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Pieni e vuoti

La mia memoria è una cosa strana. Ci sono cose che ricordo molto bene, eventi magari non fondamentali, ma che ho stampati in mente chiaramente. Ricordo soprattutto i sentimenti, le emozioni, belle o brutte, di tutti i periodi della mia vita. E poi, ci sono cose, anche importanti, che sono semplicemente scomparse. Non se sia una cosa patologica o no, a volte me lo sono chiesto, ma ho dei buchi, a volte grossi.
Un buco non indifferente è il mio esame di maturità. Intendiamoci, non è che non ricordo proprio niente. Mi mancano però dei pezzi. Ho dei flash separati, e dei punti di buio. È vero che l’evento appartiene per quel che mi riguarda ad una vita fa. L’università ha rappresentato per me uno spartiacque definitivo: prima ero una persona certo ansiosa, ma la cui ansia non riguardava mai l’attività scolastica. Non avevo mai davvero paura del compito in classe, o dell’interrogazione. Studiavo, e avevo l’impressione che bastasse. Non ricevevo pressioni particolari dai miei, e le cose andavano bene senza troppi problemi. Non mi sono mai dovuta proprio ammazzare di studio.
Poi, misi piede all’università e, senza ragioni specifiche, decisi che studiare non bastava più, che ci voleva un qualche quid che io non possedevo. Così, dall’oggi al domani. Prima ancora che potessi dare qualche esame e provarmi davvero. La mia insicurezza sul lavoro nasce tutta là. E non so da cosa è partita. Comunque.
L’esame di maturità appatiene al periodo immediatamente precedente. Non avevo granché paura. Ero andata bene tutto l’anno, avevo studiato, e mi stavo molto divertendo con la tesina (eravamo i primi a sperimentare quella novità, assieme all’esame che verteva su tutte le materie), non vedevo dove fosse il problema. Quando tutti quelli che ci erano già passati mi dicevano che la maturità non era poi questo granché, io, a differenza dei miei colleghi, ci credevo. Ed è così: ha una grandissima valenza simbolica, certo, ma rispetto all’esame medio dell’università, a livello di difficoltà è una passeggiata.
E così, ho pochi ricordi.
Non ricordo il banco, dove fossi seduta, come fossi vestita il giorno delle prove scritte. Ricordo i faldoni con le prove, l’aspetto della carta su cui erano stampate le tracce dei temi. Ricordo la prof di lettere che cercava di tradurci al volo la versione di greco, mentre i membri esterni della commissione erano fuori. Ricordo la domanda della terza prova sulla quale caddi: fisica, destino volle, una cosa sul moto degli elettroni dentro un filo.
Va meglio con l’orale. Perché ero davvero emozionata, sebbene sicura di me. Di quello ricordo tutto: com’ero seduta, com’era l’aula, le domande e le reazioni dei professori.
Mi viene da pensarci perché ieri è iniziata la maturità, e come ogni anno mi verrebbe voglia di fare uno dei temi. Mi piaceva fare i temi. I post di un blog non sono un po’ tutti temi liberi? O provarmi con la versione di latino (quella di greco, ormai, è proibitiva). O fare lo studio di funzioni dello scientifico, perché era una delle poche cose di analisi che mi divertirono pressoché da subito all’università.
È che a volte mi chiedo se non fosse stata necessaria, la paura della maturità, se non mi sia persa qualcosa, dormendo in pace la notte prima. In fin dei conti, la vita degli uomini è costellata di passaggi simbolici, la cui importanza non sta nella loro difficoltà oggettiva, ma in tutto ciò che a livello sociale rappresentano. La maturità è questo, un rito collettivo cui tutti partecipano, una esperienza che accomuna buona parte della popolazione, una porta attraverso la quale tutti siamo passati. La mia, semplicemente, era aperta. Ho avuto altri simboli, dopo, altri passaggi rituali, diversi. Ma è una mia caratteristica, non ritrovarmi in certe cose e farlo in altre, come se l’attesa di cui certi eventi sono caricati me li abbia resi meno decisivi, più banali. E poi mi sono rifatta dopo, all’università. Alla discussione della tesi di laurea sono arrivata che ero abbastanza uno straccio :P .
Forse ognuno ha il suo percorso, i suoi simboli, i suoi passaggi decisivi. A volte corrispondono con quelli di tutti, a volte no. Per questo probabilmente a ognuno di noi sembra di vivere certe cose come se fossimo i primi al mondo. Il bello sta tutto qua, probabilmente.

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Considerazioni laterali alle elezioni

La politica mi ha sempre interessata molto, credo si intuisca :P , ma analisi serie sul voto non sono in grado di farne. Non è neppure il mio mestiere, a dirla tutta. Ma ieri notte, mentre l’insonnia mi teneva sveglia sui numeri dello spoglio, mi sono venute in mente un paio di considerazioni che condivido con voi.

L’imprevedibilità della storia
Chi mi segue su Twitter forse avrà notato, qualche settimana fa, un tweet in cui segnalavo un podcast storico di cui mi sono appassionata: HistoryCast. In verità lo storico di famiglia è Giuliano, ma in questa ha tirato dentro anche me, che in storia non sono mai stata granché forte. Comunque. Ascoltando i podcast (che vi consiglio, perché davvero ben fatti e appassionanti) mi sono resa conto di quanto sia difficile, persino dalla distanza di qualche centinaio di anni, interpretare efficacemente la storia, capire perché è successa una cosa piuttosto che un’altra. Più di una volta, durante l’ascolto, mi sono domandata i contemporanei dell’evento storico come l’avessero vissuto, che ne avevano pensato. Ecco però che anche la contemporaneità è di difficile interpretazione. Più o meno sembrava essere nell’aria un buon risultato per il PD, ma chi si sarebbe mai aspettato percentuali del genere? Il mondo è un posto complicato, in cui risalire l’infinita catena di cause ed effetti è il più delle volte proibitivo, e il cuore dell’uomo e della massa spesso insondabile. Non esistono risposte facili a problemi complessi, e forse questo spiega anche il risultato elettorale. O, almeno, mi piacerebbe fosse così.

