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Odissea postal-tabacchinica

Come ben sapete – avendovi io fatto una testa così al riguardo – un tre settimane fa ho fatto un incidente. Poiché la colpa, ehm…come dire…non era del tutto dell’altra macchina…dovevo pagare una multa. Ho rimandato la cosa il più possibile, perché non sono esattamente ansiosa di girare per uffici pubblici, ma alla fine non ho potuto evitare di andare a pagare. Reduce da una mattinata per metà in palestra e piscina, e per metà in giro a far la spesa, ecco che mia madre mi deposita davanti all’ufficio postale, portando via la macchina perché le serviva il pomeriggio. Ma non è un problema, l’ufficio postale è a un 500 metri da casa mia, e io conto anche di metterci poco, visto che sono le 14.00.
Arrivo, non c’è molta gente, prendo il numerello. Attendo, poco, perché la fila scorre, e arrivo davanti all’impiegata. E mi accorgo di aver fatto un errore fatale: non ho compilato il bollettino. Mi scuso, l’impiegata non fa una piega.
«Compilalo e poi torna qua» mi dice.
«Prendo un altro numero?» chiedo.
«No, non serve. Appena hai fatto vieni».
Vado a compilare. Ci sono quattro bollettini. Confesso che non sono praticissima di bollettini: pago quasi tutto online, e anche le bollette ce le ho domiciliate. So tutto di come pagare con Paypal, ma ho difficoltà persino a girare un assegno. Comunque, compilo tutto. Inserisco la cifra dovuta, leggendo a stento il verbale, metto l’intestatario, mi avvicino.
Solo che una signora mi dribbla e passa avanti. Perché, scopro, questa storia di “avvicinati che ti faccio passare” è consueta all’ufficio postale. A quanto pare non sono la sola che si dimentica di compilare e roba del genere. Vabbeh, non è un problema, la signora potrebbe essere mia nonna, è pure giusto che vada avanti. Tra l’altro è anche particolarmente cortese. Solo che nel giro di dieci minuti la fila dei “passo avanti” è diventata ciclopica. L’impiegata alza lo sguardo.
«Ma siete tutti per me? Vabbeh, però mo andate anche al primo che si libera, eh?» dice.
Io capisco l’antifona, per cui mi siedo e prendo un nuovo numero. D’altrone mi sento sempre un po’ in imbarazzo a passare avanti, tanto più che l’errore è stato mio.
Stavolta, però, la fila non scorre manco per il cavolo. C’è un blocco totale dei numeri sulle operazioni finanziarie. Tutti fermi. E io comincio ad innervosirmi. Anche perché ho da fare una cosa a casa. Giro il bollettino delle poste e scopro che – meraviglia! – si può pagare pure in ricevitoria. Fantastico, ci sono i tabacchini nel quartiere! Esco, che tanto in venti minuti i numeri non sono avanzati manco di mezzo decimale, e – botta di fortuna – il tabacchino è attaccato alle Poste.
«Posso pagare una multa?» chiedo.
«No, mi spiace, ancora non siamo attrezzati».
Sob. Rientro alle Poste con le pive nel sacco. E pure un po’ incazzata. Voglio dire, Stato, ti devo dei soldi. Suppongo tu sia ansioso di prenderteli, e immaginerai che io, invece, con lo spavento, la macchina ancora dal carrozziere a tempo indeterminato e il conto del suddetto che sfiora le quattro cifre, non è che sia proprio ansiosa di darteli, questi soldi. Non potresti semplificarmi le cose? Tipo permettermi di farti un bonifico online?
No, donna: partorirai con dolore, e pagherai le multe alle Poste, possibilmente quando c’è una fila non inferiore ai quaranta minuti.
Vabbeh. Eva, hai un conto aperto con me.
Intanto, un signore dà in escandescenze non so esattamente perché, poi, inspiegabilmente, i numeri ripartono. Arriva il mio turno.
Arrivo, saluto, deposito il malloppo dei bollettini.
«Devo pagare una multa».
«Così non va bene».
Faccio la faccia perplessa: «Ossia?».
«Questi vanno staccati».
Guardo i bollettini. Cioè, l’impiegata mi sta chiedendo di separare lungo la linea tratteggiata i quattro bollettini. Che, per carità, con ogni probabilità è una cosa che dovrei fare io, ma non capisco il tono scocciato né il motivo per cui non può farlo lei. E, siccome sono già vagamente irritata, l’incazzatura sale. Comunque, piglio e stacco tutto.
«Perché sono quattro?» chiede, sempre scocciata.
«…non lo so…».
«Nemmeno io. Non lo so che deve pagare».
«Ma a me li hanno dati così…».
«Legga il verbale».
Il verbale è la copia con carta carbone, quindi già pressoché illegibile, e la calligrafia non è esattamente chiarissima. A stento sono riuscita a ricostruire la cifra che devo pagare.
«Sul verbale non ci si capisce niente», e stavolta quella scocciata sono io.
«E allora deve telefonare alla Municipale. Chiami il numero e si faccia spiegare».
Eccerto. Alla Municipale di Roma gli dico “salve, sono Licia Troisi, ho fatto un incidente il 9 gennaio, mi dice come devo pagare?” e siccome Roma non è frequentata ogni giorno da 5 milioni di persone, di cui una percentuale non trascurabile si scatafascia in vario modo su altre macchine, pali e marciapiedi, loro sapranno subito dirmi cosa devo fare. O forse mi manderanno a cagare, che è più probabile.
«Vabbeh, grazie e arrivederci» bofonchio, evidentemente incazzata. Esco, e mi girano ad elica. Sono rassegnata a dover fare la fila alla posta, ma per niente, francamente, no. Tanto più quando non sono lì a mandare o ritirare pacchi, ma a cacciare dei soldi per una multa. Capisco che avere a che fare tutti i giorni con la “gggggente” non sia piacevole, ma, cara impiegata, sapessi quanto è piacevole per me fare quaranta minuti di fila – due volte – per pagare una multa e non riuscirci perché nessuno sa dirti come si fa. Ma, con ogni probabilità, la cretina sono io. La prossima volta faccio un corso accelerato in compilazione di bollettini.
Comunque. Sono in ballo, e voglio chiudere la pratica. Mi serve un altro tabacchino. Che non so dove sia. Ricorro alla mamma, che magari si ricorda. Sì, c’è un altro tabacchi. Dall’altro lato del quartiere. E io sono a piedi. E, confessiamolo, ho pure un bel po’ di acido lattico per via della piscina.
Parto.
Impreco più o meno per tutto il viaggio attraverso il quartiere. Che non serve a niente, ma tant’è.
Arrivo al tabacchino. Chiuso. E adesso potrei veramente tirare giù tutti i santi dal paradiso. Ma ho detto che devo chiudere la pratica, dannazione. A che ora apre? 15.30. Che ore sono? 15:15. Resto. Resto e aspetto. Visto l’andazzo, mi diranno che non si può fare, anche se c’è scritto Lotto ovunque, e le multe si paganp sfruttando il circuito del Lotto. Resto e basta.
Mi siedo sugli scalini lì davanti. La gente mi guarda pure. Cos’è, non avete mai visto un’onesta cittadina che cerca di emendare i suoi errori con lo Stato?
L’unico raggio di luce è Zerocalcare che ha messo tra i preferiti un mio tweet al riguardo degli uffici Postali. Cioè, voglio dire, uno dei miei autori di fumetti preferiti! Tipo quella volta che Leo Ortolani ha risposto ad un mio commento sul suo blog, facendomi sperare che, forse, nonostante l’ora di ritardo che gli diedi quando lo conobbi a Lucca, ha messo via la mia foto col tiro a segno per le freccette.
(Io sono sempre convinta che molte delle persone che ammiro, e che per qualche ragione ho incrociato nella mia vita, mi odino per qualche mio comportamento inopportuno. Del resto ho fatto figure di tolla un po’ con tutti…).
Comunque. Arrivano le 15.30. E arriva anche il proprietario del tabacchino. Titubante, e pure francamente stanca, mi avvicino.
«Le posso fare una domanda?».
«Mi dica».
«La posso pagare una multa, qui?».
«Certo!».

