Diciamo che un concetto che è si è inciso piuttosto profondamente in me è il valore del denaro. Vivaddio, sono una persona estremamente oculata nelle spese, magari pure un po’ troppo, ma prima di tirar fuori dei soldi per qualcosa mi faccio due miliardi di domande. Soprattutto quando si tratta di qualcosa di non strettamente utile per la sopravvivenza, categoria merceologica a me nota come “sfizi”. Sfizio è un lettore di MP3 – anche se è quello subacqueo che cercavo da una vita -, sfizio sono un paio di scarpe col tacco, sfizio è un vestito che mi piace. La cosa, ovviamente, prescinde completamente dal fatto che i soldi per lo sfizio, ovviamente ci siano. È a prescindere. E veniamo al punto.
Qualche tempo fa, per ragioni che al momento non riesco a ricostruire, mi son messa a cercare immagini di abbigliamento giapponese. Il fato ha voluto che lo facessi sul raccoglitore mondiale di sfizi: Etsy. Etsy non è un sito di ecommerce qualsiasi, Etsy c’ha roba intrinsecamente, ontologicamente sfiziosa. C’ho comprato degli inutilissimi, ma assolutamente meravigliosi, baciamano ricamati. E un paio di guantini di pizzo. E le tazze di Star Wars con le silouettes di Leia e scritto dietro “I love you” e di Han con la scritta “I know” – che sono irrinunciabili, ne converrete. E…vabbeh, avete capito. E quindi niente, ho trovato questi kimono vintage meravigliosi. Roba che non potevo dire di no. Ora, qualsiasi sfizio superi i venti euro richiede un elaborato rituale per concludere l’acquisto.
Si comincia con l’innamoramento dell’oggetto. Nello specifico, un haori. Poi si passa alla contemplazione: beh, è proprio figo. Sì, ma costa più di venti euro.
Ok, ma non tanto. Però non ne hai bisogno.
Vabbeh, che vuol dire…è bello. Sì, ma dove te lo metti?
Ovunque. Davvero ne hai il coraggio?
Ma davvero me lo stai chiedendo? Ok, questa è scema, hai ragione. Ma comunque son più di venti euro.
Dannazione…
Seguono lunghi giorni di contemplazione estatica del prodotto. Se l’ossessione è particolarmente intensa, inizio anche a sognarmelo. Sicché, si giunge all’ultimo atto. L’assoluzione.
Non posso, non posso! comprare una cosa per – signore aiutami a dirlo… – il mio puro piacere senza aver ricevuto una preventiva assoluzione per il mio peccato. Assoluzione che consiste nell’assenso delle due figure di riferimento della mia vita: il marito, e la mamma. Irene si aggiungerò di sicuro appena avrà raggiunto l’età della ragione.
Ora, capitemi. Mio marito traffica in retrocomputing; gli ho messo un freno sul budget, altrimenti avrebbe dato via le mutande per un Apple II. Per sua ammissione, s’è sempre tenuto lontano da Magic perché aveva paura di vendersi la mamma per una carta rara. Tipo gli ex-alcolizzati che non bevono per non cadere in tentazione. Quale può essere il suo commento al mio dramma esistenziale “lo prendo/non lo prendo”?.
«Ma sì, che te frega».
E una è andata.
Poi si passa al consiglio della mamma. Che deve ovviamente approvare anche foggia e caratteristiche del prodotto, sennò non vale. Mia madre, che assieme al babbo mi ha inculcato quest’etica del danaro, ovviamente non mi liquida con frasi lapidarie. In genere però capitola abbastanza rapidamente. Anche perché non salgo mai sopra i cento euro. Ma proprio mai. In genere la reazione finale è un bonario “ma prenditelo e non rompere!”.
Com’è andata a finire con l’haori, lo potete vedere qua sotto.
Il dramma è che adesso aspetto l’arrivo di uno yukata dal Giappone. E un obi. Sennò con cosa lo chiudo lo yukata. Ma lo posso riutilizzare anche sull’haori, eh? I colori ci stanno. Lo userò un sacco, giuro! Mi assolvete anche voi?
Come ben sapete – avendovi io fatto una testa così al riguardo – un tre settimane fa ho fatto un incidente. Poiché la colpa, ehm…come dire…non era del tutto dell’altra macchina…dovevo pagare una multa. Ho rimandato la cosa il più possibile, perché non sono esattamente ansiosa di girare per uffici pubblici, ma alla fine non ho potuto evitare di andare a pagare. Reduce da una mattinata per metà in palestra e piscina, e per metà in giro a far la spesa, ecco che mia madre mi deposita davanti all’ufficio postale, portando via la macchina perché le serviva il pomeriggio. Ma non è un problema, l’ufficio postale è a un 500 metri da casa mia, e io conto anche di metterci poco, visto che sono le 14.00.
Arrivo, non c’è molta gente, prendo il numerello. Attendo, poco, perché la fila scorre, e arrivo davanti all’impiegata. E mi accorgo di aver fatto un errore fatale: non ho compilato il bollettino. Mi scuso, l’impiegata non fa una piega.
«Compilalo e poi torna qua» mi dice.
«Prendo un altro numero?» chiedo.
«No, non serve. Appena hai fatto vieni».
Vado a compilare. Ci sono quattro bollettini. Confesso che non sono praticissima di bollettini: pago quasi tutto online, e anche le bollette ce le ho domiciliate. So tutto di come pagare con Paypal, ma ho difficoltà persino a girare un assegno. Comunque, compilo tutto. Inserisco la cifra dovuta, leggendo a stento il verbale, metto l’intestatario, mi avvicino.
Solo che una signora mi dribbla e passa avanti. Perché, scopro, questa storia di “avvicinati che ti faccio passare” è consueta all’ufficio postale. A quanto pare non sono la sola che si dimentica di compilare e roba del genere. Vabbeh, non è un problema, la signora potrebbe essere mia nonna, è pure giusto che vada avanti. Tra l’altro è anche particolarmente cortese. Solo che nel giro di dieci minuti la fila dei “passo avanti” è diventata ciclopica. L’impiegata alza lo sguardo.
«Ma siete tutti per me? Vabbeh, però mo andate anche al primo che si libera, eh?» dice.
