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Traguardi

Allora, immagino che chi mi segua voglia sapere la fine della storia, come in tutti i libri che si rispettino. Per questo, inizierò col parlavi di ieri. Ricapitolo le puntate precedenti, perché mi rendo conto che questa storia del dottorato è complicata. A differenza della tesi di laurea, la tesi di dottorato si discute due volte: davanti ad una commissione di membri interni alla propria università, e davanti ad una commissione esterna, di professori provenienti da tutta Italia, volendo anche da tutto il mondo, come sarà nel mio caso. La prima difesa serve come ammissione alla seconda. La seconda è quella ufficiale. In ambo i casi, comunque, viene dato un voto, che però è segreto. È possibile conoscere solo quello della commissione esterna, e con una specie di richiesta ufficiale. Inoltre, la commissione esterna giudica il candidato e manda la sua votazione, con eventuale raccomandazione di conferimento del dottorato, al Ministero della Pubblica Istruzione, che non ho idea di come si chiami ora, ma basta che ci siamo capiti. È il ministero che proclama i dottori, i quali ricevono l’”investitura” in una cerimonia pubblica qualche mese dopo la seconda difesa.
Tutto chiaro? Io c’ho messo tre anni a capire il tutto :P
Comunque, ieri ho discusso la mia tesi per la commissione interna. Ed è andata bene. E so che è andata bene perché la commissione si è complimentata. Che è una cosa che assolutamente non mi aspettavo. E che mi fa un sacco di piacere. Il motivo è ovvio. Questa tesi di dottorato mi è costata moltissima fatica. La mia è una vita complicata, tenere insieme tutti i pezzi, e soprattutto fare tutto sul serio e al meglio delle mie capacità, è una cosa estremamente difficile. Ho faticato per arrivare fin qui, ho sacrificato molte cose, e in tutta sincerità in molti momenti ho avuto la netta impressione di non farcela, che tutto mi stesse scivolando di mano. È per questo che mi ha fatto piacere il buon risultato di ieri, anche se è solo una tappa, e probabilmente il peggio deve ancora venire. Perché se c’è una cosa di cui sono certa nella mia vita è che molto di quel che ho realizzato non esisterebbe se non mi fossi sempre impegnata al massimo, anche esagerando a volte, lo ammetto, ma cercando sempre di temprare la mia forza di volontà. Per questo poi, quando le cose vanno bene, sono così contenta.
Comunque. La vita non si ferma mai, e quindi, oggi occorre già girare pagina: stasera 130 librerie in tutta Italia apriranno dalle 22.00 per vendere Talitha. L’elenco, vi ricordo, lo trovate qua.
Talitha è un’altra scommessa. Un mondo nuovo, personaggi nuovi…l’ho creato in un periodo difficile, l’ho scritto mentre pian piano ritrovavo la mia dimensione, l’ho corretto ovunque, ritagliandomi spazi di scrittura anche dove non ce n’erano. Amo Talitha, amo Saiph, amo Nashira. In un certo senso, rappresentano anche un omaggio a questi anni che ho dedicato all’astrofisica, anche se in questo prima libro la cosa non si coglie molto. Sono ovviamente molto in ansia, perché non so quanto amerete voi questo mio nuovo libro. Io l’ho sentito molto, come non capitava da tempo, e i personaggi sono ancora con me, e premono sulle tempie perché continui le loro storie.
Tutto qua. Ora torno alle mie cupcakes, che al solito non sono venute esattamente come volevo, ma tant’è, la pasticceria è un’arte complessa e ci vuole tanta pratica. Ci vediamo oltre la soglia dell’uscita di questo libro, quando Talitha, Saiph e tutti gli altri non saranno più solo miei, ma anche vostri.

P.S.
Aggiungo una richiesta: se fate qualche foto, stasera, poi mandatemela, così magari la posto. La condizione sulle foto è la solita: please allegati sotto i 2 MB o faccio fatica poi a metterle su. Grazie!