Tempo dieci minuti, ho finalmente pagato la multa. Con un sovrapprezzo di un paio di euro. Vabbeh, ‘sti cavoli.
Grazie, Stato, grazie di avermi permesso di avere questo grande onore di pagare per le mie colpe! Grazie del favore, eh?
Mi avvio verso casa. Altri 600 metri. Ma è un bel pomeriggio. Freddo, ma c’è il sole. Alle 16.00 raggiungo casa. C’ho messo due ore per far tutto. Poteva sicuramente dirmi peggio. Ma, diciamocelo, anche meglio.
E non posso neppure arrabiarmi più di tanto. In fin dei conti, sono pure nel torto…

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Un gioco duro

In linea di massima, la scrittura viene percepita come un lavoro solitario, in cui tutto sommato l’autore resta nascosto dietro le sue righe. Sì, ok, partecipa alle presentazioni, magari va in televisione. Ma resta il fatto che il 90% dei suoi lettori lo conosce solo attraverso quel scrive, a volte non sa neppure che faccia abbia.
Questo fatto induce spesso a credere che la scrittura sia una forma di comunicazione a senso unico: tu parli, e la gente ti ascolta. E invece, col tempo ho imparato che quando si scrive ci si espone più di quanto si possa credere, e non solo perché si esprime molto di sé, quando si racconta una storia, ma perché se tu dici una cosa, partecipi al dibattito pubblico – e raccontare una storia signfica far questo – la gente non può che risponderti.
Molto spesso ho detto che la scrittura mi ha donato molte cose, e tra queste una delle più belle è la possibilità di toccare persone, luoghi e realtà con cui altrimenti non sarei mai venuta in contatto. Perché la scrittura è una finestra aperta, che fa uscire l’aria che c’è dentro, ma fa anche entrare un sacco di cose, e se sei stato sincero, se davvero credevi in quel che hai detto, non puoi chiudere le imposte quando qualcuno vuole parlarti.
Mi chiedono spesso se sento una responsabilità nella mia scrittura, in generale in relazione al fatto che i miei vengono venduti come libri per ragazzi. E io in genere rispondo che l’unica responsabilità che sento è quella di far bene il mio lavoro e dare ai lettori qualcosa che li diverta e al tempo stesso li arricchisca, stimoli in loro qualche tipo di riflessione. Beh, in verità non è l’unica responsabilità, non è vero. L’altra è la condivisione, appunto. Altrimenti non avrebbe avuto senso parlare di vita e di morte, di non arrendersi, di battaglie e di dolore.
Nel corso degli anni, ho cercato di tenere aperte le imposte. Perché se hai appassionato davvero qualcuno, gli devi qualcosa, quanto meno la possibilità di non deluderlo. E da quella finestra a volte sono entrate cose meravigliose, incontri inaspettati, esperienze nuove. Ma a volte sono entrare anche cose terribili, con le quali non avrei voluto mai fare i conti, ma cui sentivo di non poter dire di no, di non volerlo fare. Avevo fatto una scelta, quando avevo deciso di scrivere, e quella scelta implica anche accettare e condividere il dolore altrui, quando arriva.
Non voglio dire che mi sono pentita di aver lasciato aperta quella finestra. Affatto. In fin dei conti, dà sulla vita, e la vita è così, ha il dolce e l’amaro, spesso mescolati assieme. E o prendi il pacchetto completo, oppure giri le spalle e te ne vai. E si paga un prezzo, sempre, certo. Quel che voglio dire è che non bisogna mai considerare l’atto di scrivere qualcosa di neutro, qualcosa che non produce valange di conseguenze, molte delle quali sono impossibili da prevedere. Le parole sono importanti, non mi stanco mai di dirlo, gettano ponti, stringono legami. E ti mostrano la vita in tutta la sua spaventosa grandezza, nella sua intollerabile vertigine, in cui ogni cosa conduce il suo contrario, dall’abisso all’iperuranio. E quando scrivi la prima parola, devi essere consapevole che un giorno arriverà anche l’amaro, e dovrai saperlo sopportare, o non avrebbe avuto senso scrivere quel che hai scritto.
È un gioco duro, la vita come la scrittura. Ma la verità è che ne vale sempre la pena.