Io capisco l’antifona, per cui mi siedo e prendo un nuovo numero. D’altrone mi sento sempre un po’ in imbarazzo a passare avanti, tanto più che l’errore è stato mio.
Stavolta, però, la fila non scorre manco per il cavolo. C’è un blocco totale dei numeri sulle operazioni finanziarie. Tutti fermi. E io comincio ad innervosirmi. Anche perché ho da fare una cosa a casa. Giro il bollettino delle poste e scopro che – meraviglia! – si può pagare pure in ricevitoria. Fantastico, ci sono i tabacchini nel quartiere! Esco, che tanto in venti minuti i numeri non sono avanzati manco di mezzo decimale, e – botta di fortuna – il tabacchino è attaccato alle Poste.
«Posso pagare una multa?» chiedo.
«No, mi spiace, ancora non siamo attrezzati».
Sob. Rientro alle Poste con le pive nel sacco. E pure un po’ incazzata. Voglio dire, Stato, ti devo dei soldi. Suppongo tu sia ansioso di prenderteli, e immaginerai che io, invece, con lo spavento, la macchina ancora dal carrozziere a tempo indeterminato e il conto del suddetto che sfiora le quattro cifre, non è che sia proprio ansiosa di darteli, questi soldi. Non potresti semplificarmi le cose? Tipo permettermi di farti un bonifico online?
No, donna: partorirai con dolore, e pagherai le multe alle Poste, possibilmente quando c’è una fila non inferiore ai quaranta minuti.
Vabbeh. Eva, hai un conto aperto con me.
Intanto, un signore dà in escandescenze non so esattamente perché, poi, inspiegabilmente, i numeri ripartono. Arriva il mio turno.
Arrivo, saluto, deposito il malloppo dei bollettini.
«Devo pagare una multa».
«Così non va bene».
Faccio la faccia perplessa: «Ossia?».
«Questi vanno staccati».
Guardo i bollettini. Cioè, l’impiegata mi sta chiedendo di separare lungo la linea tratteggiata i quattro bollettini. Che, per carità, con ogni probabilità è una cosa che dovrei fare io, ma non capisco il tono scocciato né il motivo per cui non può farlo lei. E, siccome sono già vagamente irritata, l’incazzatura sale. Comunque, piglio e stacco tutto.
«Perché sono quattro?» chiede, sempre scocciata.
«…non lo so…».
«Nemmeno io. Non lo so che deve pagare».
«Ma a me li hanno dati così…».
«Legga il verbale».
Il verbale è la copia con carta carbone, quindi già pressoché illegibile, e la calligrafia non è esattamente chiarissima. A stento sono riuscita a ricostruire la cifra che devo pagare.
«Sul verbale non ci si capisce niente», e stavolta quella scocciata sono io.
«E allora deve telefonare alla Municipale. Chiami il numero e si faccia spiegare».
Eccerto. Alla Municipale di Roma gli dico “salve, sono Licia Troisi, ho fatto un incidente il 9 gennaio, mi dice come devo pagare?” e siccome Roma non è frequentata ogni giorno da 5 milioni di persone, di cui una percentuale non trascurabile si scatafascia in vario modo su altre macchine, pali e marciapiedi, loro sapranno subito dirmi cosa devo fare. O forse mi manderanno a cagare, che è più probabile.
«Vabbeh, grazie e arrivederci» bofonchio, evidentemente incazzata. Esco, e mi girano ad elica. Sono rassegnata a dover fare la fila alla posta, ma per niente, francamente, no. Tanto più quando non sono lì a mandare o ritirare pacchi, ma a cacciare dei soldi per una multa. Capisco che avere a che fare tutti i giorni con la “gggggente” non sia piacevole, ma, cara impiegata, sapessi quanto è piacevole per me fare quaranta minuti di fila – due volte – per pagare una multa e non riuscirci perché nessuno sa dirti come si fa. Ma, con ogni probabilità, la cretina sono io. La prossima volta faccio un corso accelerato in compilazione di bollettini.
Comunque. Sono in ballo, e voglio chiudere la pratica. Mi serve un altro tabacchino. Che non so dove sia. Ricorro alla mamma, che magari si ricorda. Sì, c’è un altro tabacchi. Dall’altro lato del quartiere. E io sono a piedi. E, confessiamolo, ho pure un bel po’ di acido lattico per via della piscina.
Parto.
Impreco più o meno per tutto il viaggio attraverso il quartiere. Che non serve a niente, ma tant’è.
Arrivo al tabacchino. Chiuso. E adesso potrei veramente tirare giù tutti i santi dal paradiso. Ma ho detto che devo chiudere la pratica, dannazione. A che ora apre? 15.30. Che ore sono? 15:15. Resto. Resto e aspetto. Visto l’andazzo, mi diranno che non si può fare, anche se c’è scritto Lotto ovunque, e le multe si paganp sfruttando il circuito del Lotto. Resto e basta.
Mi siedo sugli scalini lì davanti. La gente mi guarda pure. Cos’è, non avete mai visto un’onesta cittadina che cerca di emendare i suoi errori con lo Stato?
L’unico raggio di luce è Zerocalcare che ha messo tra i preferiti un mio tweet al riguardo degli uffici Postali. Cioè, voglio dire, uno dei miei autori di fumetti preferiti! Tipo quella volta che Leo Ortolani ha risposto ad un mio commento sul suo blog, facendomi sperare che, forse, nonostante l’ora di ritardo che gli diedi quando lo conobbi a Lucca, ha messo via la mia foto col tiro a segno per le freccette.
(Io sono sempre convinta che molte delle persone che ammiro, e che per qualche ragione ho incrociato nella mia vita, mi odino per qualche mio comportamento inopportuno. Del resto ho fatto figure di tolla un po’ con tutti…).
Comunque. Arrivano le 15.30. E arriva anche il proprietario del tabacchino. Titubante, e pure francamente stanca, mi avvicino.
«Le posso fare una domanda?».
«Mi dica».
«La posso pagare una multa, qui?».
«Certo!».
Tempo dieci minuti, ho finalmente pagato la multa. Con un sovrapprezzo di un paio di euro. Vabbeh, ‘sti cavoli.
