Avevo in canna da un po’ di tempo un post su Hunger Games, ma ho avuto molto da fare e quindi la cosa è rimasta in sospeso.
In verità, sui libri mi sono pronunciata un sacco di volte. Innanzitutto, con uno strillo sulla primissima edizione italiana, all’epoca in cui, siccome non era ancora un fenomeno planetario, era un libro assolutamente di nicchia che leggevano in pochissimi. In seguito, ne ho parlato bene un po’ ovunque, perché è una saga che amo e alla quale riconosco tonnellate di pregi. Di recente ho anche scritto un articolo su Vanity Fair al riguardo; lo trovate qua.
Il post che avevo in canna in realtà riguarda i film, o meglio il film, Catching Fire, che è l’unico che ho visto al momento (ma sto cercando di recuperare). Chi mi segue su Twitter lo sa, sono andata a vederlo in lingua originale a Parigi circa una settimana fa. E, devo dire, mi è piaciuto parecchio. Molto aderente al libro, il che può essere un pregio o un difetto, a seconda dell’idea che si ha dell’adattamento (io in generale preferisco film che riescano in qualche modo ad essere altro rispetto al libro, ma qui la resa è ispirata e personale, per cui l’aderenza al testo l’ho molto apprezzata), ma, soprattutto, capace di essere un buon film tout court. Ed è proprio di questo che voglio parlare: perché la riduzione cinematografica di Hunger Games piace più o meno a tutti quando altre trasposizioni hanno invece deluso?
Innanzitutto, i film vengono da libri in cui di ciccia ce n’è a bizzeffe: non solo avventura, non solo trama, ma personaggi credibili e interessanti, in cui immedesimarsi è facile, e un sottotesto alto così sulla società dell’immagine, la propaganda, il potere e duecento altri miliardi di sottomessaggi. Mi si dirà: vabbeh, tutto sommato son cose dette e ridette. A parte che tutto in letteratura è stato detto e ridetto, fosse solo perché la natura umana, quella più profonda, non muta nel corso dei secoli, ma nessuno l’aveva mai detto ai giovani e con tale efficacia. È una specie di 1984 per i ragazzi, che spiega il nostro mondo in modo chiaro, impietoso e appassionante. Perché noi a Panem ci viviamo già, se ci pensate bene.
Esistono però altri libri pieni di ciccia le cui trasposizioni cinematografiche non sempre hanno incontrato il favore della critica e del pubblico (sì, sto parlando di Harry Potter): in quel caso? In quel caso i registi spesso hanno messo in mostra solo l’aspetto più “infantile” dell’opera, e, quando hanno tentato di avvicinare il lato più adulto, hanno prodotto strani ibridi a metà strada tra il film indipendente da Sundance e il blockbuster per ragazzi (e sì, sto parlando de I Doni della Morte I e II).
Il film di Hunger Games non sta lì a preoccuparsi di edulcorare gli aspetti più truci della saga, non sta lì a cercare di pompare le parti più strettamente spettacolari. Tutto è estremamente funzionale alla trama e al messaggio, compresi gli effetti speciali, che non appaiono mai gratuiti. I ragazzi impazziscono perché i film non li trattano come cretini ai quali va nascosta la verità: con la giusta dose di spettacolarizzazione, mostrano loro il sangue, la morte, la crudeltà e il tormento dei protagonisti. È un film che veramente ragazzi e adulti possono guardarsi insieme e godere, in modo magari differente, ma apprezzare pienamente. La condiscendenza è un grosso problema di tanto cinema americano, sempre preoccupato di stare equidistante da tutto e tutti e non mostrarsi troppo scioccante. Ieri, per esempio, mi è caduto l’occhio su una scena del secondo film degli X-Men, nello specifico il momento in cui Piro sbaraglia la polizia che ha fatto irruzione a casa dell’Uomo Ghiaccio. Dopo botti e fiammate come manco a capodanno, il regista si perita di mostrarci che nessun poliziotto è stato maltrattato durante la scena: sono tutti vivi. È evidentemente una scelta della produzione, ma è una di quelle cose che mi fanno incazzare. Voglio dire, Piro è un personaggio borderline sulla via della dannazione? E allora ammazza, punto. Queste vie di mezzo edulcorate non servono semplicemente a niente, se non ad ammosciare gli snodi di trama. Catching Fire questi problemi non se li pone, perché non se li pone neppure il libro. È la vita ragazzi, e la vita in un posto tremendo come Panem.