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Il silenzio delle cose definitive

Pensavo oggi di parlarvi dell’incidente che ho fatto sabato mattina. Per togliermelo dalla testa, perché in genere funziona così: per rendere ormai storia qualcosa che mi è capitato, per poterlo considerare passato, mi serve scriverne. A volte solo per me, più spesso perché anche gli altri leggano, ma devo scriverne.
Solo che adesso, alla prova dei fatti, non so se ne sono capace. Da sabato mattina mi è toccato ripetere la dinamica dei fatti almeno dieci volte, in tutte le salse, e ogni volta diventava una specie di droga, per cui continuavo a parlarne, come se le parole fossero un gorgo, e io ogni volta ci finissi dentro. E ogni volta che ne parlavo, ricordavo cose che, con una certa fatica, ero riuscita a dimenticare.
Intendiamoci: nessuno si è fatto male. Né noi, né conducente e passeggera dell’altra macchina coinvolta. Ma per interminabili frazioni di secondo, durante e dopo l’urto, sono stata invasa da quella sensazione di ineluttabilità, quella netta percezione che stesse accadendo qualcosa di enorme, e contro il quale non potevo far nulla. Il muro, l’urto, l’odore dell’esplosivo dell’airbag, e poi quel silenzio definitivo che scende solo dopo gli eventi spiacevoli, il silenzio del “stavolta l’hai pagata”. E conta poco che invece, questa mattina, la vita non ti è venuta a presentare il conto. Resta la sensazione che avrebbe potuto, e non c’è davvero ragione, se non una smaccata fortuna, se non un sommarsi di stupide coindenza, per cui non l’ha fatto.
Ogni giorno facciamo una decina di sciocchezze. Le facciamo consapevolmente o meno, e non ci fermiamo mai a riflettere sulle implicazioni; per qualche ragione, crediamo ci andrà sempre liscia. E invece, un giorno, fai una sciocchezza che hai ripetuto due miliardi di volte in passato, e la paghi. Perché la vita funziona così, e non puoi farci niente. È questo, probabilmente, più dell’urto, della paura, dello shock, che mi fa rivedere quel palo e quel muro a ripetizione, da sabato mattina.
Non è successo niente. Le macchine si aggiustano, o si ricomprano, anche se, per qualche ragione, mi si stringe il cuore a dover dar via l’auto che mi ha letteralmente salvato la vita. Questo è quello che, a ragione, probabilmente, mi dicono tutti. E invece qualcosa è successo, ma non capisco bene cosa. Qualcosa di spiacevole. Forse deve solo passare un po’ di tempo.
E alla fine sono stata anche capace di scriverne, anche se non come avrei immaginato. Meglio, va’, almeno ho qualche speranza che questa storia della scrittura terapeutica funzioni ancora :P .

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Altro che cancelli di Mordor

Ogni anno disfare albero e presepe è sempre un momento un po’ delicato: in genere lo faccio fare a mia madre quando sono a lavoro, perché mi dispiace sempre che le feste finiscano. Io, però, ora lavoro da casa, indi per cui quest’anno mi sono rimboccata le maniche e l’ho tolti di mezzo io. Visto che c’eravamo, ho deciso anche di fare fuori anche i cancelletti anti-bimbo. Per chi non conoscesse l’oggetto, trattasi di cancelletti che servono a rendere inaccessibili ai bimbi zone di casa che possano essere pericolose. Noi lo usavamo per tenere lontana Irene dalla mia scrivania, che è piena di fili e roba pericolosa in genere. Adesso però Irene è grandicella, capisce perfettamente quando le si dice di non fare una cosa, e quindi i cancelletti erano ormai solo una cosa antiestetica, e anche vagamente pericolosa, visto che la sera prima Irene scardinandone uno si era sfracellata al suolo.
Ce li avevamo da due anni, da quando Irene ha iniziato a camminare. Casa aveva un aspetto strano, con quella roba. Entravi, e sapevi al volo che c’era un bambino, da quelle parti. Era una casa che parlava di Irene.
Adesso ho un salotto bellissimo, più luminoso, e sembra anche più ampio. È come l’aveva pensato il mio amico quando l’ha progettato. Ma è un salotto che dice una cosa sola: non hai più una bimba piccola, Irene è cresciuta.
Fin qui, ogni volta che Irene ha superato una tappa della crescita, sono stata contenta: ero contenta quando ho messo via lo sterilizzatore per i biberon, ero contenta quando abbiamo tolto dalla sua stanza il fasciatoio, ero contenta quando abbiamo fatto fuori il vasino. Il compito di un genitore non è questo? Non è traghettare il meglio possibile la prole verso l’età adulta?
Erano rimasti solo i cancelletti. E forse è per questo che toglierli mi ha messo addosso una specie di nostalgia. È che è vero, i genitori vorrebbero sempre i figli piccoli, bisognosi del loro affetto. E invece i figli devono crescere, diventare indipendenti, andarsene e alla fine tradirti. È ineluttabile e giusto così, è il prezzo da pagare per sperimentare quel tipo di amore assoluto che probabilmente non ha eguali nell’esperienza di vita di una persona: l’amore a prescindere, l’amore che non dipende da quel che fai o da quel che sei, ma che ha il suo fondamento nel tuo semplice esistere. Ami un figlio perché c’è, e basta.
Bon, in ogni caso, i cancelletti sono andati, Irene parla, ha tolto il pannolino e cresce, com’è giusto che sia, e non c’è cancelletto che tenga contro queste cose. E io, sotto la lacrimuccia di nostalgia per quando le dovevo far tutto, sono contenta di tutte le splendide cosette che fa, dice e capisce.