Grazie, Stato, grazie di avermi permesso di avere questo grande onore di pagare per le mie colpe! Grazie del favore, eh?
Mi avvio verso casa. Altri 600 metri. Ma è un bel pomeriggio. Freddo, ma c’è il sole. Alle 16.00 raggiungo casa. C’ho messo due ore per far tutto. Poteva sicuramente dirmi peggio. Ma, diciamocelo, anche meglio.
E non posso neppure arrabiarmi più di tanto. In fin dei conti, sono pure nel torto…
Da quando ho compiuto 18 anni, ho votato sempre. Credo di aver saltato solo un referendum di cui proprio non capivo l’utilità. Non lo so, sento piuttosto fortemente i doveri civici. Vi dico solo che votai pure alle primarie, quattro anni fa o giù di lì. Evidentemente ci presi gusto, perché adesso mi ripeto. Vado a votare alle primarie del centrosinisistra. Niente, è che voglio tentare tutto il possibile, diciamo così, per votare alle politiche uno che mi piaccia. Mi sentirei anche vagamente in colpa a non andarmi a scegliere il candidato.
Ingenua, pensavo fosse facile: vai lì, sganci l’obolo, necessario a complicare la vita a eventuali “infiltrati”, e voti. Ingenua, appunto.
Di sfuggita, su MTV, vedo Pif che fa un video in cui spiega come votare. E mi viene il dubbio. Forse non è semplice come sembra. Mi voto al totem di tutti noi gggggiovani web 2.0, internet: scopro che in effetti non basta andar lì domenica, occorre prima iscriversi. Per iscriversi devi andare sul sito e disporre della tessera elettorale. Ora, in casa mia niente è mai dove lo si cerca, e dunque trovare la tessera elettorale già è un primo scoglio. Meno male che tipo una settimana fa, mettendo in ordine l’armadio, l’ho scovata in una borsa che non aprivo da un po’. E quindi questa almeno è fatta.
Vado sul sito, e scopro che è lento quanto una puntata di Falling Sky. Più che lento, è farragginoso: selezioni la tua regione, e ci vogliono due ore perché sia possibile selezionare la provincia. Considerando che poi devi anche scegliere comune e sezione, la cosa si porta via un bel po’ di tempo. Comunque, trovi il tutto, immetti i tuoi dati e aspetti. Una quaresima, di nuovo, alla fine della quale, per altro, a me il sistema dà errore. Olè.
Impreco in ostrogoto, rifaccio tutto daccapo, ma per fortuna, a un decimo dell’attesa per poter finalmente selezionare il seggio, mi arriva una mail, in cui mi si dice che, ehi, ti ho registrato. Grande!
Uno si dice: siamo nell’era di internet, basterà questo. Poi vado là, verso l’obolo…No. La registrazione sul sito produce un foglio, che devi stampare, e portare di persona ad uno degli uffici elettorali. Lì ti daranno un altro foglio, e questo, insieme alla carta di identità e alla tessera elettorale (e il passaporto? E il certificato di nascita? No?) permette, finalmente, di votare domenica. Ah. Il perché di questa procedura mi è ignoto. Così, ad occhio e croce, sembra un tentativo di scoraggiare l’elettore. Un tentativo che, per altro, funziona alla grande, perché, arrivata a questo punto io ho circa il 5% della voglia iniziale di andare a votare. Comunque. Selezionando di nuovo regione, provincia e città ti vengono indicati tutti gli uffici elettorali. Ovviamente, il centro di Roma pullula, mentre in periferia latitano. I due più vicini stanno a buoni sei o sette chilometri da qua, che a Roma possono significare anche un’ora tra andare e tornare. Vabbeh, uno è sulla strada per portare Irene all’asilo. Se, te credi, te. Non è che ci puoi andare quando vuoi, signorino: ci sono specifici orari ai quali passare. Tutti per me comodissimi: dalle 17.30 alle 19.30. Solo il martedì e il giovedì. Nelle notti di luna piena. Alle calende greche.
Lo so. A questo punto uno si arrende. C’ho provato, mi hai dato che prova che non vuoi che voti, ahò, non voto. Ma non io. No. Io insisto. Vabbene, dannata coalizione elettorale, uscirò alle 17.30 e mi farò un’ora in macchina. O tu, candidato che ho intenzione di votare, fammi un monumento. Questa sì che è dedizione.
Poi, per fortuna, un fortunato imprevisto: domani sono fuori per diletto, e c’è un ufficio elettorale a chilometro dal posto in cui vado. Grande. L’insperato capovogimento degli eventi convince anche Giuliano a registrarsi, lui che aveva desistito più o meno a “scegli la regione di provenienza”.
Tutto è bene quel che finisce bene?
No. Perché poi andiamo a vedere dove effettivamente dobbiamo andare a votare domenica, ed esce fuori che è Via Piripacchio. Ma nel nostro quartiere c’è Viale Piripiacchio. Via Piripacchio è dell’altro lato della galassia, rispetto a noi. Sarà la stessa via? No, perché in effetti io a Viale Piripacchio ci ho vissuto, e quando stavo lì una miriade di pacchi che dovevo ricevere finivano a Via Piripacchio invece che da me. Sì, a Roma ci sono due vie che hanno sostanzialmente lo stesso nome, solo che una è un Viale.
A me e a Giulino viene in mente di chiamare il numero verde. Poi ci ragioniamo su: le istruzioni per votare a queste benedette primarie sono lunghe quanto due rotoli della Torah, è plausibile che i centralini del numero verde siano intasati di gente che chiede chiarimenti, o semplicemente bestemmia, perché è più facile far passare un cammello dalla cruna di un ago che ricevere il privilegio di votare alle primarie del centrosinistra.
Per cui? Per cui nulla. Noi domenica si va a Viale Piripacchio. Se c’è qualcuno, bene. Sennò affangufo a tutti. Piena di senso civico sì, tenace pure, ma cretina, francamente, no.