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Ansia

Questa è per me una settimana importante. Il 10, dalle 14.00 in giù, ci sarà la difesa delle tesi dei dottorandi del mio anno. Con le tesi di dottorato le cose sono un po’ diverse rispetto e quelle di laurea. Innanzitutto la discussione si chiama difesa, e si fa due volte: la prima con una commissione interna all’università, che stabilisce l’ammissione all’esame finale e il voto di partenza, poi con una commissione composta da professori provenienti da diverse università, eventualmente anche estere, che decide il voto finale. Ecco, giovedì dovrò sostenere la difesa interna. Sono in angoscia da giovedì scorso. Provo e riprovo, mi cronometro, ripasso tutto quel che mi serve di fisica stellare, ma non mi sento mai pronta a sufficienza. Forse è una buona cosa, forse no, non riesco più neppure a dirlo. Ormai, voglio solo che passi, possibilmente indolore.
Il giorno dopo, poi, per non farci mancare niente, esce Il Sogno di Talitha. Inutile dirmi che è il mio sedicesimo libro e dovrei averci fatto il callo. Stavolta è tutto diverso. Dopo dieci anni esco dal Mondo Emerso, la saga con la quale mi avete conosciuta e alcuni di voi amata (alcuni anche detestata, eh?). Adesso mondo nuovo, personaggi nuovi, filosofia di fondo persino nuova. Vi piacerà? Non vi piacerà? Sarà l’inizio della fine? Le persone come me vivono nel costante timore dell’arrivo della fase discendente della parabola. Che probabilmente è anche questa una cosa buona e giusta, mantiene quel giusto grado di tensione che serve a migliorarsi, ma a volte è semplicemente snervante. Ed è inutile anche dire che ce l’ho messa tutta, che è una storia che sento, che mi sono divertita. Inutile stare a menarsela, il successo è qualcosa di imponderabile, e non sempre mettercela tutta basta. Comunque, io spero che vi divertiate, di più non posso.
Per il resto, l’Italia affoga, letteralmente. Sono stata a Genova una volta sola in vita mia, ma è stato bello, e mi è rimasta nel cuore. E allora non posso non continuare a pensare che sei morti, senza contare quelli delle Cinque Terre, per altro, sia un prezzo inaccettabile, anche per eventi straordinari, che poi tanto eccezionali non sono, visto che era successa la stessa cosa una settimana prima.
Io non conosco la situazione di Genova, e quindi probabilmente non sono autorizzata a suggerire responsabilità. Mi chiedo solo se sia stato fatto tutto il possibile per evitarle, quelle morti, se il dissesto idrogeologico, i condoni edilizi, l’incuria, i soldi che non ci sono, non abbiano giocato un ruolo rilevante in questa storia assurda. E se colpe ci sono, vorrei ricordare che sicuramente la responsabilità ce l’ha chi ci governa, ma ce l’abbiamo pure noi, che condoniamo l’impossibile, che costruiamo dove non dovremmo convinti che non stiamo facendo niente di male. Non è così. I vincoli sull’urbanistica esistono per una ragione. Io prego sempre che questa casa in cui abito sia stata fatta con tutti i crismi, e quando piove sono ben lieta che l’urbanizzazione di questa zona sia non dico a regola d’arte, ma sufficiente a non farmi allagare casa. Perché io ho vissuto per 23 anni in un quartiere totalmente abusivo, e so cosa vuol dire, so cosa significa scoprire che quel lavoretto sulle fondazioni che ha fatto il tuo vicino di casa ti ha fatto incurvare il pavimento del salotto.
Le cose cambiano quando cambiamo noi.
Per il resto, un pensiero e un abbraccio a tutti coloro che stanno pagando un prezzo troppo alto per decenni di comportamenti scorretti e dissennati di vario genere.