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There and back again

Alla fine, contro ogni previsione, siamo andati a Monaco. Irene è guarita in zona cesarini, e abbiamo deciso di fare comunque questo viaggio.
Come ebbi modo di dirvi qualche tempo fa, nella mia testa me lo prefiguravo come un viaggio nella memoria: tornavo là dove avevo passato tre mesi irripetibili della mia vita, a cercare di riacchiappare per i capelli il passato. Solo che la gente cambia, cambiano anche i luoghi, e le cose non si ripetono mai uguali. Così, come per tutti i viaggi veri e belli, non ho per niente trovato quel che cercavo, ma tutt’altro.
Più passa il tempo, più penso che l’amore, almeno per me, è soprattutto condivisione. Si tratta di lasciare eredità, e questo è ancora più vero quando si ha un figlio. Per me non ha senso vivere una bella esperienza se in qualche modo poi non posso passarla a chi amo. Ho bisogno che loro siano con me, ho bisogno di trasmettere loro quel groviglio di emozioni che mi domina, altrimenti non ha senso. Il mio viaggio a Monaco è stato questo.
Da una parte, c’era molto di quel che avevo amato sette anni fa: i profumi intensi e speziati dei Christkindlmarkt, la neve, il freddo polare, e quel qualcosa di inesplicabile che rende per me Monaco unica. Dall’altra, era tutto diverso. Perché c’era Irene.
Alla fine, eravamo andati lì per questo: Irene a Monaco c’era già stata, due anni fa, ma era molto piccola, e poi era estate, e d’estate, non lo so, è tutto diverso, è un posto che non ci appartiene. Adesso volevamo farle vedere com’è la Monaco dove forse tutto è cominciato: se non avessimo vissuto lì tre mesi, se non avessimo fatto quel primo esperimento di convivenza, e non ci fossimo trovati così bene, chissà come sarebbero andate le cose. La nostra storia è passata di lì, per questo Irene doveva vederla.
È stato fantastico vederla impazzire per la neve, esattamente come noi la prima volta che ci siamo stati: tutti a guardarla, perché, per ovvie ragioni, non ci sono molti bambini tedeschi che si facciano tutti i cumuli di neve ai lati della strada per giocare. È stato bellissimo portarla a Nymphenburg e vederla divertirsi con gli uccelli che vivono lì, splendido vederla scorrazzare sotto la casetta di legno che dove giocavano i principi di Baviera, e in cui ho ambientato un pezzo della Ragazza Drago 3. Ed è stato anche bello fare un’esperienza nuova assieme: nonostante ci vivessimo ad un tiro di schioppo, non eravamo mai stati a Hellabrunn, lo zoo di Monaco. Non ho grande attrazione per gli animali in cattività, ma, un po’ la neve, un po’ Irene, siamo andati. E devo dire che è un bel posto: certo, gli animali non sono liberi, ma l’impressione è che, nei limiti della cattività, stiano bene. E poi il posto è meraviglioso, una specie di riserva naturale. Tra l’altro, non avevo mai visto i primati dal vivo, ed è impressionante quanto ci somiglino: guardare negli occhi un orango è come guardare negli occhi un altro essere umano.
Comunque, sono stati quattro giorni fantastici. In qualche modo mi sembra di aver fatto pace con Monaco, di averle trovato un posto nella mia vita: fin qui, ogni volta che ci pensavo, ogni volta che vedevo qualche foto, mi prendeva una sconfinata nostalgia, un desiderio tremendo di andarci a vivere. Adesso mi appartiene in un modo diverso, è diventata davvero quel luogo dell’anima di cui parlavo nel post linkato all’inizio. In qualche modo è la mia città, anche se non ci vivo, anche se ci vado meno di una volta l’anno. Ma tutto quello che ci ho vissuto, tutto quello che mi ha dato, e purtroppo a volte tolto, me la rendono cara.
Con le parole riesco decisamente meglio che con le immagini, ma, se volete, qui c’è un’ampia galleria di foto che ho fatto da quelle parti, comprese quelle di Hellabrunn.
Se si cita Hellabrunn, è impossibile non citare anche Caparezza, per cui, voilà, chiudiamo con un po’ di giocosa riflessione :) .

