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Gli ultimi sgoccioli

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Nostalgia

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Il ritorno

Sono preda della sindrome da Costa Crociere. Ce l’avete presente, no, la pubblicità delle crociere. Con questi due che in viaggio hanno fatto la vita dei nababbi, e tornati a casa cadono preda della depressione più nera perché non hanno più la colazione a letto, l’idromassaggio e la massaggiatrice thailandese. Che poi uno si chiede anche “ma chi me lo fa fare di andare in crociera se poi torno e sto così”. Ecco, io l’anno scorso sono stata in crociera, e al ritorno è andato tutto bene. Quest’anno, scesa dalla Val Gardena, la devastazione più totale.
Già scendo dalla macchina, e il passaggio dai 20° di su ai 35° di qua è stato un trauma. Casa che sembrava la sauna turca dell’hotel dove sono stata. Irene incazzata nera perché ha caldo, valige traboccanti mutande sporche, roba da mettere a posto, stanchi morti perché quasi 700 km in otto ore sono una cosa a dir poco devastante. Un’incubo. Una cosa davvero orrenda.
Il giorno dopo non va meglio. Prima mi svegliavo, aprivo la finestra, respiravo l’aria fresca dell’inizio autunno delle Alpi, e guardavo lo splendore del Sassolungo. Adesso respiro – si fa per dire, visto il caldo – la stantia aria di una casa che è stata chiusa per troppo tempo, inciampo tra i panni messi a raffreddare dopo la stiratura e l’asse da stiro ancora in soggiorno, apro la finestra e sento questo delicato afrore di monnezza in putrefazione + bruciato tipico dell’agosto romano e mi godo il panorama di questi quartieri dormitorio che stanno colonizzando la periferia romana. Ah.
Ma che ci vuoi fare. Da tempo ho capito che la bellezza non fa parte della mia vita cittadina. Non fa parte della vita di nessuno che stia in città. Dal boom in poi s’è deciso che l’architettura non ci serviva più, che per avere un tetto sulla testa di nostra proprietà saremmo stati ben lieti di rinunciare alla bellezza estetica dei palazzi, e le città si sono riempite di casermoni quando diceva bene, di orrende palazzine abusive quando diceva male.
Comunque. C’è Irene, c’è mio marito, e questo basta. Per il resto, ogni tanto mi concedo quella boccata d’aria fresca: la passeggiata nel bosco, il breve viaggio di lavoro che mi permette di vedere posti nuovi. Quel po’ di bellezza di cui tutti abbiamo bisogno. E si tira avanti. In attesa della prossima vacanza.