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Articolando

Come sapete, ho ormai una certa dimestichezza con l’editoria, almeno con quella di narrativa. Dopo dieci anni circa che faccio questo lavoro, posso dire che ormai riesco più o meno a fare i conti con l’eccitazione per la pubblicazione di un nuovo libro. Certo, il giorno dell’uscita me lo vado a vedere in libreria, poi vado a cercarmi pareri su internet, ma bene o male sta diventando una cosa quasi normale.
Tutt’altra cosa con l’editoria scientifica. Ok, ho pubblicato quattro o cinque articoli, ma due erano ad uso interno del consorzio che lavorava sul satellite Gaia, gli altri due erano proceeding di un congresso pubblicati su rivista apposita – un proceeding è un articolo in cui spieghi meglio il lavoro presentato al congresso -. Non avevo mai avuto a che fare con una rivista referata.
Passo indietro. Cos’è il referee. Quando scrivi un articolo scientifico, lo presenti ad una rivista. La rivista lo passa ad un ricercatore che se lo legge e stabilisce due cose: a) se l’articolo è degno di pubblicazione, b) se ci sono suggerimenti da dare agli autori o correzioni da fare. Il ricercatore in questione si chiama referee.
Circa due settimane fa, abbiamo proposto un articolo alla rivista Pubblications of Astronomical Society of the Pacific. Tempo una settimana, mi ha scritto il refree con tre suggerimenti. Abbiamo corretto e aggiunto, abbiamo rispedito l’articolo. Settimana scorsa ci hanno detto che è stato approvato, e uscirà sul numero di Agosto. La cosa mi ha gettata in uno stato di vera e propria euforia.
Sono due anni e mezzo di lavoro: di sudore, di cose che non venivano, di momenti di sconforto e di esaltazione. Ed è quel che fa la differenza tra uno che prova a fare il ricercatore e uno che è ricercatore. Ecco, è come aver ricevuto una specie di battesimo. È il coronamento di un percorso. Esagero? Probabilmente sì. Ma sono contenta quasi come quando vidi per la prima volta Nihal della Terra del Vento in libreria. Ok, non proprio così, ma quasi.
L’articolo è questo. Vorrei potervi invitare a leggerlo, ma mi rendo conto che senza certe conoscenze di astrofisica è praticamente arabo. Magari un giorno ve lo spiego, appena ho un po’ di tempo.
Io, intanto, gongolo felice.

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Scrivendo

Da quando ho cominciato a dire in giro che devo scrivere la tesi, il commento è sempre stato più o meno lo stesso: sei una scrittrice, che vuoi che sia per te scrivere un centinaio di pagine.
Io, in genere, sorrido, dopo di che riprendo a lamentarmi. Lo so che è una battuta – o almeno lo spero – ma me la sento fare davvero sempre. Mi rendo conto, però, che probabilmente nasconde un fondo di verità: suppongo che la gente si dica “scrivi tutto il giorno, hai dimestichezza col mezzo, per te dovrebbe essere più facile”.
Ecco. No. Il problema è che tra scrivere un libro di narrativa e una tesi passa la stessa differenza che c’è tra fare un ritratto e disegnare il progetto di un palazzo: ok, in tutti e due i casi si tiene in mano una matita, ma saper fare l’uno non implica saper fare l’altro.
Innanzitutto devo scrivere in inglese. Che è una cosa che ho già fatto, e non una volta sola, ok, ma è comunque più impegnativo che scrivere nella propria lingua madre. E poi…e poi non lo so. Questa storia della tesi mi incombe sulla testa come una spada di Damocle. Buttare giù tutta la parte compilativa è la cosa che mi preoccupa di più. Cosa devo spiegare, e cosa no? In che ordine? E le referenze?
Così, nulla, ho iniziato a procrastinare. Lo faccio dalla settimana prossima. Lo faccio d’estate. Lo faccio a ottobre. Poi si è materializzata la data della difesa della tesi: 21 Dicembre. E lì ho capito che era ora di tirare le somme. Così, stamattina, prima di fare qualsiasi altra cosa, ho aperto i file latex che mi sono fatta passare da Giuliano e ho iniziato a scrivere. Saranno dieci righe. Ma è l’inizio. Mi serviva. Per mettere un punto fermo. Ok, mi sono già arenata, ma almeno ho iniziato.
Sarà una lunga estate…