Immaginate sia un’afosa sera d’estate. Immaginate che abbiate appena cambiato il pannolino alla prole, che non ha il pancino completamente a posto. Immaginate anche che dobbiate lavorare ad un piccolo pezzo che vi hanno chiesto per un giornale, poche battute, ma voi siete in difficoltà quando c’è da scrivere poco.
State lì, a cercare la quadratura del cerchio – e a sperare che vostra figlia si addormenti – quando…rumore di amplificatore che si accende, alcune note di pianoforte e una voce calda da pianobar che fa: “Buonasera a tutti!”. Seguono applausi e fischi, e “ROMAAAAA…NUN FA LA STUPIDA STASERAAAAAA…” attacca la voce. Così, a tremila decibel. Alle 22.00 spaccate.
Non ci potete credere. La pupa si muove nel letto. Non solo non ci potete credere, vi iniziate anche ad incazzare.
Ecco, a me è successo, paro paro, ieri sera. Ricordo che quattro anni fa ascoltai con gli occhi a cuoricino la storia del mio amico che faceva la serenata rock a quella che all’epoca era, ancora per pochi giorni, la sua fidanzata. Chissà perché, ora che la promessa sposa abita ad un tiro di schioppo da casa mia, e mia figlia di due anni e mezzo prova a dormire di là, la cosa mi sembra molto, ma molto meno romantica.
Tiro su la persiana, esco sul balcone dopo aver superato il muro da 35° e 99% di umidità che mi aspetta sulla soglia della finestra. E, in effetti, a 200 metri da casa mia c’è un piccolo assembramento di persone sotto una casa. Serenata. Serenata il 23 di agosto alle 22.00.
Rientro in casa imprecando in sanscrito. Almeno la prole sembra dormire. Che devo fa’? Mi metto al lavoro, ecco che devo fa’.
Provo a concentrarmi sulla frase che devo sbrogliare…
“UN VIAGGIO A SENSO SOLO…SENZA RITORNO SE NON IN VOLOOOOOO…”
…ecco, potrei inserire qui il pezzo sul…
“I MIGLIORI AAAAAANNI DELLA NOOOOOOSTRA VITAAAAAAAA…”
…questa parola qui si ripete, no, non va…
“SEI CHIARA COME UN’ALBAAAAAAAA…SEI FRESCA COME L’AAAAAAAAARIAAAAA…”
…se ci mettessi…
“DAI! TUTTI INSIEME!!”.
…
“E no, cazzo, no! Tutti insieme??? MA CHE CAZZO, SEI A SAN SIRO O IN UN FOTTUTO QUARTIERE DOMRITORIO, E SOTTOLINEO DORMITORIO, DI ROMA????”.
Ecco. Il giorno in cui inveisci davanti al pc contro uno che sta facendo la serenata alla morosa il 23 di agosto alle 22.00, capisci non solo che il romanticismo t’è morto dentro, ma anche che la gioventù è veramente finita.
Ormai sono vecchia inside.
«Ma quindi cosa fai nella vita?».
«Mah…lavo e stiro, principalmente. Occasionalmente scrivo».
«Uhm…».
«Già».
«Stai togliendo il pannolino alla bimba?».
«Esatto».
«Massima solidarietà».
«Sempre».
Aprendo la finestra
«Beh, dai, c’è stato un miglioramento: adesso per lo meno fa caldo».
«Sì, ma il tempo fa schifo! È come novembre, ma a 30°».
«Quante ne vuoi…».
«Hai ragione. Pure io…che pretese…».
«Ieri facevo il letto, e pensavo a tutte le altre cose che avevo da fare».
«Ah-ah?».
«E niente, mi sono detta: “Certo che a noi donne è richiesto di essere tipo Superman…dobbiamo stirare, lavare, essere brave mogli, brave mam…”».
«Mbè? Perché ti blocchi?».
«Perché è su quel “mam…” che ho avuto l’illuminazione».
«Ossia?».
«Seguimi: chi è che ci vuole Superman?».
«Non lo so…il maschio dominatore?».
«Le altre donne».
«Non ti seguo».
«Pensaci: quanti uomini conosci che fanno attenzione che la casa sia sempre pulita, le camice sempre stirate, il letto sempre fatto?».
«Uhm…».
«Bravo. Pochi. In compenso è pieno così di altre donne che a queste cose ci fanno caso. Pulisci casa perché poi viene ospite, che so, la suocera, e la suocera lo nota se è pieno di omini della polvere».
«Omini della polvere?».
«Sì, quelli di Miyazaki. Scusa, è il mio animo nerd».
«Figurati. Continua pure».
«Stiri la camicia al marito perché poi a lavoro c’è la collega che ci fa caso se la piega è fatta bene. E se non è fatta bene…tracchete! “Ah, ma avvedi questa, ah, ma questa non bada al marito…”».
«Stai esagerando…».
«E i figli? Lì è la tragedia! Tutte lì a guardare fino a che età hai allattato, se lo sgridi quando fa i capricci, se lo sgridi troppo…».
«Sei te che hai i complessi di inferiorità».
«Ma non è colpa nostra. Sono generazioni che le nostre nonne, le nostre bisnonne, le nostre trisavole ci hanno insegnato a far le acide con le altre donne».
«Ma mi ascolti?».
«Siamo tipo le kapò l’una dell’altra…».
«E gli uomini sono i nazisti, giusto?».
«Più o meno».
«…».
«…A volte mi fai paura…».
«Ma mi ami anche per questo, no?».
«Scema».
«Acido».
Succede che cambiando casa tu non sia stata diciamo prontissima a domiciliare tutte le bollette. Succede che con l’AMA, ossia l’immondizia, tu abbia avuto un po’ di problemi, tra dati catastali che non ti tornavano e procedure oscure d’iscrizione. La conseguenza è che all’AMA risulta tu non abbia pagato delle bollette vecchie di due anni. Non c’è problema. Sei una persona onesta, le vuoi pagare, per cui ti armi di santa pazienza e un lunedì mattina vai in banca. Sì, in banca, perché vuoi verificare per bene le domiciliazioni.
Dopo una breve attesa, è il tuo turno. Ok, le domiciliazioni sono a posto.
Tu: “Va bene, allora vorrei pagare le bollette inevase”
Impiegato: “Uhm…mi sa che noi non lo facciamo…aspetta, vado a chiedere”.