L’eterno derby
Non era neppure iniziato lo spoglio, c’erano solo i dati delle proiezioni, e già in rete era partito il carosello dei vincitori che sfottevano i perdenti. Stamattina è anche peggio. Il tono è esattamente lo stesso che le tifoserie usano durante i derby: umiliazione dell’avversiario, “semo mejo noi”, gioia non tanto perché la propria idea del mondo avrà una rappresentazione maggioritaria in Europa, ma perché l’altro ha perso e aveva torto. Ora, il primo a sposare questa visione calcistica delle elezioni è stato proprio Grillo. Io me lo ricordo Facebook di questo periodo, lo scorso anno. Quindi vale anche un po’ il discorso “chi di sfottò ferisce, di sfottò perisce”. Io lo capisco che, dopo mesi di insulti di tutti i generi, uno voglia prendersi la sua rivalsa. Ma questa non è una partita, in democrazia non si punta a distruggere l’avversario, e non è che “abbiamo vinto noi, po-popo-popo-po-po”. Non è così, in gioco c’è molto più che lo scudetto e l’avversario politico non è il “nemico”. Quindi questi caroselli da vittoria dei mondiali forse possono tirar su l’umore il lunedì mattina, ma sotto sotto ci svelano una realtà desolante: siamo ancora al campanile. Io non lo so se sia colpa della nostra storia travagliata, dell’aver vissuto separati, spesso in guerra fratricida, per secoli, ma il campanilismo, la divisione in fazioni è la vera carattaristica di questo paese, ed è forse quella che ci tiene ancora inchiodati qui, al margine della modernità, incapaci di diventare una democrazia matura.
Ripeto, ha cominciato Grillo (in verità ha cominciato davvero Berlusconi, un ventennio fa, ma Grillo ha raffinato la tecnica), indicando senza se né ma il nemico in chi non vota Movimento 5 Stelle. Ma adagiarsi su questa lettura puerile della realtà, facendo la pernacchia a chi ci dava ieri del cretino o del connivente non è esattamente il modo giusto per cambiare le cose. Non ci si può sempre dividere in fazioni in constrasto su ogni cosa, che si odiano a prescindere come i tifosi della Roma odiano quelli della Lazio. Ma tant’è, il clima politico adesso è questo. Spero in un’inversione di tendenza che ci faccia prima o poi diventare una democrazia vera, ma la strada mi pare lunga.

Votare contro
L’unica volta in cui l’elettorato in Italia si compatta è quando occorre votare contro qualcuno. Il 40% e passa del PD non è un attestato di fiducia a Renzi, o almeno non lo è del tutto. È soprattutto una certificazione di sfiducia verso Grillo. Grillo ha fatto paura, e la gente ha reagito col famoso “voto utile”. E la gente aveva anche ragione a spaventarsi: tribunali del popolo, lo spauracchio di Hitler, una retorica sempre violenta e di demonizzazione dell’avversario…non dico che Grillo sia pericoloso in sé, ma i disocorsi che fa lo sono di sicuro, la visione del mondo che ha espresso in questa campagna elettorale è respingente per molta gente (me compresa, per dire). E allora ecco che si vota contro, come se non sapessimo mai esattamente quel che vogliamo, ma fossimo sempre ben capaci di dire cosa non vogliamo. E anche questa, purtroppo, non è una bella cosa. Forse è semplicemente che da vent’anni a questa parte non siamo in grado di esprimere una classe politica davvero incisiva e convincente, o forse questo è lo spirito del nostro popolo. Chissà. Ma forse anche su questo dovremmo riflettere.

Le buone notizie
Si riassumono, per quel che mi riguarda, soprattutto nel fatto che per una volta siamo i virtuosi d’Europa. No derive populistiche di vario genere, no razzismo, no antieuropeismo. In un’Europa che nel complesso ha perso la bussola, noi rimaniamo saldi, e scegliamo chi ha tenuto i toni più bassi ed è portatore di un’idea salda di Unione. È una cosa così rara che dovremmo davvero rallegrarci. Ok, non che quest’Europa funzioni al meglio, non che vada tutto bene, ma l’unione è un processo inevitabile, che s’è innescato molti anni fa, e che semplicemente è espressione di un’operazione più vasta di globalizzazione che spero porti un giorno all’abbattimento di tutte le frontiere. Ecco, siamo ancora dentro e ci crediamo. È una cosa bella, forse l’unica per la quale dovremmo rallegrarci, tutti, stamattina.

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Quel che sto facendo

Viaggio. Parecchio. Questa settimana, tre città diverse. Mi sveglio in letti differenti, sotto luci diverse.
Prendo treni e provo a svenirci su, coinvolgendo ignari estranei che probabilmente racconteranno la cosa agli amici negli anni a venire (“e poi c’era ‘sta tipa strana, con un cappello, tutta bianca, che m’ha detto che se sentiva male e che se cascava per terra la dovevo aiutare. Ma io non lo so…”).
Cerco di perdere treni, ma poi recupero correndo per un chilometro sotto il sole, con almeno dieci chili di bagagli al seguito. Almeno faccio moto.
Mi sento grassa. Da qualche mese. Va così. È una delle numerose cose che nella mia vita seguono un andamento sinusoidale. Devo un po’ recuperare il controllo della roba che mangio, o semplicemente aspettare che passi.
Leggo i primi pareri su Nihal from the Land of the Wind, che ancora non è uscito (uscirà il 27 Maggio), ma gira già in versione cartacea per una serie di giveaway. E d’improvviso torno indietro di dieci anni. Non so se ne sono contenta o meno, di questo ritorno al passato. Credevo di aver già dato :P .
Leggo anche quelli su Pandora, per la verità. E pare vi stia piacendo. Son contenta, ci ho lavorato un sacco; ad un certo punto, ne ho praticamente riscritto due terzi.
Soprattutto lavoro. Un sacco. Su tanti progetti diversi. A volte provo a dire di no, ma poi, niente, alla fine capitolo. È che più passano gli anni più questo lavoro è parte integrante del mio modo di essere. Non è qualcosa che faccio, che pratico dalle 9.00 alle 18.00 e poi via, riposo. È quello che sono. Che probabilmente sono sempre stata. Non saprei esattamente come definirmi senza le mie storie. Non so se sia l’unica cosa che so fare, o se davvero so farla, comunque, ma di sicuro scrivere è un bisogno, prima ancora che un lavoro, un piacere, un divertimento.
Per cui, nulla, manco da qui perché lavoro un sacco. In compenso, ci si potrà vedere spesso dal vivo, che probabilmente è anche meglio :) .

