Il post su Sherlock arriva prima del previsto.
Preparatevi, sarà lungo, perché le sette puntate viste finora mi hanno stimolato una serie di riflessioni generli sullo storytelling. Così, per fingere che non mi sto tanto divertendo a vedere un’ottima serie televisiva, ma sto lavorando
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Comunque. Non sono una grande esperta di Doyle, anche se ho letto tipo un racconto su Sherlock Holmes e da bambina amavo, e ho letto svariate volte, Il Mondo Perduto, ma lì c’erano i dinosauri, e all’epoca – ma pure adesso – bastava una squama a comprarmi per la vita. Mi sono quindi avvicinata al prodotto Sherlock semplicemente perché sono orfana di serie televisive da un po’. Visto che i miei amici su Facebook non facevano che parlarne, mi sono comprata i primi due cofanetti. Visione rigorosamente in lingua originale, che così faccio esercizio, e senza sottotitoli, che non sono mai stata capace di leggerli e seguire l’azione.
Diciamo che fino alla seconda puntata della prima stagione l’ho trovato gradevole. Intendiamoci, c’era già moltissimo di apprezzabile. Ma Sherlock Holmes ha trovato otto miliardi di incarnazioni differenti nei secoli, e quel tipo di dinamica – sociopatico geniale, al contempo insopportabile e adorabile, affiancato da uomo comune saldamente piantato coi piedi per terra che rappresenta un po’ il suo lato umano – ci è stata proposta in mille salse diverse, a partire dalle riduzioni cinematografiche e televisive vere e proprie dei racconti, fino a scantonare a cose evidentemenye ispirate a, tipo il Dr. House o in certa misura il rapporto Sheldon-Leonard in The Big Bang Theory. Non che nel caso di Sherlock la cosa fosse riproposta male, o in modo banale. Solo, mi sembrava di averla già vista. Mettiamoci anche che, delle sette puntate che ho visto finora, la 1×2 è la più debole. Poi è arrivato il finale di stagione. E lì, vabbeh, niente, è partito l’amore. Probabilmente è dovuto al fatto che ho una fascinazione per i cattivi sopra le righe, psicotici e interpretati da gente che pare pazza vera, e dunque con Moriarty il mio gusto per il grottesco è stato abbondantemente titillato, sarà che la trama era intricata, complessa, e che indubitabilmente “acchiappa”, sarà che al terzo episodio tutte le dinamiche, le presentazioni del caso, erano fatte, e dunque il meccanismo ben oliato era lanciato, ma, niente, ho capito che stavo diventando dipendente. Poi arriva quel gioiellino della 2×1, e lì ero ormai perduta.
Mi ci è voluto un sacco di tempo per mettere a fuoco perché Sherlock mi piaccia, e perché certe cose, certi snodi, abbiano finito per ossessionarmi. L’impressione iniziale – di cose del genere se ne sono già viste, quanto a nucleo tematico – non è cambiata. E allora? E allora ieri, mentre mi gustavo il primo episodio della terza stagione, ho avuto la mia epifania. Ho scoperto una cosa che sapevo già: non è quel che racconti, è come lo fai. E per come, nel caso di un telefilm, intendo regia, musica, attori, sceneggiatura.
L’originalità è ormai un mito inarrivabile. Cioè, certo, c’è chi la insegue, magari la consegue anche, e fa benissimo, ma la verità è che le storie che funzionano meglio sono quelle che ci siamo sentiti raccontare miliardi di volte. Le conosciamo a memoria, probabilmente a volte ci risultano anche prevedibili, ma non possiamo fare a meno di restare catturati, perché sono seminali. E Holmes, che è sulla cresta dell’onda da due secoli, è una di queste storie. Venuta meno l’originalità, resta solo la messa in scena, il modo di raccontare. E Sherlock, sotto questo punto di vista, è magistrale, in tutto. Novanta minuti di puro godimento. Funzionano gli attori, che, cosa gli vuoi di’, dal primo all’ultimo, compreso quello che compare per mezzo nanosecondo, sono tutti bravissimi, e si producono in interpretazioni che ti resta solo da alzare le mani. Funziona la regia, dinamica, curata e a volte preziosa, senza essere però troppo “fighetta”, con artifici visivi divertenti (tutte quelle scritte a schermo…deliziose). La fotografia è qualcosa di spettacolare: hai una città dove il sole non c’è mai, dove tutto è grigio? ‘Sti cazzi! Approfittiamone! Che sia tutto luccicoso di pioggia, grigio e definito come in un quadro. La sceneggiatura…e vabbeh, pure lì hai tipo venti trenta battute a episodio che ti tatueresti sulla pelle. I soggetti spesso vengono dai libri e dai racconti, e ne sono, a quanto mi dicono coloro che li hanno letti, geniali reinterpretazioni (devo dire che la rielaborazione della famigerata caduta dalle cascate di Reichenbach, in effetti, lo è), per cui funzionano alla grande. La somma di questi elementi dà un risultato impeccabile, in cui tutto funziona, e che soprattutto produce un mondo altro. Guardare Sherlock è infilarsi per novanta minuti in una dimensione parallela e autosussistente, chiusa in se stessa, come infilarsi in una camera insonorizzata e staccare dal mondo. È la capacità della grande narrazione di genere, creare mondi, salotti all’interno dei quali il lettore è invitato ad entrare e ad ammobiliare fino a sentirsene parte. Guardi un episodio, e, non so come dire, sei a casa. Creare mondi non è solo inventarsi il pianeta X con le regole Y; è costruire ambienti che catturino il lettore/spettatore e non lo lascino andare. Sherlock è una macchina per produrre questo. E, ça va sans dir, non è tanto la storia del “caso dell’episodio”, o soltanto di uno che, armato di sola logica, mette ordine nel caos del mondo, per quanto, ovviamente, sia anche questo. È una storia di evoluzione di personaggi, dei rapporti che tessono, delle reazioni che hanno di fronte a ciò cui la vita li mette davanti. Sono i personaggi che funzionano, e quelli che appassionano. Anche questa è una banalità, eppure nella mia carriera di lettrice spesso mi sono imbattuta in libri in cui leggevo le gesta dei protagonisti e non mi interessava davvero nulla di loro o di quel che sarebbe accaduto. La gente si limitava a fare cose e vedere gente (cit.) senza produrre mai un vero coinvolgimento col lettore. A quel punto puoi anche ammazzarmeli tutti, se non sono entrata nella loro testa nessuna di quelle morti, per quanto egregiamente scritta, sarà un picco emotivo. Ecco, in Sherlock ti frega di tutti, ma proprio tutti. Nell’arco di soli sei episodi, sono diventati tutti amici miei per i quali spasimo. E non è facile.