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Cose che erano e non sono più

Sette anni fa, il 4 novembre, dopo un lunghissimo viaggio in macchina arrivavo a Monaco di Baviera. Pesavo diciotto chili più di adesso, mi ero da poco laureata, ed ero in crisi esistenziale: avevo deciso di smettere con la ricerca e, cercando un lavoro, avevo trovato questo stage di tre mesi in Germania. Non avevo mai vissuto da sola, quella sarebbe stata la mia prima esperienza, e con me, per il primo tentativo di convivenza, c’era anche Giuliano. A Monaco c’ero già stata da ragazzina, in gita con la scuola, e l’avevo adorata. Adesso, però, era diverso. Monaco rappresentava una vita del tutto nuova, un esperimento, il mio primo, serio tentativo di diventare grande.
Non so esattamente perché, col senno di poi non riesco a spiegarlo, ma quei tre mesi furono fantastici. Qualsiasi cosa accadeva era speciale, tutto era nuovo e scintillante, tutto sembrava uguale a come l’avrei sempre voluto, come se fosse quello il posto in cui avrei dovuto nascere, e non questa città meravigliosa e maledetta nella quale sono bloccata da 32 anni, che amo e odio con uguale passione, e che non riesce ad assomigliarmi neppure un po’.
Comunque, da allora a Monaco sono tornata un sacco di volte. È una specie di luogo dell’anima, quel posto lì al quale tendi, che ti fa pensare che se anche tutto va male, hai un luogo sulla terra nel quale, eventualmente, andarti a rifugiare. Manco da lì da due anni, e che non ci vado d’inverno non riesco a ricostruire neppure da quanto tempo. Quattro, forse cinque anni, non so. D’inverno è proprio un altro posto, d’inverno ci sono stata e d’inverno ci voglio tornare.
Ogni volta che ci sono andata, il tentativo era di ritrovare le atmosfere di quel lontano e gelido inverno. Senza risultato, ovviamente. Ogni volta, una cosa diversa è cambiata, ogni volta un pezzo di quella Monaco non c’è più. La casa in cui vivevamo è stata venduta, non è più del signor Werner, che un giorno di gennaio ci invitò ad una gita sul Chimsee ghiacciato. Hertie, il supermercato dove andavo sempre a fare la spesa, è stato fagocitato dalla grande catena Karstad. Una persona cui volevo molto bene, il nostro cicerone in tante gite a Monaco, l’amico, il consigliere letterario, la nostra ancora in quel lontano inverno, è morto due anni fa.
Sarei dovuta tornarci quest’anno, per andare a vedere i mercatini di Natale, che, a conti fatti, ho visto solo due volte nella mia vita, quando ci vivevo e in quel viaggetto di anni fa. Come ormai è consuetudine da una mese a questa parte in questa famiglia, la cosa è saltata, per una volta non perché sto male io, ma perché sta male Irene.
La verità, ed è un po’ buffo che ci arrivi solo ora, è che sarebbe ora di smettere di rincorrere quell’inverno del 2005. Sono passati sette anni, le tracce dei nostri piedi su Kaufinger Strasse sono state cancellate da molto tempo. Avevamo avuto la nostra occasione, sette anni fa; avremmo potuto prolungare la nostra permanenza, perché mi era stato offerto di restare ancora, e avremmo potuto fare altre scelte, magari decidere di restare. Un amico, che all’epoca i trenta li aveva già superati e le cose le capiva meglio di me, mi disse che se davvero volevo rimanere, dovevo farlo. E non lo feci. Adesso è tutto cambiato, adesso partire è impossibile, e non perché ci sia qualche reale impedimento, ma perché le scelte che ho fatto, la vita che ho deciso di condurre e certi principi che ho deciso di seguire mi impediscono di fare il salto. Non è stato un caso che ogni volta che l’ipotesi di andarsene via davvero si è fatta più concreta (e almeno una volta ci siamo arrivati a tanto così) a me è preso il panico. Forse è quindi ora di smetterla di inseguire cose che non torneranno mai più. Non è stato il destino, non è stato il caso, sono stata io a decidere di prendere altre strade. D’altronde, mi conosco, se davvero avessi deciso di vivere lì, tempo due anni mi sarei stancata anche là, la novità sarebbe sfumata e tutto avrebbe preso i contorni della routine: la neve, i tram, i tedeschi. Non si fugge a se stessi mettendo 800 km tra te e il posto in cui sei nata.
Per cui, nulla, i cordoni ombelicali ad un certo punto vanno rotti, i legami spezzati, se sono soltanto pallidi ricordi di qualcosa che non è più, e che non può essere rinnovato.
Stamattina a Roma fa un freddo glaciale; l’aria sa un po’ di neve, come allora.