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Cosa ci fa andare avanti

Uno dei primi problemi che mi sono posta, dopo essere passata dal lato di chi le storie le inventa, è stato capire quali soddisfazioni cercare nel mio lavoro. In sintesi, in seguito a quali particolari eventi o reazioni del pubblico avrei dovuto concludere che ero soddisfatta di ciò che stavo facendo. Può sembrare una questione da poco, ma non lo è. Perché la letteratura non appartiene a quelle branche dello scibile umano in cui ci sia unanimità sui criteri che determinano la qualità, e dunque un libro che la critica trova orrendo poi magari vende tantissimo, e viceversa, e allora chi ha ragione? Inoltre, la scrittura è un mestiere sostanzialmente solitario, l’incontro col pubblico è limitato e viziato da bias a monte (a una presentazione tipicamente viene la gente che già ti ama, e anche chi ti scrive in larga maggioranza è chi ti apprezza). E allora?
Allora devi scegliere l’obiettivo. Puoi decidere che ti accontenti delle buone vendite; d’altronde, viviamo in una società capitalista, e coi soldi ci si campa, per cui riuscire a vivere del lavoro di scrittura è un grandissimo traguardo che riesce a pochi e che dovrebbe lasciare soddisfatti. Oppure c’è chi vuole il riconoscimento da parte della critica, o si sente soddisfatto quando riceve un premio. La verità è che ognuno ha le sue soddisfazioni, e nessuna di queste è assoluta: ci sarà sempre qualcuno che, nonostante gli obiettivi raggiunti, ti verrà a dire che fai schifo comunque, e contraddirlo è impossibile. Esistono dei criteri di qualità oggettivi, certo, ma contano fino ad un certo punto: il resto è nebuloso e confuso.
Io ci ho messo dieci anni a capire cosa dovessi considerare obiettivo del mio lavoro, a quali tipi di gratificazioni dovessi puntare. Non è stato un processo semplice, perché chi scrive di genere in questo paese – ma anche fuori, mi dicono – è piuttosto negletto, quindi automaticamente parte con uno svantaggio: larga fetta dell’establishment considera quel che scrivi robaccia adatta a palati poco raffinati. Inoltre, andarsi a leggere recensioni in giro per la rete non è un buon modo per capire cosa la gente pensa dei tuoi libri: avete mai fatto caso che c’è una polarizzazione in base al sito che ospita la recensione? Oppure che a fronte di un voto complessivo alto, poi ci sono tipo dieci recensioni tutte negative? E allora?
E allora niente. Quando ho iniziato a scrivere, l’ho probabilmente fatto per cercare di vivere più profondamente le emozioni che mi dava la fruizione di storie. Sono sempre stata un tipo ossessivo, e salto da una fissazione all’altra quasi senza soluzione di continuità. Va da sé che le ossessioni più forti mi vengono dalle storie (o non avrei letto diciassette volte Il Nome della Rosa, per dire, né mi sarei ritrovata, a venticinque anni suonati, a sognare la notte l’isola di Lost) e ho sempre amato il modo in cui certi scrittori sono stati in grado di farmi entrare nei loro mondi, di catturarmi e non lasciarmi più andare via. Ricordo che dopo aver finito Il Signore degli Anelli mi misi a disegnare, e ne venne fuori un Legolas molto à la Pak di Berserk, e l’abbozzo di un Cavaliere Nero che poi non finii più. Dopo aver letto La Solitudine dei Numeri Primi, feci uno schizzo di Alice.
Questo lungo, lunghissimo preambolo per dire che la mia personale soddisfazione, l’ho realizzato da un po’ di tempo, è riuscire ad ossessionare chi mi legge. Voglio entrare a far parte del suo immaginario, anche per poco tempo, ma fargli credere per un’ora o due di vivere a Nashira, o nel Mondo Emerso, o nella villa del Prof sul lago Albano. ora, non so se questa cosa funzioni o no, e su che scala, ma per qualcuno funziona, e tanto mi basta. Con gli anni si diventa saggi, e io sono sempre stata una per i piccoli passi.
La prima volta che ho capito di aver quanto meno colpito qualcuno è stato coi cosplay. Certo, lì c’entra tantissimo anche l’aspetto grafico di Paolo, quindi non era certo solo merito mio, ma qualcuno stava comunque facendo il cosplay di un mio personaggio.
Poi è arrivata la fanfiction su Nihal che incontra Garrett, il fighissimo ladro protagonista di Thief, uno splendido videogioco che mi ispirò Le Guerre del Mondo Emerso. Io non ho mai scritto fanfiction, semplicemente perché non riesco a infilarmi nelle storie altrui e ne voglio di mie, ma non si contano le volte in cui, dopo aver letto/visto una storia sono stata lì a rimuginare, a immaginare finali diversi, a riempire i buchi. E l’idea che qualcuno lo facesse coi miei racconti era esaltante.
Oggi ho scoperto EFP. Ci sono fanfiction di ogni genere. E qualche centinaio riguarda il Mondo Emerso, la Ragazza Drago, e Nashira. E vederle, scorrere i titoli e le trame, vedere cosa aveva colpito di più i lettori, è stato esaltante. Non scrivi una cosa sulla storia di un altro se non sei riuscito a viverci dentro almeno solo un minuto, se per un istante quella storia non ti ha catturato. O almeno, io la vedo così. E l’idea di essere riuscita a produrre, nella mente della persona, quel minuto di rapimento al mondo è una soddisfazione vera, una cosa di quelle che ti spinge subito alla scrivania a scrivere ancora.
A me hanno colpito quelle di Nashira, perché è il figlio minore e quello che veniva dopo sette anni e nove libri di Mondo Emerso, ho sempre avuto paura che non sarebbe piaciuto, che non mi fossi spiegata bene, e via così. Ma c’è veramente di tutto, tra cui tanta roba con personaggi nuovi. Ora, non è che non sapessi che c’erano le fanfiction. È che vederle tutte insieme mi consola, mi fa piacere, mi lusinga. Se vi va, dateci un’occhiata, è un gioco divertente. Attenti perché è pieno di spoiler.