Insomma, il grandissimo successo di Hunger Games mi rallegra, secondo me è un buon segnale, e auguro al franchise di continuare così. Credo che di libri e film come questi abbiamo un gran bisogno.
Ieri sono andata a vedere Harry Potter. Penso sia la prima volta che vado a vedere un film il giorno dell’uscita. Non che ci tenessi così tanto: è che per ragioni logistiche era meglio andarci il primo possibile, se non volevo perdermelo.
Vi avviso che ci saranno degli spoiler, per cui, se non avete letto il libro o se non avete visto il film, leggete a vostro rischio e pericolo. Premetto anche che il libro l’ho letto una sola volta quattro anni fa, e ricordo veramente poco, per cui prendete con le pinze i confronti con la pagina stampata che farò.
Dunque, direi che tanto il film precedente era lento, basato più sulla costruzione dell’atmosfera e sull’indagine delle psicologie, tanto questo è azione pura. Avrei preferito un mix un po’ più omogeneo, ma se ben ricordo anche il libro è fatto così, e dunque c’è poco da lamentarsi. Per il resto, il film tiene botta, gestisce bene le varie scene madri, si fa guardare nonostante la lunghezza e ha anche una serie di bei momenti.
Mi è piaciuto molto l’inizio. In fin dei conti, la parte 1 e la 2 sono sostanzialmente un unico film, e quindi è giusto che non ci siano riassunti, e che anzi ci sia la mera riproposizione dell’ultima scena del film precedente. Ma non è tanto questo ad essermi piaciuto, quanto quelle brevi inquadrature iniziali di Piton. Piton è probabilmente il mio personaggio preferito di tutta la saga: a differenza di altri non ho mai smesso di pensare che avesse le sue buone ragioni per fare quel che fa, e anzi ero certa che avesse ucciso Silente dietro esplicita richiesta di quest’ultimo. Ecco, trovo che aprire su di lui abbia il suo bel perché: in fin dei conti è la figura più forte del libro, il plot twist che lo riguarda è fondamentale nell’economia della storia. E insomma, quell’inquadratura iniziale ce lo mostra in tutta la sua desolante solitudine: il vero eroe di tutto il cucuzzaro, odiato da tutti, disprezzato, e il cui coraggio resterà tutto sommato misconosciuto. Per sua volontà, per carità, ma pur sempre misconosciuto.
Splendide anche le scene del suo passato, soprattutto quelle dell’infanzia. Le ho trovate da brividi. Poi il flashback si perde un pochino, forse perché un po’ troppo lungo, per tornare ai fasti iniziali col montaggio alternato di Piton che parla con Silente di Harry e Piton che trova il cadavere di Lily. E quel pezzo, splendido, riportato identico a com’è nel libro: Piton che evoca il patronus e Silente che gli fa “After all this time?”, e Piton risponde con un’unica, lapidaria parola: “Always…”. Più passa il tempo più penso che il lavoro dello scrittore sia più che altro di sottrazione. Una scrittura efficace non ha bisogno di troppe parole, ma di poche e dense battute. Il lavoro sta tutto là: trovarle, e renderle più affilate, più ricche di senso che mai. E quell’always da questo punto di vista è magistrale. Onore al merito di Alan Rickman, ovviamente, che è un attore straordinario; la mobilità del suo volto nelle scene con Lily fa da perfetto contraltare alla gelida compostezza che ha sempre avuto nell’arco di tutti e sei i film precedenti.
Capitolo morti. Come ben sapete, non ho mai apprezzato il modo sbrigativo con cui la Rowling ha gestito le morti dell’ultimo libro: ok, siamo in guerra, la gente muore a pacchi, ma che un personaggio come Lupin se ne vada via così, con due parole, senza che neppure ne vediamo la morte e senza una scena che lo pianga decentemente, ecco, mi lascia l’amaro in bocca.