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Odissea Primaria

Da quando ho compiuto 18 anni, ho votato sempre. Credo di aver saltato solo un referendum di cui proprio non capivo l’utilità. Non lo so, sento piuttosto fortemente i doveri civici. Vi dico solo che votai pure alle primarie, quattro anni fa o giù di lì. Evidentemente ci presi gusto, perché adesso mi ripeto. Vado a votare alle primarie del centrosinisistra. Niente, è che voglio tentare tutto il possibile, diciamo così, per votare alle politiche uno che mi piaccia. Mi sentirei anche vagamente in colpa a non andarmi a scegliere il candidato.
Ingenua, pensavo fosse facile: vai lì, sganci l’obolo, necessario a complicare la vita a eventuali “infiltrati”, e voti. Ingenua, appunto.
Di sfuggita, su MTV, vedo Pif che fa un video in cui spiega come votare. E mi viene il dubbio. Forse non è semplice come sembra. Mi voto al totem di tutti noi gggggiovani web 2.0, internet: scopro che in effetti non basta andar lì domenica, occorre prima iscriversi. Per iscriversi devi andare sul sito e disporre della tessera elettorale. Ora, in casa mia niente è mai dove lo si cerca, e dunque trovare la tessera elettorale già è un primo scoglio. Meno male che tipo una settimana fa, mettendo in ordine l’armadio, l’ho scovata in una borsa che non aprivo da un po’. E quindi questa almeno è fatta.
Vado sul sito, e scopro che è lento quanto una puntata di Falling Sky. Più che lento, è farragginoso: selezioni la tua regione, e ci vogliono due ore perché sia possibile selezionare la provincia. Considerando che poi devi anche scegliere comune e sezione, la cosa si porta via un bel po’ di tempo. Comunque, trovi il tutto, immetti i tuoi dati e aspetti. Una quaresima, di nuovo, alla fine della quale, per altro, a me il sistema dà errore. Olè.
Impreco in ostrogoto, rifaccio tutto daccapo, ma per fortuna, a un decimo dell’attesa per poter finalmente selezionare il seggio, mi arriva una mail, in cui mi si dice che, ehi, ti ho registrato. Grande!
Uno si dice: siamo nell’era di internet, basterà questo. Poi vado là, verso l’obolo…No. La registrazione sul sito produce un foglio, che devi stampare, e portare di persona ad uno degli uffici elettorali. Lì ti daranno un altro foglio, e questo, insieme alla carta di identità e alla tessera elettorale (e il passaporto? E il certificato di nascita? No?) permette, finalmente, di votare domenica. Ah. Il perché di questa procedura mi è ignoto. Così, ad occhio e croce, sembra un tentativo di scoraggiare l’elettore. Un tentativo che, per altro, funziona alla grande, perché, arrivata a questo punto io ho circa il 5% della voglia iniziale di andare a votare. Comunque. Selezionando di nuovo regione, provincia e città ti vengono indicati tutti gli uffici elettorali. Ovviamente, il centro di Roma pullula, mentre in periferia latitano. I due più vicini stanno a buoni sei o sette chilometri da qua, che a Roma possono significare anche un’ora tra andare e tornare. Vabbeh, uno è sulla strada per portare Irene all’asilo. Se, te credi, te. Non è che ci puoi andare quando vuoi, signorino: ci sono specifici orari ai quali passare. Tutti per me comodissimi: dalle 17.30 alle 19.30. Solo il martedì e il giovedì. Nelle notti di luna piena. Alle calende greche.
Lo so. A questo punto uno si arrende. C’ho provato, mi hai dato che prova che non vuoi che voti, ahò, non voto. Ma non io. No. Io insisto. Vabbene, dannata coalizione elettorale, uscirò alle 17.30 e mi farò un’ora in macchina. O tu, candidato che ho intenzione di votare, fammi un monumento. Questa sì che è dedizione.
Poi, per fortuna, un fortunato imprevisto: domani sono fuori per diletto, e c’è un ufficio elettorale a chilometro dal posto in cui vado. Grande. L’insperato capovogimento degli eventi convince anche Giuliano a registrarsi, lui che aveva desistito più o meno a “scegli la regione di provenienza”.
Tutto è bene quel che finisce bene?
No. Perché poi andiamo a vedere dove effettivamente dobbiamo andare a votare domenica, ed esce fuori che è Via Piripacchio. Ma nel nostro quartiere c’è Viale Piripiacchio. Via Piripacchio è dell’altro lato della galassia, rispetto a noi. Sarà la stessa via? No, perché in effetti io a Viale Piripacchio ci ho vissuto, e quando stavo lì una miriade di pacchi che dovevo ricevere finivano a Via Piripacchio invece che da me. Sì, a Roma ci sono due vie che hanno sostanzialmente lo stesso nome, solo che una è un Viale.
A me e a Giulino viene in mente di chiamare il numero verde. Poi ci ragioniamo su: le istruzioni per votare a queste benedette primarie sono lunghe quanto due rotoli della Torah, è plausibile che i centralini del numero verde siano intasati di gente che chiede chiarimenti, o semplicemente bestemmia, perché è più facile far passare un cammello dalla cruna di un ago che ricevere il privilegio di votare alle primarie del centrosinistra.
Per cui? Per cui nulla. Noi domenica si va a Viale Piripacchio. Se c’è qualcuno, bene. Sennò affangufo a tutti. Piena di senso civico sì, tenace pure, ma cretina, francamente, no.