Mondo Emerso
Ragazza Drago
Nashira

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Sherlocked

Il post su Sherlock arriva prima del previsto.
Preparatevi, sarà lungo, perché le sette puntate viste finora mi hanno stimolato una serie di riflessioni generli sullo storytelling. Così, per fingere che non mi sto tanto divertendo a vedere un’ottima serie televisiva, ma sto lavorando :P .
Comunque. Non sono una grande esperta di Doyle, anche se ho letto tipo un racconto su Sherlock Holmes e da bambina amavo, e ho letto svariate volte, Il Mondo Perduto, ma lì c’erano i dinosauri, e all’epoca – ma pure adesso – bastava una squama a comprarmi per la vita. Mi sono quindi avvicinata al prodotto Sherlock semplicemente perché sono orfana di serie televisive da un po’. Visto che i miei amici su Facebook non facevano che parlarne, mi sono comprata i primi due cofanetti. Visione rigorosamente in lingua originale, che così faccio esercizio, e senza sottotitoli, che non sono mai stata capace di leggerli e seguire l’azione.
Diciamo che fino alla seconda puntata della prima stagione l’ho trovato gradevole. Intendiamoci, c’era già moltissimo di apprezzabile. Ma Sherlock Holmes ha trovato otto miliardi di incarnazioni differenti nei secoli, e quel tipo di dinamica – sociopatico geniale, al contempo insopportabile e adorabile, affiancato da uomo comune saldamente piantato coi piedi per terra che rappresenta un po’ il suo lato umano – ci è stata proposta in mille salse diverse, a partire dalle riduzioni cinematografiche e televisive vere e proprie dei racconti, fino a scantonare a cose evidentemenye ispirate a, tipo il Dr. House o in certa misura il rapporto Sheldon-Leonard in The Big Bang Theory. Non che nel caso di Sherlock la cosa fosse riproposta male, o in modo banale. Solo, mi sembrava di averla già vista. Mettiamoci anche che, delle sette puntate che ho visto finora, la 1×2 è la più debole. Poi è arrivato il finale di stagione. E lì, vabbeh, niente, è partito l’amore. Probabilmente è dovuto al fatto che ho una fascinazione per i cattivi sopra le righe, psicotici e interpretati da gente che pare pazza vera, e dunque con Moriarty il mio gusto per il grottesco è stato abbondantemente titillato, sarà che la trama era intricata, complessa, e che indubitabilmente “acchiappa”, sarà che al terzo episodio tutte le dinamiche, le presentazioni del caso, erano fatte, e dunque il meccanismo ben oliato era lanciato, ma, niente, ho capito che stavo diventando dipendente. Poi arriva quel gioiellino della 2×1, e lì ero ormai perduta.
Mi ci è voluto un sacco di tempo per mettere a fuoco perché Sherlock mi piaccia, e perché certe cose, certi snodi, abbiano finito per ossessionarmi. L’impressione iniziale – di cose del genere se ne sono già viste, quanto a nucleo tematico – non è cambiata. E allora? E allora ieri, mentre mi gustavo il primo episodio della terza stagione, ho avuto la mia epifania. Ho scoperto una cosa che sapevo già: non è quel che racconti, è come lo fai. E per come, nel caso di un telefilm, intendo regia, musica, attori, sceneggiatura.
L’originalità è ormai un mito inarrivabile. Cioè, certo, c’è chi la insegue, magari la consegue anche, e fa benissimo, ma la verità è che le storie che funzionano meglio sono quelle che ci siamo sentiti raccontare miliardi di volte. Le conosciamo a memoria, probabilmente a volte ci risultano anche prevedibili, ma non possiamo fare a meno di restare catturati, perché sono seminali. E Holmes, che è sulla cresta dell’onda da due secoli, è una di queste storie. Venuta meno l’originalità, resta solo la messa in scena, il modo di raccontare. E Sherlock, sotto questo punto di vista, è magistrale, in tutto. Novanta minuti di puro godimento. Funzionano gli attori, che, cosa gli vuoi di’, dal primo all’ultimo, compreso quello che compare per mezzo nanosecondo, sono tutti bravissimi, e si producono in interpretazioni che ti resta solo da alzare le mani. Funziona la regia, dinamica, curata e a volte preziosa, senza essere però troppo “fighetta”, con artifici visivi divertenti (tutte quelle scritte a schermo…deliziose). La fotografia è qualcosa di spettacolare: hai una città dove il sole non c’è mai, dove tutto è grigio? ‘Sti cazzi! Approfittiamone! Che sia tutto luccicoso di pioggia, grigio e definito come in un quadro. La sceneggiatura…e vabbeh, pure lì hai tipo venti trenta battute a episodio che ti tatueresti sulla pelle. I soggetti spesso vengono dai libri e dai racconti, e ne sono, a quanto mi dicono coloro che li hanno letti, geniali reinterpretazioni (devo dire che la rielaborazione della famigerata caduta dalle cascate di Reichenbach, in effetti, lo è), per cui funzionano alla grande. La somma di questi elementi dà un risultato impeccabile, in cui tutto funziona, e che soprattutto produce un mondo altro. Guardare Sherlock è infilarsi per novanta minuti in una dimensione parallela e autosussistente, chiusa in se stessa, come infilarsi in una camera insonorizzata e staccare dal mondo. È la capacità della grande narrazione di genere, creare mondi, salotti all’interno dei quali il lettore è invitato ad entrare e ad ammobiliare fino a sentirsene parte. Guardi un episodio, e, non so come dire, sei a casa. Creare mondi non è solo inventarsi il pianeta X con le regole Y; è costruire ambienti che catturino il lettore/spettatore e non lo lascino andare. Sherlock è una macchina per produrre questo. E, ça va sans dir, non è tanto la storia del “caso dell’episodio”, o soltanto di uno che, armato di sola logica, mette ordine nel caos del mondo, per quanto, ovviamente, sia anche questo. È una storia di evoluzione di personaggi, dei rapporti che tessono, delle reazioni che hanno di fronte a ciò cui la vita li mette davanti. Sono i personaggi che funzionano, e quelli che appassionano. Anche questa è una banalità, eppure nella mia carriera di lettrice spesso mi sono imbattuta in libri in cui leggevo le gesta dei protagonisti e non mi interessava davvero nulla di loro o di quel che sarebbe accaduto. La gente si limitava a fare cose e vedere gente (cit.) senza produrre mai un vero coinvolgimento col lettore. A quel punto puoi anche ammazzarmeli tutti, se non sono entrata nella loro testa nessuna di quelle morti, per quanto egregiamente scritta, sarà un picco emotivo. Ecco, in Sherlock ti frega di tutti, ma proprio tutti. Nell’arco di soli sei episodi, sono diventati tutti amici miei per i quali spasimo. E non è facile.
E poi c’è questa storia del primo episodio della terza stagione, quella che davvero mi ha fatta riflettere. Da qui in giù sarò spoilerosa per chi non conosce un po’ le vicende dell’Holmes letterario, e un po’ anche con chi non è ancora arrivato a questo punto della serie. Niente di che, comunque. E insomma, la seconda stagione terminava col finto suicidio di Holmes, e lasciava alla terza l’improbo compito di spiegare come aveva fatto Sherlock, in tre secondi netti in cui Watson non guardava, a fingere di spiaccicarsi per terra ma in realtà a sopravvivere. Mi dicono che i due anni trascorsi tra seconda e terza stagione sono stati impiegati da molti fan a cercare di spiegare come questa cosa sia stata possibile. Ci troviamo insomma in una situazione à la Lost: mettere insieme gli indizi per cercare di spiegare una cosa inspiegabile. Lost se l’è cavata sparando nel misticismo. Sherlock è ancora più paraculo: nemmeno ci prova a darti una spiegazione. Ne inanella quattro o cinque nell’episodio, tutte sostanzialmente implausibili per una ragione o per l’altra (ma tutte che strizzano in qualche modo l’occhio al fandom che s’è scervellato) e conclude senza darne nessuna. La reazione dello spettatore dovrebbe essere di frustrazione e rabbia. E invece no. Al netto delle varie opinioni, non gliene frega niente a nessuno. A me non è fregato niente su tutta la linea. Ma zero proprio. E perché? Perché è tutto “a magic trick”, un gioco di prestigio. Il narratore agita le mani, e se le muove bene, a te non interesserà sapere da dove è uscito il coniglio: ti godrai la magia, sarai tornato bambino per un attimo, e il trucco sarà irrilevante. Così con le narrazioni fatte per bene. Chi sa narrare, chi lo sa fare per davvero, è in grado di far passare il lettore sopra a molte incongruenze e implausibilità. Non sto dicendo che si debba fare, non sto dicendo che la maggioranza lo fa: dico solo che quando una storia ti prende per davvero, certe cose semplicemente smettono di avere importanza. E perché? Perché, semplicemente, non sono quelle il punto. Non era importante, ai fini della trama, dello sviluppo dei personaggi, persino della loro caratterizzazione, sapere come Sherlock sia sopravvissuto. Non è il fulcro della narrazione (lo era invece, per inciso, in Lost, che ci aveva fondato su tutta la sua mitologia). Siamo tutti Watson, quando Sherlock inizia a cercare di spiegare come ha fatto a portare a casa la pellaccia. Non ci interessa sapere come ha fatto, ma perché. Tutto qua.
Ammetto che il trucchetto mi ha lasciata ammirata. È stata una scelta coraggiosa, ma assolutamente vincente: è la potenza della storia, della narrazione, che vince su tutto. Ma devi essere bravo, un sacco bravo, fuori scala.
Comunque. Come avrete capito, io in quel salotto sono entrata e mi ci sono fermata, ritagliandomi il mio bell’angolino. E ho lasciato che l’illusionista facesse su di me tutti i trucchi che voleva. Ci sono dentro. L’unico, vero problema è l’estrema brevità del tutto: ogni serie conta tre puntate, che durano 90 minuti, certo, ma fanno comunque sei episodi di una serie televisiva normale, di quelle da 26 episodi a stagione. Poco. Già oggi mi sono rifiutata di vedere la 3×02 perché poi ne manca una sola (in tutto, al momento, sono tre stagioni), poi mi tocca aspettare, che palle…Ma il marito non è stato ancora catechizzato, per cui conto almeno su una visione ulteriore. E poi, poi si aspetta. Sperando che pure questa non faccia la fine di Misfits, una delle più grandi delusioni di questi anni di serie televisive. Ma voglio essere ottimista, via :) .