Il film sceglie di non andare oltre il libro, per cui le morti di Fred, Tonks e Lupin avvengono comunque fuori scena. Però c’è una scena che è dedicata loro. Poco, per carità, un’inquadratura, che però ci mostra il dolore dei vivi, quello di Harry Potter, e in qualche modo dà un significato a quelle morti. Avrei preferito qualcosa di più esplicito, almeno per Lupin, che tutto sommato era l’ultima figura paterna di Harry, ma è già qualcosa.
Quel che mi ha lasciata perplessa è il 19 anni dopo: già nel libro quella scena non mi era piaciuta particolarmente, non so perché; probabilmente avrei preferito sapere cosa succedeva nell’immediato, piuttosto che in un futuro così remoto. Comunque, nel film la cosa viene peggiorata dalla faccia da mal di pancia di Harry, Ron, Hermione e Ginny. Uno si domanda: ma che diavolo l’avete sconfitto a fare Voldemort che 19 anni dopo la sua morta state ancora tutti lì a deprimervi? Davvero non si capisce perché i personaggi debbano essere così malinconici, sembrerebbero avere una vita felice, e, ok, i morti, ma sono morti di diciannove anni prima, si spera che uno in diciannove anni se ne faccia una ragione.
Per il resto, rimango dei buchi: lo specchio, segato dai film precedenti e miracolosamente recuperato qui senza uno straccio di spiegazione, elementi della biografia di Albus Silente buttati lì nella prima parte del film e dimenticati per strada, e, come nel libro, del resto, i doni della morte che non si capisce bene a cosa siano serviti, a parte la Elder Wand, ovviamente.
Ultima nota di demerito, lo vado dicendo da parecchio tempo ma me ne convinco sempre più: la versione cinematografica de Il Signore degli Anelli ha ammazzato il cinema fantastico. È che il risorgimento del fantasy a cinema è iniziato troppo col botto: i film di Peter Jackson sono dei capolavori sotto molti punti di vista, e hanno segnato da allora lo standard per i film a venire. Standard che purtroppo non tutti sono in grado di raggiungere. Il risultato? Il 90% delle pellicole fantasy uscite dopo la trilogia di Jackson la plagiano nelle battaglie. Pensateci. Dal 2002 è tutto un fiorire di battaglie spiccicate al fosso di Elm, almeno nella messa in scena. L’arrivo dei Mangiamorte a Hogwarts sembra l’arrivo degli Uruk-Hai a Helm. E, non so voi, ma io mi sono scocciata di battaglie tutte uguali, di regie dinamiche con telecamere a volo d’uccello sugli eserciti schierati, di miriadi di fuochi che illuminano il buio. Forse sarebbe ora di prendersi una pausa e ripensare il cinema fantastico, non lo so, ma qualche idea nuova nella resa delle battaglie non ci starebbe per niente male.
Comunque, nel complesso io l’ho trovato un buon film, che non getta via i buoni spunti del libro, ma non riesce neppure ad andare oltre la pagina stampata, probabilmente per troppa filologia. Ma lo sapete come la penso sulle trasposizioni cinematografiche, e non a caso Il Prigioniero di Azkaban è probabilmente il mio film preferito.
Ah, dimenticavo, il bacio tra Ron e Hermione: secondo me, molto buttato lì. Sono sei anni che i due ci girano intorno, a tutto si conclude con questo bacetto nella Camera dei Segreti. Non saprei dire perché realmente non mi è piaciuta, ma non mi ha detto niente.
Anyway, questi sono i miei due cents sulla questione. Mi rendo conto che per molti di voi – che siete ahimé più giovani di me… – l’uscita di questo film è stata un evento epocale, ma io avevo vent’anni quando uscì il primo Harry Potter, e se devo pensare ad un film che davvero ha segnato il mio immaginario, mi viene in mente il già stracitato Signore degli Anelli. Però devo dire che questa lunga cavalcata cinematografica tutto sommato ha colpito anche me, e un po’ di nostalgia per la fine di una saga così lunga resta. Ora la parola a voi: visto? Piaciuto? I commenti sono tutti vostri.
Ieri sera ho festeggiato il compleanno andando a vedere Harry Potter e i Doni della Morte. Sotto casa mia. In italiano. Ragazzi, quando hai un figlio riuscire a fare una cosa del genere in mezzo alla settimana ha del miracoloso, quindi questo spiega perché abbia festeggiato in un modo che al 90% della gente sembra a dir poco usuale. Comunque. Erano la bellezza di tre anni che non vedevo un Harry Potter in italiano, non ricordavo neppure le voci…Ma la cosa non mi ha dato particolarmente fastidio. Preparatevi, perché al solito la recensione non sarà spoiler free.