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Dottorandi

Oggi su Repubblica si parla di me. O meglio, di noi. Dei dottorandi. L’articolo è questo.
La mia condizione di dottoranda è ben descritta dalle prime righe. A volte mi sento proprio come poco dopo la laurea, in quella zona grigia in cui non puoi essere definito: non sei un ricercatore, ma non sei neppure uno studente in senso stretto. Sei qualcosa d’altro, nel mezzo. Ma mi piace. Non posso dire che mi sia pentita di aver fatto il concorso, affatto. Voglio ancora fare l’astrofisico, e lo sto facendo, anche se per lo stato sono uno studente. Il lavoro mi piace, e per due anni della mia vita, con uno ancora davanti a me, ho saputo e saprò cosa fare. Chi te li dà tre anni con un posto di lavoro, oggi?
Ma questo appartiene all’introspezione, all’esperienza personale. Quello su cui voglio soffermarmi invece è la condizione generale del dottorando medio. Che tutto sommato è grato, perché, appunto, per tre anni sa cosa fare della sua vita, ha un contratto e lavora, riuscendo a guadagnarsi un titolo assolutamente indispensabile se si vuole andare avanti con la ricerca.
E allora? I problemi sono due. Innanzitutto la paga, che, come avete letto, si aggira sui mille euro. Per la metà dei dottorandi. L’altra metà in teoria non prende niente. In pratica, se i tempi non sono troppo grami, il tuo professore si ingegna per trovarti qualcosa, tipicamente un assegno di ricerca che ha uno stipendio suppergiù pari alla borsa di dottorato, in qualche fortunato caso superiore. Il problema è che i tempi sono grami, e spesso l’assegno di ricerca vale per un anno, a volte sei mesi. E poi? E poi il tuo professore deve cercare altri fondi, e può capitare che non ne trovi subito, e allora finisci scoperto per qualche mese.
È vero, molti dottorandi – io per prima – vincono il dottorato nell’università in cui si sono laureati. Nel mio gruppo di ricerca, però, io sono l’unica dottoranda romana che ha studiato a Tor Vergata. Gli altri tre ragazzi sono tutti fuori sede. È evidente che allora diventa un problema se per uno, due, tre mesi non hai stipendio. Ci sono i genitori, ok, ma non sempre. E comunque si accede al dottorato tipicamente dopo i venticinque anni, quando uno in linea di massima sarebbe ben lieto di farsi una vita propria. E con mille euro al mese per tre anni, se ti va bene, o contratti da un anno a botta non è che sia facilissimo.
Ma il vero problema è il dopo. Dopo che fai? I concorsi per ricercatore. Che sono rari come l’acqua nel deserto. E quando arrivano, sono inaccessibili alla maggior parte dei nuovi dottori. Perché? Perché essendoci un concorso ogni morte di papa, i precari si accumulano. Esiste gente che ha quarant’anni ed è ancora precaria, e ovviamente ha montagne di titoli. Queste persone – giustamente – vincono i concorsi in virtù dell’esperienze e dei curricula che si sono costruiti in anni di precarietà. Il risultato? Aspettare anche dieci anni per avere un contratto a tempo indeterminato a volte è la regola. Intanto ti arrangi con gli assegni di ricerca, i co.co.co., se sei molto fortunato con un tempo determinato, anche quelli rarissimi.
All’estero, invece, i soldi circolano anche nei momenti di crisi. Nella maggior parte degli stati civili, è anzi durante i periodi di crisi che si investe nella ricerca, che è il motore trainante dell’industria. Per cui, ti accolgono a braccia aperte, con contratti a tempo determinato, post-doc e paghe ben più che dignitose (anche tremila euro). È ovvio che chi non ha famiglie e altre cose che lo blocchino in Italia, se può se ne va.
Ed è qui che volevo arrivare. Un dottorando alla società costa. Le tasse se ne vanno anche nella formazione di studenti e dottorandi. Un sacco di soldi che servono a formare i ricercatori di domani. E quando arriva il momento in cui ciascuno di noi potrebbe ripagare il debito, iniziando a produrre scienza vera, lo stato ci abbandona a noi stessi. Ci dice che dopo quattro anni di laurea e tre di dottorato, non serviamo più. Siamo parassiti inutili perché “non si mangiano panini con dentro Dante”, parole di Tremonti, e mi sento sporca al solo citarle. E quindi molti ragazzi se ne vanno all’estero, a vendere lì le capacità acquisite in Italia, o smettono di fare ricerca, riciclandosi nell’industria se va bene, nel call center se va molto male.
È questa la ragione per cui i problemi dei giovani ricercatori non sono solo fatti della nostra generazione, questioni che riguardano solo noi sfigati dottorandi. Sono soldi che la società tutta dà via a fondo perduto. È uno spreco di risorse che in pochi capiscono.
Sapete con chi ho parlato di questi argomenti l’ultima volta? Con un tassista che mi stava portando a casa da un’intervista. Esatto. Un tassista. Che era stato costretto a cambiare lavoro dal mercato, e che prima faceva – indovinate – il ricercatore in ambito sanitario. E il cerchio si chiude.

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