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Notizie da Scrivolandia

Con NICDAP sto spingendo al massimo. Lavoro come una forsennata, macinando battute su battute. Le mie sessioni di scrittura sono sempre state piuttosto intense, ma tutto sommato, magari proprio per questo, abbastanza brevi. Tre ore la mattina, a volte un piccolo strascico il pomeriggio. È che dopo un po’ mi esaurisco, sento di non poter andare avanti a raccontare, che quel che ho scritto deve sedimentare perché possa andare avanti. Magari è sbagliato, ma per me funziona così. Prima stesura di pancia, buttando fuori tutto quello che mi riempie la testa, e poi, solo alla fine, rilettura, editing, riscrittura, riscrittura, riscritura. Fino alla nausea. A volte riscrivo anche i 2/3 della prima stesura. Con NICDAP il momento del’esaurimento non arriva quasi mai. Parto e vado sparata come un treno, forzando le tappe. Scrivo di viaggi forsennati, senza soste e tappe intermedie, e sembra un po’ il mio viaggio in questa storia, tutto dritto senza tirare il fiato. Ed è una bella sensazione. Un po’ mi spaventa, perché non mi era mai capitato, ma è piacevole. La passione per un storia è molto simile all’innamoramento, che si tratti di qualcosa che stai raccontando tu o di qualcosa che stai leggendo. Ti gira per la testa, ti torna ossessivamente in mente, te la racconti più e più volte in mente, assaporandola a fondo. Sarà la ragione per la quale le storie che mi piace leggere/vedere poi mi fanno venire voglia di scrivere. Per me lettura e scrittura sono due piaceri strettamente legati, complementari.
Comunque, finirà che NICDAP sarà il libro che avrò scritto più in fretta nella mia carriera. Poi magari correggerò per due anni, vai sapere. Mi pare improbabile, visto che uscirà in autunno, se tutto va bene.
La storia di NICDAP è strana, perché per la prima volta se ne parlò tipo due anni fa, e l’idea in sé, non la storia, che all’epoca neppure esisteva, non mi convinceva. Poi è passato del tempo, l’idea s’è sedimentata, ho tirato fuori la storia e ho cominciato, con l’idea di prendermi semplicemente una pausa prima del gran finale di Nashira, che, già lo so, sarà un’impresa piuttosto totalizzante. E invece col cavolo che sto tirando il fiato. Ci sono dentro con tutte le scarpe, e non credevo sarebbe successo. Ho tirato fuori roba che non credevo sarebbe mai entrata nei miei libri, ossessioni che, me ne accorgo solo ora, cercavano solo un spunto, un’occasione, per venire fuori. Mah, vedremo. Io intanto procedo così, meglio divertirsi finché si può anche perché…