Il giudizio generale è: infinito. Sarà che la sera sono stanca, sarà che ieri sera ero particolarmente stanca, sarà che ad un certo punto ho iniziato ad accusare un terrificante mal di schiena, ma più o meno all’ora e venti minuti ho iniziato a pregare per la fine. Non che sia davvero colpa del regista. Qualcuno di voi forse ricorderà che all’epoca diedi un giudizio molto lusinghiero de I Doni della Morte. Che vi devo dire, m’era piaciuto. Probabilmente era tutta colpa della figura titanica di Snape, o di quel paio di momenti bellissimi che il libro aveva (la morte di Dobby, Harry che va a sconfiggere Voldemort…). L’avevo promosso. Col tempo ho cambiato idea. Siamo alle prese con i soliti problemi del post Calice di Fuoco: libri che si protraggono oltre il tollerabile, farciti per lo più di un sacco di riempitivi, in attesa che accada un macello nel finale. Ah, e quel dark di cui sinceramente avrei fatto volentieri a meno.
Il film non riesce ad andare oltre questi limiti, con l’aggravante che tratta solo la prima parte del libro, per gli amici La Tenda. Sì, perché la tenda da campeggio è la totale protagonista del tutto. Harry, Hermione e Ron ci passano un sacco di tempo a struggercisi. Che, per carità di dio, è giusto anche che lo facciano: sono braccati, non hanno un indizio che sia uno sugli horcrux, Voldemort ha praticamente preso il potere…ma era veramente necessario perdere centinaia di pagine (e di conseguenza minuti nel film) dentro a quella cavolo di tenda per farci capire tutto questo?
Riflettiamo. Che succede in questo film? L’azione sta praticamente tutta all’inizio, che infatti è la parte migliore. Poi, dopo un’ora di proiezione circa, tutto inizia a stagnare. Con straziante lentezza scopriamo che serve la spada di Grifondoro, poi, ma sempre piano, mi raccomando, scopriamo cosa sono i doni della morte. E poi…poi il film finisce.
Ripeto, non è colpa del regista. È colpa del plot del libro. Ma il regista poteva magari scegliere altri escamotage per mostrarci che Harry non sa che fare, invece di mostrarci la vita quotidiana di Harry e Hermione in tenda per buoni quaranta minuti.
Per il resto, non ho mai amato particolarmente tutto il dark che la Rowling ha iniziato a infilare nei suoi libri a partire dal quinto. La cosa bella della saga era che era divertente, infarcita di un humor gradevole. Era una fiaba, per cui l’orrore c’era, certo, ma contestualizzato, e per questo non faceva paura. Dal quinto in poi, Harry Potter sì dà pure lui a questa mania del dark, per cui più è oscuro più è figo. Intendiamoci, da madre di eroine con ultra-complessi e con vite super-travagliate e sfigate non è che posso dire di avere qualcosa contro il dark; solo che in alcuni contesti non c’azzecca, e Harry Potter è uno di questi.
Il film pigia al massimo sul pedale oscuro. Già il logo iniziale, arrugginito, ci fa capire l’andazzo, per non parlare del proclama del ministro della magia con cui si apre il film. Ok, è bello mostrare la solitudine – soprattutto esistenziale – dei nostri (Hermione che dice a Grimmauld Place “Siamo soli”, e dissolvenza in nero, per dire, un momento riuscitissimo), accentuata anche da questo trionfo di panorami solitari, immensi, e gelati. Solo che non pare più Harry Potter. Sembra un film indipendente americano sulle adolescenze problematiche.
Però, dicevo, la prima ora tiene. Si menano come non ci fosse un domani – e in effetti potrebbe non esserci – e rimane comunque il tempo per qualche siparietto comico-ironico. Per dire, onore al casting per la scelta dei tre grigi impiegati del ministero dei quali i Nostri vestono i panni. Ecco, la parte al ministero è davvero fatta bene, un mix riuscito di azione, thriller e comicità. Tralasciamo che sa un po’ di deus ex machina che il ciondolo sia al collo della Umbridge giù al tribunale, ma non lo sia dentro l’ascensore, quando la donna è sola coi Nostri. Ma vabbeh.