E poi c’è questa storia del primo episodio della terza stagione, quella che davvero mi ha fatta riflettere. Da qui in giù sarò spoilerosa per chi non conosce un po’ le vicende dell’Holmes letterario, e un po’ anche con chi non è ancora arrivato a questo punto della serie. Niente di che, comunque. E insomma, la seconda stagione terminava col finto suicidio di Holmes, e lasciava alla terza l’improbo compito di spiegare come aveva fatto Sherlock, in tre secondi netti in cui Watson non guardava, a fingere di spiaccicarsi per terra ma in realtà a sopravvivere. Mi dicono che i due anni trascorsi tra seconda e terza stagione sono stati impiegati da molti fan a cercare di spiegare come questa cosa sia stata possibile. Ci troviamo insomma in una situazione à la Lost: mettere insieme gli indizi per cercare di spiegare una cosa inspiegabile. Lost se l’è cavata sparando nel misticismo. Sherlock è ancora più paraculo: nemmeno ci prova a darti una spiegazione. Ne inanella quattro o cinque nell’episodio, tutte sostanzialmente implausibili per una ragione o per l’altra (ma tutte che strizzano in qualche modo l’occhio al fandom che s’è scervellato) e conclude senza darne nessuna. La reazione dello spettatore dovrebbe essere di frustrazione e rabbia. E invece no. Al netto delle varie opinioni, non gliene frega niente a nessuno. A me non è fregato niente su tutta la linea. Ma zero proprio. E perché? Perché è tutto “a magic trick”, un gioco di prestigio. Il narratore agita le mani, e se le muove bene, a te non interesserà sapere da dove è uscito il coniglio: ti godrai la magia, sarai tornato bambino per un attimo, e il trucco sarà irrilevante. Così con le narrazioni fatte per bene. Chi sa narrare, chi lo sa fare per davvero, è in grado di far passare il lettore sopra a molte incongruenze e implausibilità. Non sto dicendo che si debba fare, non sto dicendo che la maggioranza lo fa: dico solo che quando una storia ti prende per davvero, certe cose semplicemente smettono di avere importanza. E perché? Perché, semplicemente, non sono quelle il punto. Non era importante, ai fini della trama, dello sviluppo dei personaggi, persino della loro caratterizzazione, sapere come Sherlock sia sopravvissuto. Non è il fulcro della narrazione (lo era invece, per inciso, in Lost, che ci aveva fondato su tutta la sua mitologia). Siamo tutti Watson, quando Sherlock inizia a cercare di spiegare come ha fatto a portare a casa la pellaccia. Non ci interessa sapere come ha fatto, ma perché. Tutto qua.
Ammetto che il trucchetto mi ha lasciata ammirata. È stata una scelta coraggiosa, ma assolutamente vincente: è la potenza della storia, della narrazione, che vince su tutto. Ma devi essere bravo, un sacco bravo, fuori scala.
Comunque. Come avrete capito, io in quel salotto sono entrata e mi ci sono fermata, ritagliandomi il mio bell’angolino. E ho lasciato che l’illusionista facesse su di me tutti i trucchi che voleva. Ci sono dentro. L’unico, vero problema è l’estrema brevità del tutto: ogni serie conta tre puntate, che durano 90 minuti, certo, ma fanno comunque sei episodi di una serie televisiva normale, di quelle da 26 episodi a stagione. Poco. Già oggi mi sono rifiutata di vedere la 3×02 perché poi ne manca una sola (in tutto, al momento, sono tre stagioni), poi mi tocca aspettare, che palle…Ma il marito non è stato ancora catechizzato, per cui conto almeno su una visione ulteriore. E poi, poi si aspetta. Sperando che pure questa non faccia la fine di Misfits, una delle più grandi delusioni di questi anni di serie televisive. Ma voglio essere ottimista, via
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