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…ho scoperto che le storie che racconto non sono per me. Cioè, in verità avrei sempre dovuto saperlo, ma l’ho messo a fuoco solo ieri sera. Influenzata dall’ultima puntata della seconda stagione di Sherlock (credo prima o poi ne parlerò qua, dell’unica serie che di recente è stata capace di ossessionarmi come ai bei tempi tipo di Lost), mi sono andata a rileggere un po’ di pezzi dei miei libri che parlavano, diciamo così, dello stesso argomento. Chi ha visto capirà. E niente, è stata una tragedia. Dopo la pubblicazione, dopo le infinite letture e riscritture, gli scazzi e le parolacce che inevitabilmente riverso su quel che ho scritto quando mi tocca correggerlo, le mie parole non mi dicono più niente. Zero in croce. Leggo e il mio coinvolgimento è zero. Le uniche sensazioni che provo sono riferite al “qui cambierei questo”, “meno parole, in questo cazzo di pezzo”, “no, vabbeh, questa qua è davvero patetica”. Riscriverei tutto. Non lo faccio semplicemente perché io sono una che racconta storie, e un libro finito, pubblicato e letto è semplicemente morto, per me, ha detto quel che doveva, quel che non va continuerà a non andare per sempre, avanti un altro. Ma l’emozione che mi aveva agitata quando avevo scritto, quella è svaporata tutta. Perché quando scrivo mi emoziono. Come dicevo prima, è come quando leggo: entro nella storia e ne sono coinvolta. Quelli come me – e come voi, suppongo, visto che mi leggete – leggono per vivere miliardi di altre vite, non tanto perché non gli piaccia la loro, ma perché l’esistenza è una cosa così gigantesca, e breve, che viverne una sola è un po’ un peccato. L’unico modo per guardare la vita da altri punti di vista è leggere, per me anche scrivere.
Mi sono emozionata quando ho fatto morire ognuno dei miei personaggi, anche quelli meno importanti, mi sono emozionata quando hanno trovato l’amore o l’hanno perso, e non l’ho fatto una volta sola, mentre ne scrivevo; l’ho fatto miriadi di volte, quando mi scrivevo in testa quel che avrei poi buttato su carta. E ci sono cose, tipo il destino di Saiph, o di Laio, che mi sono raccontata in testa per mesi, cambiando le virgole, spostando il punto di vista, vivendole da tutte le angolazioni. Poi finiscono su carta è improvvisamente non vivono più in me. Non mi appartengono più, non mi emozionano più. Se ne sono andate. Se ci ripenso sento l’ombra di quel che provavo quando erano ancora solo nella mia testa, se le rileggo mi danno il voltastomaco.
È che una storia scritta non appartiene più a chi l’ha inventata. È di chi la legge. Si fa il suo cammino tra i lettori, e rinnega l’autore. Forse è questa la ragione di un altro fatto strano: ogni tanto su Facebook trovo qualcuno che posta qualche citazione che mi è familiare. Sono citazioni dei miei libri, che magari avevo dimenticato. E, ogni volta, mi sembrano parecchio più belle di quanto non siano, o mi fossero sembrate quando le avevo rilette per qualche ragione. È che sono filtrate dalla sensibilità di chi le ha lette, le ha fatte proprie, vi ha proiettato la sua vita, e le ha lasciate andare diverse, modificate da quell’incontro.
In questo senso forse è vero che non si scrive per se stessi, ma per chi leggerà.