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Il cicapiscosoloioismo

Tutti giù a dire che la rovina della rete è l’anonimato, i troll, Facebook, la mancanza di valori dei gggiovani e comunque qui una volta era tutta campagna. Invece, il vero Male di internet, con la M maiuscola, è il cicapiscosoloioismo.
Il fenomeno, va detto, non è nato con la rete, ma esiste sostanzialmente da quando esiste l’uomo. Credo che la prima guerra tra australopitechi sia stata causata da qualche cicapiscosoloiosta, ma quand’anche non fosse così, è sicuramente il fenomeno alla base del maggior numero di litigi, casini e flame wars.
Cos’è, è presto detto. Esistono individui che, pur non essendo filosofi, sono costantemente alla ricerca della Verità. A loro non basta una verità personale, singolare e soggettiva, legata al vissuto di ciascuno. No, loro vogliono la Verità assoluta, quella vera in tutti i luoghi e in tutti i laghi, quella che deve valere per ogni essere vivente sulla faccia della terra. Al contempo, non gli sta bene una Verità qualsiasi; la Verità che cercano deve avere caratteristiche ben specifiche, tra cui l’essere iniziatica. Ciò significa che non è una Verità accessibile a tutti, ma solo a pochi eletti che “ci capiscono”, gente che si innalza al di sopra della media per qualcosa. In quanto Verità iniziatica, va da sé che essa non sarà accettata da tutti, ma anzi osteggiata. Questo la rende ancor più allettante agli occhi di queste persone, perché se tu sai questa Verità, vuoi dire che sei meglio degli altri. Anzi: per loro, nessuna verità può essere Verità se è condivisa e accettat da troppe persone. Una Verità nota a tutti in realtà è una falsità. Il cicapiscosoloioista è questo: uno degli Iniziati che ha accesso alla Verità negata dalla massa.
Vi faccio un esempio che vale più di mille parole. Piripacchio è un cantante pop dal fulminio successo. Piace a tutti, diciamo anche alla critica. Non ci vorrà molto tempo perché nascano schiere e schiere di cicapiscoloioisti che diranno che Piripacchio in verità non è bravo manco per niente, anzi, che la sua è stata solo fortuna, o s’è comprato il successo, e che comunque chi ama Piripacchio è uno che non ci capisce. Il cicapiscosolioista, invece, è forte di una sterminata cultura musicale che gli permette di capire la pochezza di Piripacchio. Gli altri, semplicemente, non ne sanno a sufficienza.
Mettiamo ora invece che Piripacchio all’inizio fosse un cantantino indie che suonava nei localini e ha fatto un tour nei sottoscala degli amici. Al cicapiscosoloioista Piripacchio piace: è seguito da pochi, non ha successo, va da sé che può essere compreso solo da pochi eletti. Poi, Piripacchio ha successo. Credetemi, è automatico che il cicapiscosoloioista inizierà a dire che s’è venduto, che è commerciale, che piace ai soliti caproni che non ci capiscono, mentre il live@roccacannuccia dimostrava chiaramente come fosse originale e fuori dal coro un tempo.
Pensate a tutte le discussioni su blog, mailing list e forum cui avete partecipato nella vostra vita. Sono sicura che indipendentemente dall’argomento – pesca sportiva, uncinetto, coltivazione e cura del tronchetto della felicità – avete incontrato uno o più cicapiscosoloioisti. Guardate che sono ovunque, nella vita di tutti i giorni, nascosti nelle persone che vi sono più vicini. Incontrarli in real life è più difficile per il semplice fatto che non passiamo la vita a discettare di argomenti oziosi, mentre la rete di queste cose si nutre, letteralmente.
Ora, che si può fare contro il cicapiscosoloioista? Niente. Inutile parlarci. Ahò, loro c’hanno in mano la Verità, mica pizza e fichi! La personale tecnica è aggrapparmi alla mia verità piccola piccola, quella valida per me, qui e ora, e coltivarmela con l’acqua del dubbio. Perché la cosa bella è che le verità possono anche cambiare, e uscire migliorate dall’incontro con le altre. Le Verità invece sono sterili, stan lì immobili e non schiodano mai. La morte di internet, appunto.

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Un centimetro in più

Io non sono mai stata una di quelle che sotto stress danno il massimo. Ma proprio per niente. Per funzionare, ho bisogno di tranquillità, tempo libero, e gente che mi incoraggi. Che mi incoraggi il giusto, senza sbrodolarsi in complimenti iperbolici: che mi faccia sentire che ci sia, ecco. Se vengono meno queste condizioni, crollo.
La mia storia di studente è costellata di episodi in cui ho mollato ad un passo dalla vetta, solo perché non reggevo. Dalla lode mancata all’ultimo esame, a quello in cui mi sono fatta sfuggire il 30 a causa dell’ansia, alle innumerevoli volte in cui ho dato di matto davanti alla consegna risicata. Io la pressione non la reggo. Per questo scrivo, e non faccio l’atleta.
È un po’ di tempo che rifletto sullo sport agonistico. È una via che non ho mai incrociato neppure di striscio, anche se ho praticato nuoto con una certa costanza, ma quando ormai era già tardi. Però c’è qualcosa nell’agonismo che mi affascina. È la pratica pressoché ascetica che richiede, il doversi votare ad una causa, ed una sola, che piano si mangia tutta la tua vita. E siccome io ho sempre creduto che la volontà, il sacrificio e la dedizione possono molto, non posso che ammirare chi si allena otto ore al giorno per due minuti di gara.
“In questi anni nella mia vita sono sempre vissuto come un soldato… allo stesso modo sarei vissuto secondo il costume dei religiosi se avessi vestito l’abito che voi portate” dice Giovanni dalle Bande Nere ne Il Mestiere delle Armi, uno dei miei film preferiti. Ecco, ho l’impressione che questo sia l’agonista. E quest’impressione l’ho ricavata sostanzialmente da due cose: la visione di Ginnaste – Vite Parallele, il docu-reality di MTV sulle ginnaste della nazionale italiana di artistica, di cui ormai sono appassionata spettatrice, e Open, lo splendido libro di Andre Agassi. E l’altra riflessione è che c’è qualcosa di sostanzialmente disumano nell’agonismo. Queste vite completamente devote ad un obiettivo, che per forza di cose si mangia tutto il resto, il corpo spinto ogni oltre limite, anche quando soffre, anche quando urla che non ce la fa, e i due minuti che ti cambiano la vita: la caduta dalla trave, l’ace sbagliato, e tutti i sacrifici finiscono nel vuoto. Adolescenze mangiate da un sogno, o dall’incubo di un altro, nel caso di Agassi, responsabilità troppo grandi per dei sedicenni, e quest’idea che più ancora del corpo conti la testa, la testa del campione, che in quei secondi là, quando si gioca tutto, riesce a farsi sottile come una lama, a superare la paura del fallimento, o quella della vittoria, che è anche peggio, e va come un treno. Ecco, c’è qualcosa di titanico e tremendo in tutto questo, qualcosa di letterario direi, qualcosa in cui mi riconosco, in cui forse tutti ci riconosciamo, ad è per questo che seguiamo lo sport, anche se il massimo dell’esercizio fisico che pratichiamo è cambiare canale sul telecomando.
Per tutti arriva quel momento lì: quello in cui devi superare te stesso, devi dimostrare di essere più forte delle tue paure, in cui o si fa, o si precipita. A me è capitato un sacco di volte. E in tante occasioni, come dicevo, non ce l’ho fatta, ma in altre…in altre veramente importanti ho spinto, ho fatto quel che potevo, e ce l’ho fatta.
Allora forse è un po’ disumano anche lo sforzo che ogni giorno la vita ci richiede: un passo avanti, oltre la paura, oltre la fatica, qualche centimetro più in là, oltre il nostro limite. È una lotta, sempre, il 99% delle volte contro noi stessi. Ed è quel che vado ripetendo in mille salse da sedici libri a questa parte, la mia personale ossessione, l’ossessione di tutti, forse.