Dopo una breve attesa, l’impiegato torna: “No, non le puoi pagare qui, devi andare alla Posta”.
Non c’è problema, tutto sommato l’avevi anche messo in conto. Vai alla posta. Siccome è un giorno tipo di ponte, non c’è molta fila. Arrivi quindi subito allo sportello.
Tu: “Salve, devo pagare delle bollette arretrate dell’AMA”.
Scorri il falcdone galattico di fogli che l’AMA ti ha inviato insieme al sollecito finché non trovi una cosa vagamente somigliante a qualcosa atta a pagare. L’impiegato guarda il foglio e te lo rigira.
Impiegato: “Questo non è un bollettino, è un foglio qualsiasi”
Tu, perplessa: “Non va bene?”
Impiegato: “No, ci vuole un bollettino con su l’importo della bolletta e soprattutto il conto corrente su cui versare i soldi”.
Tu: “Ah. E qui non c’è scritto niente di tutto ciò?”.
L’impiegato, impietosito, scorre i faldoni.
Impiegato: “No. Le conviene chiamare il numero clienti e chiedere a loro”.
Te ne vai mogia. Non hai ben capito. L’AMA vuole da te dei soldi, e vabbeh. Ma non ti dice come farglieli avere, né ti dà un bollettino per pagarli. Nel foglio in cui ti viene spiegato che sei indietro nei pagamenti c’è scritto chiaro: “Per bollette non domiciliate, usare il bollettino allegato”. Il bollettino allegato, però, non c’è.
Torni a casa, e iniziano un po’ a girarti. Non solo devi cacciare dei soldi, ma ti stanno anche complicando il percorso per farlo. Cerchi il numero di assistenza clienti. Che non c’è. c’è il numero generico del comune di Roma. Fai quello.
Ti mettono in attesa con l’immancabile musichetta: dieci minuti di primavera di Vivaldi, intervallati da una voce suadente che si scusa per l’attesa. Tu guardi di fuori: è nuvolo, c’è afa, e fanno 25° alle 10 del mattino. Primavera un cazzo.
Finalmente risponde un’operatrice, che ovviamente, sa il minimo indispensabile.
Operatrice: “Deve andare a pagare alla Banca Popolare di Sondrio”.
Tu: “Ah. Che non ho la più pallida idea di dove sia”.
Operatrice: “Se vuole cerco io: dove abita?”.
Tu: “Punta di Rocca Cannuccia”.
Operatrice: silenzio. “Che zona è?”.
Tu: “Tra Culonia e il GRA”.
Operatrice: silenzio. “No, perché qui ho una filiale al Casilino, una sull’Appia”.
Tu: “Non si preoccupi, cerco io. Piuttosto avrei anche un altro problema: perché sulla bolletta mi vengono segnalate due utenze quando io ho una casa sola?”.
Operatrice: “Eh, ma questo deve chiederlo a loro…va a Via Capo d’Africa, dietro il Colosseo, e chiede a loro”.
E certo. Tu abiti dall’altro lato della spirala rispetto al Colosseo, e non vedi l’ora di attraversare mezza Roma per andare là.
Tu: “Ok, grazie mille”.
Pensi che è comunque grasso che cola: questo è il numero del comune di Roma, roba che quell’operatrice deve essere pronta a rispondere a qualsiasi tipo di domanda, da come fare il passaporto a come, appunto, pagare le bollette. Già tanto che sapesse dov’è la sede dell’AMA.
Comunque, cerchi su internet bestemmiando in sanscrito. Immaginavi avresti dovuto fare un po’ di coda per pagare queste fottute bollette, ma non che saresti dovuta andare chissà dove in giro per Roma. Finalmente trovi una filiale entro 20 km da casa tua. E quindi, niente, parti. E per tutto il viaggio ti spari Lady Gaga al massimo, così almeno urli e ti sfoghi.
Arrivi. Il civico è il 29. Tu, intelligentemente, parcheggi al 140. Ti fai tutta la via, sotto questo bel cielo grigio cappa à la spleen di Baudeleriana memoria. E arrivi. Provi ad entrare. Ci sono quelle porte lì da banca, che hanno la caratteristica di bloccare gli onesti per due ore, e di far fare grasse risate ai rapinatori. Per entrare devi lasciare le impronte digitali sul lettore, una cosa che t’ha sempre dato ai nervi. Cazzo, sei mica un terrorista! Comunque. Entri, appoggi il dito indice e…e niente. Non ti fa passare. Parte una musica da sala d’attesa, di quelle che in genere preludono al momento in cui l’eroe perde definitivamente la pazienza e sbrocca di brutto. Esci, borbottando che sei arrivata lì dall’altro lato dell’universo per fare un favore alla maledetta AMA, per una bolletta vecchia di due anni, dannazione!
Passante: “Ah signori’, nun ce deve lascia’ er dito, c’o deve solo appoggia’ ‘n attimo e poi levallo, che così funziona”.
Obbedisci, e finalmente sei dentro. Sono le 11.00, sei partita da casa alle 9.10 e finalmente ti sei messa in regola con l’AMA.
Il tuo unico desiderio, ora, è dar fuoco al primo cassonetto che incontri per strada. Ok, sei in torto, ma volevi pagare! Perché, oltre ai soldi, ti devono scucire via pure la pazienza?
Ti consoli con l’unico modo conosciuto. Ti compri un paio di scarpe tacco 12 e va’ a quel paese.
Off topici: siccome, nonostante quel che dico a Irene tutte le sere quando le racconto Pinocchio, certe bugie hanno le gambe lunghissime, specifico a chiare lettere che questo è un Pesce d’Aprile. Non sono tradotta in inglese, indi per cui la Le Guin credo non abbia la più pallida idea di chi io sia, e, anche se lo sapesse, dubito fortemente che potrebbe mai essere interessata a scrivere qualcosa a due mani con me. Ne approfitto però per consigliarvi Le Tombe di Atuan, un libro meraviglioso, tra i migliori fantasy – e libri tout court – che abbia mai letto. Confesso per altro che il monastero in cui viene rinchiusa Talitha è un po’ ispirato a quello di Tenar.