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Apologia di Peppa Pig

Sento parlare in giro (leggi, sui social network) di Peppa Pig, the new Teletubbies. I bambini ne sono pazzi, chiunque abbia un figlio tra i due e i cinque anni deve farci i conti. Ovviamente, arrivato il successo, arrivate le critiche: è molto chic al momento parlarne male. Rincoglionisce i bambini, è disegnata male, che palle, la odio. Io, francamente, la adoro. I perché sono presto detti.
Sì, Peppa Pig è disegnata male; non peggio di Spongebob o le Superchicche, comunque. Ma è disegnata esattamente come un bambino disegnerebbe una famiglia di maiali. Il disegno è proprio di quelli che possono piacere ad un bimbo: semplice e coloratissimo. Certe scelte di animazione ti fan capire che non è scarsità di cura nella produzione (per dire, i nostri arrossiscono quando sono sotto sforzo), ma una precisa scelta artistica (che paroloni, eh?).
Le storie durano cinque minuti, il tempo medio dell’attenzione di un bimbo, e riguardano sempre esperienze in cui un bambino di quell’età può riconoscersi: il raffreddore, la gita al parco giochi (Patata City, vi giuro che sono caduta dal divano quando l’ho sentita…), la vacanza, il primo giorno d’asilo, il litigio con l’amica del cuore.
Ok, sono storie semplici, ma, devo dire la verità, divertono anche me. Ci sono piccole note di autoironia che magari a un bambino sfuggono, ma che rendono il prodotto divertente anche per un adulto. Non lo so, la puntata in cui Peppa incontra la Regina che vuole premiare la persona che lavora di più in Inghilterra (per la cronaca, la signorina Coniglio, che nel mondo di Peppa Pig c’ha il monopolio di tutte le attività: c’ha il supermercato, guida il treno, fa la pompiera, guida l’elicottero di salvataggio, gestisce parchi giochi e bancarelle di vario livello e grado…) secondo me è un capolavoro di autoironia.
Ma, soprattutto, in tutte le puntate che ho visto non ho mai beccato contenuti smaccatamente sessisti, anzi. Mamma Pig lavora, e in molteplici situazioni viene mostrata come decisamente più in gamba del povero Papà Pig, che ci fa più o meno sempre la figura del pasticcione. Le femmine fanno anche lavori maschili (la su citata signorina Coniglio, per dire, ma anche Mamma Pig lavora coi pompieri), i bambini giocano tutti assieme ad esempio a basket, maschi e femmine all together. Può sembrare una cosa da poco, ma non lo è, considerando la sessualizzazione spinta delle pubblicità dei giochi (tu, femmina, bambolotti, tu, maschio, costruzioni, macchinine e soldatini). Per dire, io la leziosissima Sofia la Principessa non la reggo, ma a Irene piace, per cui non gliela vieto, che tanto non servirebbe a niente. Peppa invece è divertente, colorata, e, via, anche intelligente. Molti di quelli che l’additano come arma di rincoglionimento di massa non hanno mai visto un episodio. Poi, vabbeh, può non piacere, questo è ovvio.
Altre critiche, comunque, si appuntano su un punto più delicato: la quantità enorme di marketing legato a Peppa Pig. C’è la qualunque di Peppa Pig, tonnellate e tonnellate di roba con cui scucire i soldi ai genitori. Ok, dà fastidio anche a me, ma viviamo in un mondo capitalistico e consumistico, in cui qualsiasi cosa viene mercificata: Peppa Pig è solo un elemento di un puzzle assai più vasto. Il marketing investe qualsiasi prodotto di successo, Peppa Pig ha più prodotti in giro solo perché ha più successo. Poi, l’abbondanza di prodotti può essere una buona occasione per far capire ad un bambino che non può avere tutto quello che vuole e che non si può comprare tutto. Io, almeno, ci provo.
Insomma, io la Peppa la difendo. Ho visto infinitamente di peggio in giro.

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Tacchi

Non ricordo se da ragazzina avessi una qualche fascinazione per le scarpe col tacco. Forse sì, ma comunque, figlia di madre che adora le scarpe rasoterra, ero intimamente convinta che non fosse roba per me. Mia madre mi raccontava sempre delle sue scarpe del matrimonio, che le piacevano tanto ma l’avevano fatta soffrire parecchio.
Adesso che ci penso, quelle scarpe una volta le misi anch’io, e forse fu il mio primo contatto col mondo del tacco a spillo. Finì che Giuliano mi dovette portare in braccio gli ultimi metri perché le piante dei piedi urlavano pietà. Però erano veramente bellissimi.
Comunque. Nella vita delle donne che diventano ossessionate dalle scarpe, c’è sempre un punto di svolta, il momento in cui ti dici “senti, ci provo”. Il mio punto di svolta è stato un amico che mi ha detto “dovresti provare a mettere i tacchi a spillo, qualche volta”. Credo me l’abbia detto quando ero incinta o poco prima, perché i primi sandali col tacco li comprai poco dopo aver partorito, in piena crisi “per nove mesi mi sono sentita una specie di mongolfiera in fase di gonfiaggio, adesso devo, devo recuperare la mia femminilità”. E niente, poi da lì è partito tutto.
Non si tratta del fatto che sono bassa. Non è che abbia mai avuto particolari problemi, se non quando viveno in Germania a stava tutto dieci centimetri sopra la mia testa, ma in quel caso usare i tacchi per vedere se il pollo nel forno era pronto non mi sembrava una grande idea. E si è trattato solo parzialmente del fatto che i tacchi ti fanno sembrare le gambe chilometriche, e l’andatura e tutte cose che siamo convinte gli uomini guardino, ma la verità è che son cose che notiamo solo noi. Ormai è una questione di arte. Mi rendo conto che io guardo le scarpe come le sculture, e più sono strane, più hanno tacchi impossibili, più mi attirano. È la sfida alle leggi della gravità, alle esigenze dell’anatomia, in cerca di un impossibile compromesso tra bellezza e capacità di far reggere dritto un essere umano. E comprarle, metterle, significa soprattutto possedere un pezzo di quella bellezza, di quell’estremo tentativo di imporsi sulla natura e sulla conformazione di un piede.
Folle, vero? Eh, lo so, ma non dubito che qualcuno si riconoscerà in questa sindrome da scarpa col tacco. L’importante, per quel che mi riguarda, è tenere sotto controllo la spesa. Non spendo mai più di un tot per una scarpa, per quanto io possa trovarla incredibilmente bella. E così la cosa riesce a risultarmi piacevole, senza che abbia la brutta sensazione di essere schiava delle mie passioni. E adesso, solo per gli occhi di noi malate di tacchite…