P.S.
Mi chiedevate della firma copie in quel di Lucca. La prima la farò al Cinema Centrale, il 3 novembre, dopo la presentazione delle ore 11.30. Quello stesso pomeriggio, alle 16:15, mi troverete a firmar copie allo stando B114, padiglione Carducci.

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Tengano famiglia. Gli altri.

In Italia il motto è “tengo famiglia”. D’altronde, tutti i politici si affannano a difendere i valori della famiglia, perché per l’italiano medio la famiglia è la cosa più importante, e proteggiamo la vita fin dal concepimento, e facciamo più bambini, e i bambini sono il futuro. Sembreremmo insomma una società in cui i bambini sono tutelati e tutto sommato amati. Sarà. Perché a me pare che quando si viene all’atto pratico viga un’intolleranza generalizzata verso i bambini e chi li ha fatti: della serie “sì, fate i bambini, poi però per favore occultateli fino alla maggiore età, che, diciamocelo, rompono parecchio le palle”.
Ho iniziato ad accorgermene quando Irene neppure camminava; i marciapiedi sono decisamente non carrozzina-friendly. Mi sono fatta due bicipiti come John Cena nei due anni in cui ho scorrazzato Irene in passeggino per mezza Italia. Sono uscita confermata nella mia intuizione, in seguito, ogni volta che mi sono trovata in mezzo alla folla. Col passeggino. Ero accompagnata da selve di sguardi di rimprovero. Come osi, tu, portare tue figlia non deambulante a Piazza Navona, in mezzo a noi pischelli gggggiovani e non prole muniti? Perché mi obblighi a spostarmi per far passare il tuo infante? Non te ne potevi stare a casa?
Qualche giorno fa, poi, ho fatto un viaggio sola con Irene. Abbiamo preso l’aereo. Per una serie di sfortuite coincidenze, ci siamo dovute presentare in un aeroporto minuscolo con due di anticipo sul viaggio. Per due ore ho tenuto Irene occupata in modo che non desse fastidio a nessuno; ci siamo messe in posti appartati se voleva correre, l’ho impegnata in attività poco rumorose, ho fatto del mio meglio, perché ho sempre creduto che il rispetto degli altri fosse un principio basilare. E per due ore Irene ha sopportato il caldo, il posto piccolo, e l’attesa, senza capricci, senza urla e anzi divertendosi con quel che aveva a disposizione, senza infastidire nessuno. Roba che io m’ero rotta le scatole al minuto dieci. Comunque. Dopo il controllo di sicurezza Irene è comprensibilmente stanca. Viene pure da una notte pressoché insonne, perché ci hanno cancellato il volo, abbiamo dovuto dormire in albergo, lei non aveva una stanza tutta sua (è abituata a dormire da sola, a casa), e insomma si è addormentata tardi (pur stando buona buona a letto con me, per altro, non saltando in giro fino all’una di notte). Le do l’iPad, e si vede il Re Leone. Saliamo sull’aereo, e io le lascio l’iPad fino al momento del decollo, quando devo toglierglielo per forza. E lei, ovviamente, piange. Piange per un minuto, un minuto di, sì, chiamiamolo col suo nome, capriccio. Al secondo 10 del capriccio, un tronfio signore due posti avanti a me, scocciatissimo, prorompe in uno “sshhh!” che fa saltare i servi a me, figurarsi a Irene. Ma, siccome sono una persona educata, faccio tutto il possibile per tacitare la pupa. Che dopo un minuto, appunto, se ne fa una ragione, e non fiata più per tutto il resto del volo. Un’ora e venti, per la cronaca.
Ecco. Di episodi così ne ho vissuti a iosa. E evidentemente non capitano solo a me, se su Twitter la gente posta stati in cui si lamenta del bambino che piange al ristorante, o ridono su cartelli del genere. Sapete che vi dico? Che ne riparliamo quando avrete un figlio. E vi renderete conto che a due anni e mezzo non è facile capire perché, al decollo dell’aereo, non puoi usare apparecchiature elettroniche. Per inciso, più di una volta ho visto gente adulta e vaccinata che non lo capiva, e continuava a telefonare col cellulare. Che i bambini a volte fanno i capricci, a volte non sono per niente come vuoi tu, ed educarli vuol dire star lì a far caciara per spiegare perché non si fa, punire, oppure, a seconda dei casi, ignorare. E che è sicuramente una mancanza di rispetto permettere ad un bambino di dar fastidio ad altri nei luoghi pubblici, ma lo è anche l’intolleranza della gente che ti guarda male appena il bambino fiata, o si mette a rimproverarlo al posto tuo, quando per altro tu lo stai già facendo. E che educare un essere umano non è la passeggiata che immaginate voi, per cui gli dici zitto e lui tace, gli dai uno scappellotto e lui, miracolosamente, diventa un adulto in miniatura. O forse sono incapace io. Possibile. Me lo ripeto più o meno cento volte al giorno, per ogni stupida decisione che prendo, dall’impormi per la pasta non mangiata alle modalità sull’eliminazione del pannolino. Ma io almeno ci provo. Voi, a parte criticare, che fate?

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