La seconda cosa, è che questo aprile sarà abbastanza denso in mie presentazione. A breve le troverete segnalate in homepage; anyway, mi vedrete a Roma e a Gubbio.
Il Post del Giorno: quest’anno io e Giuliano festeggiamo il quinto anniversario di nozze. Dopo aver vagliato varie opzioni, tipo sabato c’è venuto in mente di fare una mezza pazzia: regalarci una notte in un albergo figo di Roma. Può sembrare una cosa strana, ma viviamo nella città più bella del mondo, della quale godiamo il 99% delle cose peggiori e intorno all’1% delle cose belle, per una sera vorremmo invertire il rapporto.
Stabilito il budget, abbiamo tirato giù una lista dei caveat, riassumibili in un’unica richiesta: la vasca idromassaggio per due in stanza. È che l’abbiamo provata in viaggio di nozze – in verità era l’idromassaggio sul ponte della nave, ma era una giornata di vento, non c’era nessuno, e quindi ce la siamo goduta solo noi – e vorremmo ripetere l’esperienza. Non ci sembrava una richiesta particolarmente esosa o eccessiva. Nella nostra ingenuità pensavamo ne avremmo trovati a pacchi, di hotel così. Magari non ci saremmo stati nel budget, piuttosto.
Cominciamo la nostra ricerca. E praticamente da subito iniziamo a familiarizzare col sito medio di albergo fighetto. Che è fatto di orrende presentazioni in Flash e foto che trovi nel vocabolario alla voce “immagini esplicativa di nulla”. Tipo che nella sezione Gallery, invece delle foto dell’hotel, c’è un pregevole servizio fotografico sui monumenti della città. Voglio dire, il Colosseo lo so com’è fatto, del resto ho scelto di venire a Roma, no? Magari mi interessa di più sapere come sono le tue stanze, altrimenti, se il punto è solo stare a Roma, me ne vado ad una qualsiasi pensione di dubbia reputazione che sta alla Stazione Termini.
Ma, per fortuna, qualcuno pubblicizza la mercanzia.
“Abbiamo una splendida stanza arredata da Guru del Design”. Beh, vediamola. C’è una sola foto. Della testiera di un letto illuminata da un neon viola. Fine. Giuro.
“Rilassatevi nella splendida vasca da bagno in stile pompeiano”.
Vado a vedere la foto, perché francamente non riesco a immaginarmi lo “stile pompeiano”. La foto mostra un’inquadratura storta di un asciugamano bianco e due flaconi di bagnoschiuma. Ah beh.
Ma fossero solo le foto…Le descrizioni delle camere a volte prendono tre righe. “Pregiata camera da 20 mt con tutti i comfort”. Sopra, foto di Piazza S. Pietro. L’unica cosa che non manca mai nella descrizione dei bagni è la nota che ti specifica la presenza di “morbidi accappatoi e due paia di ciabatte”. Roba che magari poi il bagno è un cubicolo pressofuso in plastica – esiste, ho le prove – ma dentro ci entrerai con un morbido accappatoio e le ciabatte, vuoi mettere lo stile?
Ma non si tratta solo di questo. È anche che proprio l’idromassaggio per due sembra una rarità a prescindere. Abbondano invece le piscine sul terrazzo privato. Siamo a Roma, no? La città del sole nel paese del sole. E io ho quest’immagine: io che esco dalla piscina sul tetto alle 23.00 del 14 Aprile. Fuori, 10° Celsius. Chissà se nel prezzo della camera è compreso il cameriere che ti scongela con l’asciugacapelli.
Comunque. Dopo un intero pomeriggio di ricerche, siamo riusciti a identificare tre alberghi che combinano un prezzo coerente col budget iniziale e la sospirata vasca idromassaggio. Riusciranno i nostri eroi a prenotare? Lo scopriremo solo vivendo.
Non accompagno Irene all’asilo da qualcosa come un mese. Prima la solita routine è stata sconvolta da alcune riunioni mattutine di mio marito, per cui dovevamo svegliarci tutti all’alba – relativamente all’alba, per me le 7.00 è l’alba – poi lei è stata male…E insomma, mi è andata a pallino la sincronizzazione à la Fantozzi che mi permetteva di riuscire, in un’ora, a: 1. svegliarmi, 2. fare colazione, 3. lavarmi, 4. vestirmi, 5. nutrire la prole, 6. uscire per andare all’asilo. Il risultato è che ieri ho fatto tardi. Erano le 8.45 e Irene ancora stava mangiando i biscotti, per cui l’ho presa di peso e l’ho portata a lavarsi. Lei ovviamente ha fatto una scena madre che levati sulla perdita dei “bibotti”; io le ho spiegato che glieli avrei dati dopo, ma mia figlia è decisamente per l’uovo oggi, e non si convinceva. Comunque. La lavo, la vesto, e dopo la vestizione del torero, come promesso, le do i due biscotti che c’erano sul seggiolone. Ci apprestiamo ad uscire.
Lei chiama l’ascensore tutta contenta, coi bibotti in mano. Entra, e succede la tragedia. Un pezzo di bibotto cade a terra. Io e Giuliano ci guardiamo per una frazione di secondo, e in quella frazione di secondo si svolge una muta conversazione.
“Cazzo…e mo’?”.
“E mo’ se lo vede sono guai”.
“Lo si butta, allora”.
“Lo si butta”.
tutto detto solo con lo sguardo. Fissiamo entrambi il biscotto.
«Lo butto giù per la tromba dell’ascensore» sentenzia Giuliano, ed esegue.
Purtroppo, però, la prole ha adocchiato il pezzetto di biscotto. Parte il ralenti: il piede di Giuliano spinge il biscotto verso l’abisso, il biscotto, con la sua consapevolezza biscottica, oppone una flebile resistenza, mia figlia, con gesto plastico, si estende braccio teso verso il biscotto. Non appena il biscotto varca la soglia dell’abisso, parte il “Nuooooooo!” disperato di mia figlia, e io ho un flash. Perché la scena è esattamente questa: biscotto…
e mia figlia
A quel punto, inesorabile, parte una mia risata incontrollata, mentre la figlia piange e il padre la consola guardandomi perplesso.