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Vivere per raccontarla

In questi ultimi giorni mi è successa una cosa estremamente sgradevole, sulla cui natura non ho però intenzione di dilungarmi qui. Ovviamente, come ogni volta che succede qualcosa di brutto, uno poi finisce a rimuginarci su, a parlarne con qualcuno per cercare di liberarsi dell’evento, di metterlo nella giusta prospettiva e lasciarlo andar via. Solo che a me questo in genere non basta. Non so se si tratta di un reale problema che ho con l’espressione verbale, o solo una deformazione professionale, ma io non sono in grado di liberarmi del tutto di qualcosa che mi è successo, se questo qualcosa mi ha davvero colpita a fondo, se non ne scrivo. È il modo che ho per rifletterci su, e infilare l’accaduto nel cassetto delle cose passate, con cui ho fatto i conti e che fanno parte del mio bagaglio di vita. Fino a quando non scrivo, gli eventi restano sospesi sulla mia testa, irrisolti.
Quando succede così, e non ho voglia di mettere in piazza l’accaduto per le più svariate ragioni (ad esempio perché coinvolgono terzi che non voglio tirare in ballo), mi siedo alla scrivania e scrivo una pagina di diario. Sì, non una pagina di blog, ma del vecchio, superato diario segreto, quello che nessuno leggerà, o che leggeranno pochi intimi. Scrivere per se stessi è diverso che scrivere per gli altri, ma ha lo stesso potere terapeutico: mentre scrivi, in qualche modo esci da te stesso, e sei in grado di guardare le cose da un’altra prospettiva. Il soggettivo diventa oggettivo, e finalmente le cose ti sono chiare. Sono sicura che la gran parte di voi ha ben presente questa sensazione.
Così, sabato sera, dominata da un mood particolarmente incazzato, ho scritto le mie due pagine e mezzo private in cui mi sfogavo. E mi sono accoorta di una cosa che non avevo mai notato: scrivere una cosa per me è completamente diverso dal raccontarla. Ci sono parole che non sarei mai in grado di dire a voce, sensazione per le quali mi manca il vocabolario, quando ne parlo con qualcuno, ma che fluiscono invece in tutta la loro limpidezza sulla pagina scritta. Forse è lo schermo del foglio, che è comunque una barriera tra me e il mondo, o quella particolare confidenza che ti dà la solitudine, ma la sincerità, la chiarezza con la quale riesco a descrivere ciò che provo quando scrivo mi manca completamente quando parlo. Raccontare perché, ad esempio, quella volta, all’esame di Metodi Matematici della Fisica, mi sia messa a piangere come una scema davanti al professore mi è difficile. Ma se devo scriverlo, le sensazioni di quel giorno mi tornano in mente cristalline, come non fossero passati dieci anni, e posso descrivere con estrema chiarezza il senso di piccolezza, l’ansia, la sensazione di essere un completo fallimento, e la vergogna estrema del mostrarmi così vulnerabile davanti ad un estraneo.
Forse, nonostante l’apparenza, in certe cose sono timida e riservata, o forse ha ragione quel mio amico che mi ha sempre detto che sono una tipa tutto sommato piuttosto fredda nei confronti delle persone cui voglio bene. O forse, quando dico che raccontare storie fa parte del mio modo di essere, che è una cosa che mi ha sempre accompagnata nella mia vita, sto dicendo qualcosa di più profondo di quanto non creda. Forse io vedo la vita così, come una pagina bianca da riempire, e tutto quel che mi accade, che indago e vivo, è solo un pretesto per riempire il foglio. Vivere per raccontarla, come diceva Garcia Marquez. Anche quando la racconti solo a te stesso, o forse, soprattutto allora.

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Forse è solo l’età

Non se sia solo una caratteristica dell’età, come essere appassionati quando si è adolescenti, frettolosi di crescere quando si è bambini, e via così, ma da quando ho compiuto trent’anni a torto o a ragione ho iniziato a convincermi di aver raggiunto la mia forma definitiva, fisica e spirituale. Non intendo dire che poi non mi verranno le rughe, e le esperienze di vita non mi arricchiranno più. Solo che credo di aver raggiunto quel paio di punti fissi necessari per definirsi più o meno adulti. Tra questi punti fissi, c’è la generale bonarietà del mio carattere nei confronti dei miei simili e dei miei colleghi. Intendiamoci, ci sono dei momenti in cui sono veramente insopportabile con la gente cui voglio davvero bene, e non posso dire di avere davvero un buon carattere, considerando gli scatti d’ira, le incazzature inutili e le paranoie. Solo che fingo bene di essere normale, e lo faccio da così tanti anni che credo di apparire, ad una prima conoscenza, una persona tutto sommato accomodante. Il bello è che alla fine non devo sforzarmi neppure troppo ad esserlo: la gentilezza con gli sconosciuti, l’umiltà, la cortesia, sono cose la cui pratica mi mette di buon’umore. Fino a qualche tempo fa.
È un po’ che mi sono accorta che il mio grado di tolleranza nei confronti del genere umano sta calando vertiginosamente. Per esempio, ieri sera non riuscivo a dormire per una serie di sfighe che esulano dal post, per cui mi sono alzata e mi sono messa a vagare in rete. Qualsiasi cosa leggessi su Facebook mi irritava, dal commento meramente personale, all’articolo linkato col quale non ero d’accordo, all’ennesima bufala proparlata ovunque. Mi irritano le polemiche, mi irritano le opinioni, mi irritano gli atteggiamenti della gente. Mi irrita chi muove il culo per manifestare solo quando si tratta di roba che entra nel perimetro ristretto del suo giardino, e poi se ne frega quando in gioco ci sono questioni più grandi, che magari non lo interessano direttamente. Mi irritano le inutili dispute scienza/religione, di cui abbiamo le palle veramente, ma veramente piene. Mi irrita il razzismo della gente del mio quartiere, i toni saccenti di chi si ritiene sempre superiore a tutti. Non che questo poi si traduca in qualcosa di più concreto di una vaga irritazione che mi tengo dentro, e che al massimo paleso con Giuliano, o coi miei. Continuo a sorridere, a chiedere scusa anche quando la colpa è degli altri, a mantenere la calma in pubblico, perché non ho voglia di far casino, perché la gente che s’incazza per ogni minima cosa e se la prende con chi lavora m’ha sempre dato ai nervi. Ma, dentro, sto diventando una persona astiosa, e non so se è colpa di Internet o è un preludio a quel che diventerò di qui a qualche anno: una vecchietta incazzata col mondo. O forse è una versione modificata e sviata della ghiandola del veleno, che dopo dieci anni di onorata carriera ha deciso di manifestarsi anche in me. Del resto, comincio a provar fastidio anche verso tanti discorsi che si fanno intorno ai libri e agli scrittori.
Non so esattamente come porre rimedio. L’ultimo tentativo è quello di stare di meno online. Fino a quando non c’era la rete, avevi la vaga percezione che, da qualche parte, ci fossero degli imbecilli, ma, in linea di massima, non avevi con loro alcun contatto diretto. Con la rete li vedi in faccia e ci parli ogni giorno. Forse il problema è questo. Per cui studio per il mio corso sub, leggo tantissimo, mi do alle avventure grafiche. Ma il mondo è comunque appena fuori dalla finestra, con le sue meschinità, le sue piccinerie, le sue cattiverie gratuite e tutto quanto di male sappiamo farci l’un l’altro.
Sto cercando di educarmi ad una certa tolleranza. Ma non è facile. Forse è solo l’età.

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