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Morte e vita

I cimiteri mi hanno sempre messo l’angoscia. Fin da piccola, quando passavamo sulla sopraelevata e sbucavamo al Verano, con tutte quelle fioche luci che accendevano la sera, a me mancava l’aria. E così quando andavamo a cimitero a Benevento o a Colle.
Credo siano i fornetti. A Roma si chiamano così le tombe in condominio; avete presente, no? Quelle grosse costruzioni in cemento armato, con vari piani, e dentro decine e decine di piccoli loculi, che se hai sfiga il caro estinto è al decimo piano, e per mettere un fiore devi prendere la scala. Uno in condominio ci passa tipicamente la vita, perché ci deve stare anche da morto, mi chiedo? E poi nel cemento, murato, a svariati metri dalla terra, quella alla quale, secondo le scritture, dovresti tornare. Invece torni la calcestruzzo, in una tremenda quadratura del cerchio: in fin dei conti, vieni già dal cemento armato.
Comunque.
Qualche giorno fa ho fatto un’altra lunga passeggiata. Ripida, soprattutto. Conduce ad una piccola chiese un tre chilometri – e 400 metri più su – dal paese, S. Giacomo. È stata a suo modo un’impresa. Con Irene sulle spalle eravamo stanchissimi, la pendenza si fa sentire tantissimo, e la chiesa ci sembrava un dannato miraggio in cima alla montagna. Poi il bosco si è aperto in una radura minuscola e la chiesa era là, bianca, il campanile alto e sottile.
Come succede spesso da queste parti, nel recinto della chiesa c’era un cimitero. Un cimitero completamente diverso da quelli cui sono abituata io. Una trentina di croci in ferro battuto o in legno, infisse nel terreno appena smosso, su cui erano piantati fiori di vario genere. Era tutto un ronzare di api che andavano da una corolla all’altra.
È strano, ma non c’era niente di angoscioso in quel posto. Sono entrata, e l’aria non mi è mancata. Ho passeggiato tra le lapidi, in quel posto d’infinita pace: gli affreschi naïf sulle pareti della chiesa, i fiori, le croci, le iscrizioni in caratteri gotici. Pochi cognomi, ladini o tedeschi. Foto di vecchietti sorridenti, moglie e marito. 1873, 1964. Due guerre mondiali, epidemie e carestie. Vite forse consumate del tutto tra questi monti. Quanti di loro avevano mai visto altro, oltre al Sassolungo, alla neve, alla fame, alla vita dura? Un vecchietto con un cappello in feltro, un giovane di una ventina d’anni con un volto d’altri tempi. La tomba di alcuni bambini morti piccolissimi tra il 1916 e il 1918.
Ecco, non fosse stato per quei bambini, forse non avrei tremato neppure un po’, lì dentro. Era il cimitero di Spoon River, un microcosmo in cui raccogliere brandelli di vita. Quante storie in un fazzoletto di terra, storie che forse nessuno conosce più, ma che ancora regalano fiori ai monti, in primavera. Non ho mai sentito la morte come qualcosa di naturale. Ma a volte ci sono luoghi in cui la vita ti appare cosí terribilmente semplice, così tremendamente forte, dalla nascita a quella croce di ferro battuto, a guardare il sole sul Sella d’estate, e a dormire sotto la neve d’inverno, che forse puoi fare i conti persino con la vecchiaia e la morte. Guardi i volti sorridenti di due vecchietti, moglie e marito, e pensi che ci metteresti la firma.
E forse, dopo tanto che non ci pensavi più, per mancanza di fede, e per una curiosa disabitudine alla speranza e una tendenza al pessimismo, d’improvviso trovi Dio dove non te l’aspettavi.

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Poststeig

A me il trekking piace. Se ci pensate è un’attività estremamente fantasy: sa di bei tempi andati, con questo muoversi lento, a piedi, in mezzo alla natura, come dire straniero in terra straniera. E poi c’è quest’idea della meta: esci, e lo fai con lo scopo di raggiungere un obiettivo, che sia la cima del monte, un rifugio o il paese accanto. E quando arrivi sei stranamente soddisfatto, come quando qualcosa di difficile ti riesce bene a lavoro, o hai scritto una cosa che per l’ora successiva ti soddisfa. E insomma, quando posso faccio trekking. È una delle ragioni per le quali di recente vado in vacanza in montagna invece che al mare.
Ora, un bel giorno s’è deciso di fare un trekking classico della Val Gardena: il poststeig, o sentiero della posta. Si tratta di una via che costeggia uno dei costoni della Val Gardena, e nello specifico, ad esempio, connette Ortisei a S. Pietro, un paese poco distante. Ne avevamo fatto qualche giorno prima un pezzettino, c’era sembrato molto bello, e abbiamo pensato di provare l’impresa.
Molto bello è riduttivo. Sali quei dieci gradini che dalla strada asfaltata conducono al sentiero e sei in un altro mondo. La civiltà non è molto distante: quasi sempre si percepisce il suono della statale, a valle. Ma ti sembra di essere distante milioni di chilometri, di trovarti in un posto primordiale, nel quale ti muovi come un invitato a malapena tollerato. Intendiamoci, i boschi della Val Gardena non mi hanno mai comunicato quel senso di selvaggio, di ostile del Lago di Albano, per dire, o del Parco Nazionale d’Abruzzo. C’è sempre qualcosa di accondiscendente, di materno nei boschi della Val Gardena. Ma resta il fatto che si tratta di foresta fitta, in cui la luce penetra piano, filtrando tra ramo e ramo, in cui ti sembra sempre ci sia qualcosa in attesa che ti scruta. Un bosco benevolo, ma pur sempre un bosco, una dimensione nella quale l’uomo mette piede a suo rischio e pericolo.
Il sentiero è abbastanza confortevole, i punti più impervi sono recintati da ringhiere di legno, eppure non mancano le emozioni. Innanzitutto c’è l’acqua, tanta. Filtra dal terreno, scende a valle in torrenti gagliardi, che guadi grazie a malferme passerelle di legno o una lastra di pietra messa lì a bella posta. Poi ci sono le frane. Parecchie. Pendii aspri che interrompono il bosco, aprendo squarci di sole nel regno della penombra perenne, cicatrici bianche di pietroni che tagliano in due il verde del sottobosco. Il sentiero scompare sotto le pietre, e ti tocca intuirne il percorso. Sotto di te, una fuga di alberi sradicati e pietrisco conduce a valle, sopra, la vertigine della roccia franata. Io, che sono imbranata, ho usato anche le mani per avanzare.
Ci sono frane recenti, bianche, apparentemente più malferme, e altre antiche, coperte di muschio verdissimo, le pietre ormai incistate nella terra, parte integrante del panorama. Per esempio, c’era un masso enorme bloccato da un albero, completamente coperto di muschio: la tana di Totoro. Mancava un pezzo, che probabilmente s’era staccato durante l’apocalittica caduta, e che giaceva una decina di metri più a valle.
Poi, qua e là, lo strapiombo si apre alla tua sinistra, il richiamo del vuoto appena trattenuto da parapetti di legno. Sotto, un precipizio verdissimo, gli alberi letteralmente aggrappati ai lembi di terra. Davanti, i dirupi scoscesi e verdissimi dell’altro versante della valle.
Nonostante la pendenza sia bassissima, e il sentiero tutto sommato confortevole, in alcuni punti sono stata inquieta, e mi sono stancata, come è giusto che sia. Fa parte dell’esperienza. La natura è questo, è altro da noi, è qualcosa che c’era prima di noi, ci sarà dopo: resta generazione dopo generazione, contende all’uomo ogni spazio libero, riconquistando terreno non appena si abbassa la guardia. Non è più qualcosa che ci riguardi. Piuttosto è qualcosa che si ammira in silenzio.
Ok, confesso che a S.Pietro non ci siamo arrivati. Dopo un’ora e mezza di cammino e con la prospettiva di altrettanta strada ancora da fare, siamo scesi a valle a Pontives. Da lì, l’autobus fino a Ortisei. Ma tutto sommato non ha avuto davvero importanza. Ha contato piuttosto la fatica, lo stupore, la bellezza.
Qui sotto, un paio di fotone esplicative. Io questo sentiero ve lo consiglio: noi l’abbiamo fatto con Irene al seguito, quindi non è straordinariamente impegnativo, ed è meraviglioso.