Non lo so, probabilmente noi scrittori fantasy abbiamo qualcosa di bacato nel cervello .
Ieri sera, mentre stiravo, mi sono vista Voyager. In genere quando stiro vedo roba che altrimenti non vedrei; è che ho bisogno di qualcosa di leggero, che non richieda troppo impegno, e che per qualche ragione mi possa risultare divertente. Supponevo Voyager rispondesse ai requisiti, premesso che lo conoscevo più che altro per i commenti che se ne fanno e per queste splendide vignette.
Ora, devo dire che leggero è leggero, e divertente pure. Temo però si tratti di comicità involontaria.
La trasmissione si apre con un lungo pezzo sulla croce di Cristo e le leggende che la circondano. Il che, per carità, è pure interessante. Peccato poi si passi al tema reliquie. E, come sa chiunque s’è letto Il Nome della Rosa e conosce il teschio di San Giovanni all’età di dodici anni, se si mettono insieme tutti i pezzi di croce disseminati in giro per il mondo viene fuori una foresta secolare. A onor del vero, Voyager lo dice, salvo poi attaccarsi ad una reliquia a suo dire straordinaria, unica, e misteriosa: il titolo della croce che è custodito qua a Roma, in Santa Croce in Gerusalemme.
Ora, a casa mia un reperto del genere ricade sotto l’interesse dell’archeologia, specie se voglio determinare se sia autentico o no, e dunque mi attenderei che a parlarne fosse un archeologo. Invece no, ne parla un teologo. Per venti minuti di analisi dettagliata del verso delle scritte, delle lettere e via così, quando a me, francamente, interessava una sola cosa: il carbonio 14 che dice? A quanto si data il reperto? E invece niente, venti minuti di musica di tensione e teologa che fa il pelo e il contropelo ad ogni singola lettera dell’iscrizione. “È scritto da destra verso sinistra, all’ebrea, pure la parte in latino! Ma allora è vera, e non un falso medievale! Perché un falsario medievale avrebbe dovuto metterci un errore così marchiano?” (eeeehhh?!). Vabbeh, dopo questi venti minuti, finalmente qualcuno si degna di dire, a bassa voce come gli effetti collaterali della Magica Trippy di Cortellesiana memoria, che il carbonio 14 ha datato il titolo tipo al 1000. Cioè 1000 anni dopo la crocifissione. Cioè, a casa mia, è un falso. Ma la teologa, imperterrita, di dice che l’iscrizione è una copia di quella vera. E quindi a noi?
Ma fin qui, direi niente di eclatante. Perché il pezzo forte viene dopo: gli OOPArt! Roba di cui avevo sentito parlare quando seguivo Spriggan (bel fumetto, ve lo consiglio) e che è un ottimo spunto per un bel libro di fantascienza, un po’ meno per un documentario. Mi attendo grandi cose. E infatti…”Uno in america dice di aver trovato impronte di essere umano fossilizzate accanto a quelle di dinosauro!” Chi? Dove? Quando? Si possono vedere? “No, ma comunque pare una cazzata”. Ah, ecco, mi sembrava.
“C’è una foto che ritrae soldati della Guerra di Secessione col cadavere di uno pterodattilo!”. Ah, figo. Oddio, ci vogliono palate di fantasia per riconoscere in quella roba sfocata uno pterodattilo, comunque…”Ma forse anche questo è un fotomontaggio”. Ah. È previsto un’OOPart che non sia una bufala in questa puntata sugli OOPart?
Ma arriva il pezzo forte. C’è un posto in Perù o in Cile – errore mio, mi sono persa l’esatta locazione di questo luogo – in cui si trovano delle statue risalenti a mille mila miliardi di anni fa! Prima di qualsiasi precedente testimonianza di civiltà!
Ok, fammi vedere.
Cominciamo male, perché il pezzo si apre con uno scrittore che delira sull’inizio della civiltà che andrebbe fatto risalire a molte migliaia di anni prima di quello indicato dalla “storia ufficiale” (poi qualcuno mi definisce la “scienza ufficiale”, perché io ancora non ho capito cosa sia, per quanto sospetti sia quella che fa un uso rigoroso del metodo scientifico). Ora, non che ci sia nulla di male in uno scrittore che parla di storia, ma se stiamo parlando di rivoluzionare le nostre conoscenze di archeologia, mi aspetterei che a parlare sia un archeologo, un paleontologo, al limite al limite un antropologo. Non uno scrittore. A meno che non sia uno scrittore come me, con la laurea scientifica, ma allora non capisco perché non mettercelo scritto. Sospetto invece che il problema sia che fa fatica prendersi una laurea in archeologia, quindi è molto più divertente sparare un po’ di cazzate a vanvera dopo aver letto un paio di articoli a riguardo sul web.
Comunque. Finalmente si va in questo posto dove la misteriosa civiltà avrebbe lasciato queste inequivocabili statue. Il posto sta a 4000 m d’altezza. E già questo mi fa sorgere dei dubbi, perché a quell’altezza lì, a meno di non esserci nati, si vaneggia. Comunque. Le telecamere finalmente indugiano su queste famose sculture. E a questo punto si affonda veramente nel ridicolo. La telecamera inquadra quelle che sono evidentemente formazioni naturali. “E questo è evidentemente il profilo di una donna africana”. Inquadratura su un gruppo di rocce informi. Sovrapposizione alle stesse di una serie di linee nere che, con tantissima fantasia, descrivono quello che una persona sotto l’effetto di peyote può descrivere come qualcosa con una vaga somiglianza con un profilo umano. “Qui un gruppo di foche”. Immagine di altre pietre, e altre linee che disperatamente cercano di disegnare qualcosa che assomigli a mammiferi di qualche genere. E via così per una decina di inquadrature di rocce, banali, semplici rocce.
“Qualcuno dice che forse siamo solo noi che immaginiamo di vederci dentro delle figure scolpite”.
Eh, mi sa che questo qualcuno sa il significato della parola pareidolia, che a te invece è evidentemente sconosciuto.
“Ma qui siamo di fronte a decine di figure, non può essere un caso”.
