tutto bene”, quando in realtà per milioni di persone le cose sono già andate malissimo -, non ti promette che Dio stenderà il suo braccio e da domani si torna alla normalità, qualsiasi cosa significhi – a parte un paio di cadute di stile qua e là in questo senso -. Ti dice invece che la sofferenza, nel suo complesso, non si può eliminare. Si può alleviare, le puoi sfuggire un certo numero di volte, ma prima o poi ti acchiappa e non potrai scappare. E allora potrai solo stringere i denti, sapere che non sei solo, e dirti “adda’ passa’ a nuttata”. Sì, quel che dice Eduardo in Napoli Milionaria. Devi passare attraverso la tempesta, perché non c’è altro modo. La devi accettare, perché questa è la vita. O così, o strappi il biglietto, come diceva Ivan ne I Fratelli Karamazov, e io, nonostante tutto, quel biglietto me lo voglio ancora tenere molto caro.
Ecco. Io penso che dovremmo stare tutti un po’ più calmi. Insistere per ottenere dai nostri governanti tutto il possibile, ma smettere di cercare l’impossibile. È già successo, succederà ancora. Siamo fragili, bella scoperta. Ma non è che non lo fossimo prima: prima ce lo potevamo negare, ora non più. Non andrà tutto bene. Ma andrà, come è sempre andata.

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