P.S.
Lunedì, giuro, svelo cos’è il progetto top secret :P

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A bugs Life

Mi rendo conto che un post del genere ha dello sconvolgente per una persona come me, ma a quanto pare non mi conosco bene come credevo.
La mia fobia per insetti e ragni è ben cognita. Arrivo al punto che anche le farfalle non è che proprio mi esaltino. Eppure in questi giorni ho avuto parecchi incontri ravvicinati con fauna dotata di esoscheletro. Non solo non mi ha fatto né paura né impressione, ma mi sono data anche alla fotografia della stessa, ponendomi in posizioni assurde, con lo zoom al massimo, e, soprattutto, a due passi dai suddetti insetti.
Non so. Forse quando li vedo a casa loro li percepisco come meno minacciosi. Forse è vederli dentro casa o giù di lì che me li fa odiare. In giro per boschi li guardo incuriosita e stupita. Oggi sono addirittura passata vicino ad un’arnia ronzante…
Comunque, qui sotto un campionario dei miei incontri ravvicinati col nemico.

P.S.
In effetti, non ha più senso giocare col progetto top secret. Alcuni di voi hanno indovinato. Chi, ve lo dico la prossima volta. Assieme al disvelamento del suddetto progetto. Intanto vi dico solo che il libro illustrato delle Guerre uscirà in autunno, e che i testi ho finito di scriverli poco prima di andare in ferie.

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Prima di andare

Da oggi sono in ferie. Più o meno. Ma credo ci si sentirà lo stesso. Magari con minore frequenza, per quanto di recente ho trascurato un po’ questo posto. Anyway, penso che ci sarò, dai.
Intanto, oggi Irene fa un sacco di da da da, ieri ha fatto il suo primo bagno in una piscina seria e tra qualche giorno andrà per la prima volta all’estero fuori dalla mia pancia.
Vi lascio con due pensieri.
Il primo è un’anteprima su un progetto futuro. Donc, in un futuro non troppo remoto c’è l’intenzione di unire insieme due mie passioni in un prodotto particolare, che aggiunge grosse novità ad una cosa che avete già visto. Criptico, I suppose. Vuole esserlo :P . Scatenatevi pure in ipotesi e congetture, che settimana prossima vi do qualche news ulteriore. Ah, ha a che fare con nuovi media.
Infine, altro giochino dell’estate: secondo voi cos’è l’oggetto della foto qui sotto? Si astenga ovviamente chi l’ha già visto sul mio profilo Facebook.