Beh, anch’io quando guardo il cielo nelle nuvole vedo decine di figure dotate di senso: le avranno scolpite gli alieni?
E poi, scusa, se il giochino è “roccia che somiglia a qualcosa”, non occorre andare in Cile/Perù, basta che vai in Sardegna, lì è veramente pieno. Una l’ho vista anch’io. Saranno stati gli Atlantidei?
“E poi, comunque, queste sono sculture antichissime, è ovvio che siano tutte storte, gli agenti atmosferici le hanno levigate”.
Sì, certo. Rumore di unghie sugli specchi.
Chiusa finale dello scrittore di prima che dice che anche se tutti ritengono che è un pazzo, se nessuno gli vuole credere, lui continua a pensare che tipo tre milioni di anni fa c’era una civiltà evoluta sulla terra. Bella pe’ te, come si direbbe a Roma.
Ora, io guardo queste cose e mi diverto. Mi diverto perché so fare una ricerca su internet e smontare in dieci minuti netti i “misteri misteriosi” di Voyager. Mi diverto perché conosco il metodo scientifico, e capisco che qui proprio manca del tutto. Per gente come me, Voyager è un piacevole passatempo. Ma tutti gli altri?
Può sembrare un passatempo senza conseguenze anche per loro, ma non lo è, perché chi crede a questa roba poi crede anche di potersi curare il cancro e il diabete con l’omeopatia. E queste sono cose che fanno morti.
Tra l’altro, ho trovato fastidioso il generale atteggiamento paraculo della trasmissione, che non prende mai una chiara posizione, nonostante la verità scientifica sia stata accertata nel 99.9% dei casi (e lo si scopre semplicemente andando su Wikipedia). No, si sorvola sulle prove scientifiche che smontano il mistero, ma al tempo stesso non si dice “è vero che gli uomini hanno vissuto al fianco dei dinosauri”. Si butta tutto sul piano dubitativo, in maniera tale che nessuno possa tacciare Voyager di sostenere tesi francamente irricevibili.
Insomma, in un mondo in cui la cultura scientifica fosse capillarmente diffusa, Voyager potrebbe essere un guilty pleasure da nerd e potremmo passare le serate a farne il debunking. Per dire, io poi mi sono anche divertita a cercare informazioni sui vari “misteri”. Ma in una società come la nostra in cui la scienza ha sempre meno credito presso il grosso pubblico e tutti pensano di essere esperti di tutto, Voyager mi sembra veramente scherzare col fuoco.
Irene ha ancora il pannolino. Abbiamo fatto un timido tentativo di toglierglielo l’estate scorsa, ma era presto, poi siamo andati al mare e tutto è diventato troppo complicato, per cui…nulla, ha ancora il pannolino. Facciamo quindi ancora uso del fasciatoio, che sta nella sua stanza, vicino al letto. Lo trovo molto comodo, sopra c’è tutto quello che serve per il cambio e non mi viene il mal di schiena quando la pulisco. Il problema è che ha delle vaschette, comodissime per metterci dentro la roba, ma che attirano la curiosità della pupa, e vicino c’è pure il comò, sul quale poggiamo un po’ qualsiasi cosa.
L’altra sera la stavo cambiando. Lei inizia a indicarmi qualcosa borbottando in italo-giapponese (giuro, ogni tanto parla giapponese).
«Dopo Irene, adesso dobbiamo pulire il culetto».
«Noooo…adetto! Ci potta…» e indica.
Io non capisco chiaramente cosa voglia, ma siccome si agita come un’anguilla, e sul comò che indica non c’è niente di mortale – tipo le famigerate compresse di calcio di due settimane fa – mi giro per prenderle qualcosa. Sul comò ci sono un tubetto di crema, una chiave e “u cacao”, ossia il burro di cacao, amatissimo dalla prole. Andrò per tentativi. Mi giro, faccio per acchiappare il tubetto di crema quando con la coda dell’occhio colgo l’irreparabile. La prole s’è girata sulla pancia, mano protesa verso il comò all’urlo di “ci pottaaaaaaa!” e testa fatalmente sporta all’infuori, sul vuoto. Siccome sono un astrofisico, e ho dimestichezza con la forza di gravità, so come andrà a finire. E infatti Irene rotola di fuori, precipitando verso il pavimento. In un miliardesimo di secondo ho una visione: botto, urla, corsa all’ospedale. Nel miliardesimo di secondo successivo ho il tempo di urlare, zompare dal comò verso il fasciatoio, protendermi in gesto plastico verso la prole, agguantarla prima per una gamba, poi per una mano e bloccarla a mezz’aria, a tipo due centimetri dal pavimento. Nello stesso miliardesimo di secondo, il padre è zompato giù dal divano, ha cercato di rompersi l’osso del collo correndo nella cameretta e alla fine è apparso sull’uscio, giusto in tempo per cogliere Irene appesa alle mie braccia tipo salame, mentre con l’altra mano si regge ad una delle gambe del fasciatoio. Ovviamente, urla disperata.
Il tempo di riprendermi dallo spaghetto, e consolare la prole dicendole: «No no, non è successo niente, certo se stavi a sentire mamma e non cercavi di buttarti di sotto saremmo stati tutti meglio, per cui magari la prossima volta evita», e guardo Giuliano.
«Manco nel rugby gli riescono prese del genere…».
Incredibile il numero di cose che impari facendo il genitore. Tra queste, da oggi annovero anche il placcaggio a volo.
Sono giorni complicati e pienissimi di cose. Settimana scorsa, come avete visto, ho fatto tanti eventi. Un altro ci sarà stasera; l’appuntamento è alle ore >>>
I miei prossimi appuntamenti
Venerdì 6 Dicembre – Sabato 7 Dicembre 2019 – Più Libri Più Liberi – Roma Venerdì 6 Dicembre
h 16.00 – 17.00
Firma copie presso lo stand Comics&Science
h 17.00 – 18.00
Firma copie presso lo stand Tunué
Sabato 7 Dicembre
h 14.00 – 16.00
Firma copie presso lo stand Tunué
h 17.30
Presentazione de Il Re dei Rovi di Marcelo Figueras. Interverranno Francesco Troccoli e l’autore in collegamento da Buenos Aires.