Piccolo indizio: ha a che fare con la piscina di cui testimonianza fotografica qui.

Soluzione
L’oggetto del mistero è un calamaro motorizzato: lo metti in acqua e nuota. È un giocattolo per il bagnetto che Giuliano ha portato a Irene da Cambridge. Lei lo adora, in piscina dà il meglio di sé :P
Per il progetto top secret, invece, dovrete aspettare…

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Intervista col vampiro

In qualche modo, la sento. Forse una vibrazione dell’aria, una nota acuta che si alza sul ronzio di fondo del condizionatore, sullo scricchiolio dei mobili di casa. Apro gli occhi e lei è davanti a me.
A differenza di quanto si dice in alcuni libri, non è bella. Ma magra sì, sottile e sfuggente. Il suo corpo è progettato apposta per la caccia. Tutto in lei è finalizzato allo scopo, la sua vita sottile, il suo viso affilato. Milioni d’anni d’evoluzione hanno forgiato il suo fisico perché riesca a fare al meglio quel che la tiene in vita: succhiare sangue.
La guardo tra il rassegnato e il disperato.
«Ancora…».
La mia carne porta i segni degli ultimi pasti, una geografia tracciata dagli attacchi notturni e diurni. E sono stanca.
«Ancora» dice lei, una semplice constatazione.
Getto lo sguardo verso la porta della camera di mia figlia.
«Almeno risparmia lei».
«Sei tu che mi interessi».
Affondo la testa nel cuscino.
«Non ne hai abbastanza? Notte dopo notte?».
«Lo sai che è così che sopravvivo».
«Non è giusto. Non è leale».
Lei si appoggia alla sponda del letto.
«Potrei dire lo stesso anch’io. Cosa credi, che mi piaccia rischiare la vita ogni notte? So che è più facile attaccarvi all’aperto, quando neppure riuscite a vederci. Ma avevo fame, cosa dovevo fare? È la natura. Ci sono prede e predatori. In fin dei conti anche tu uccidi per vivere, o no?».
Certo. Eppure sento lo stesso che non è giusto. Penso ai poveri strumenti che ho messo in atto per tenere lontana lei e i suoi simili, là sulla sponda del letto. Ma le dicerie e le leggende non funzionano, e ancora più è impotente la scienza. Per quanto abbia cercato di proteggermi, sono di nuovo inerme davanti a lei.
«Come sei entrata?».
Sorride.
«Segreti del mestiere».
«Dalla porta? Dalla finestra? Attaccata ai miei vestiti?». Insisto. Voglio sapere dove ho sbagliato, dov’è la mia colpa, e se c’è qualcosa, in futuro, che potrò fare per proteggermi. Mi domando se è qualcosa nel mio sangue, nel mio odore, se sono nata così. Ma so che questa cosa, come tante altre della vita, è dominata dal caso; trovarsi in un luogo piuttosto che in un altro, andare a letto un po’ prima, o un po’ dopo. Non c’è davvero nulla che possa fare.
«Lo sai che ti ucciderò» dico.
«Provaci» mi sfida lei.
Ma sono stanca. Gli occhi mi so chiudono, il caldo mi ha fiaccata. Ha ragione lei. Non ho le forze per ingaggiare un’altra battaglia, e comunque il risultato è incerto. Provaci. Già, ha proprio ragione.
«Fa’ quel che devi, ma promettimi due cose: che non andrai di là» e indico la stanza di Irene, «e che poi mi lascerai dormire».
«Come vuoi» dice con noncuranza. E io mi abbandono sul letto, la pelle esposta.
Si alza bisbigliando dalla sponda del letto, si posa piano sulle gambe. Le preferisce, non so perché. Come sempre, non sento il suo tocco. Infila il pungiglione nella pelle, e quel che sento è solo la sua saliva urticante, e una sensazione tra il bruciore e il prurito. E poi il ponfo che si gonfia.
Lei sarà di parola. Pungerà solo me tutta la notte, e se ne andrà ronzando all’alba, a nascondersi in chissà quale anfratto di casa mia, o forse via, verso altre casi, altri pasti.
Fottute zanzare, ma mi volete lasciare in pace sì o no?

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