Però, dicevo, dopo quella parte lì il film si spegne.
Sì, Harry sulla tomba dei genitori. Sì, la cerva nel bosco che indica la posizione della spada di Grifondoro, ma sono picchi emozionali che emergono da una palude di Tenda. La morte di Dobby non l’ho trovata così riuscita. Ma dio mio, c’è buio per un buon 70% del film, la morte dell’elfo me la devi proprio fare con tutta quella luce in mezzo ad una spiaggia? Per dire, eh. Nel libro l’avevo trovata molto toccante. Qui…boh.
Poi c’è il problema morti. Nel libro muore un sacco di gente, ma muore in modo estremamente sbrigativo, anche quando si tratta di personaggi importanti. Spero che il prossimo film rimedierà alla pecca, ma le morti appena enunciate e fuori scena del ministro della magia e di Malocchio non mi fanno ben sperare. Ok, il ministro della magia non è esattamente un personaggio cui Harry era affezionato. Ma se in Italia morisse Berlusconi suppongo che le reazioni della gente non sarebbero quell’alzata di sopracciglia che si vede al matrimonio di Fleur. Comunque meglio per me non indugiare in pensieri sconvenienti…(scherzo, eh? Io non ho mai augurato la morte a nessuno, me ne guardo bene, manco il peggiore dei bastardi se la merita). Malocchio già era un po’ più importante, e muore off screen. Vabbeh. Almeno ogni tanto Harry & co. lo nominano.
Bello il finale. Ovviamente il pericolo maggiore per un film che tratta di mezzo libro è quello di fare un mezzo film che ti lascia così. Ok, sì, rimane un mezzo film, ma la conclusione è davvero ben fatta: arriva nel punto di climax emotivo (la morte di Dobby) e avviene su una scena di sicuro impatto, che ben chiude questa prima parte e apre furbescamente alla seconda, e dà anche una compiutezza al tutto: in fin dei conti, ‘sto film ha parlato della quest di Voldemort della bacchetta.
E ora, la vera ragione per cui oggi ho parlato di questo film. Più o meno quando la mia schiena stava urlando che non ne poteva più, che era veramente straziata, e io ero al quarto sbadiglio in venti minuti, Hermione inizia a leggere la storia dei dei tre maghi. E d’improvviso da Harry Potter vengono catapultata in una dimensione parallela, completamente in un altro film, un film meraviglioso, per altro. La parte animata che racconta la storia è un capolavoro di perfezione formale ed emotiva: i colori, la forma delle silhouette, la musica, le scelte registiche sono perfette. Mi è venuta la pelle d’oca mentre guardavo.
Possono cinque minuti riscattare un film intero? Se sono cinque minuti così, sì, lo possono eccome.
Ieri ha compiuto sessant’anni Carlo Verdone. Io ero più presa dagli undici mesi di Irene, e non ho fatto un post. Lo faccio oggi. È che Verdone è una di quelle poche cose per cui sono contenta di essere romana. La romanità che ha sempre rappresentato è lontana dagli stereotipi, è varia e ricca, e sempre un po’ dolente. È una romanità in cui posso riconoscermi senza vergogna, che forse, al di là di tutto, anche condivido.
Verdone mi è sempre piaciuto un sacco. Continua a piacermi anche adesso, anche se apprezzo di più i suoi film più vecchi. A me è piaciuto tanto anche C’Era un Cinese in Coma, per quella disperazione di fondo, per l’assenza totale di indulgenza verso tutti i personaggi, che è difficile trovare nel cinema drammatico, figurarsi in quello comico. Ma quello che amo di più in assoluto è Compagni di Scuola; forse il meno smaccatamente divertente, ma il più coinvolgente, e forse anche il più tremendo: gli anni che passano, la crudeltà, la vita che colpisce basso. C’è veramente tutto.
A volte mi vedo in qualche intervista, e finisce invariabilmente che ad un certo punto, mentre parlo, alzo gli occhi al cielo. E lì rivedo Mimmo di Bianco Rosso e Verdone. Oppure mi ascolto alla radio, e non c’è niente da fare, parlo proprio come Ruggero di Un Sacco Bello.
Forse è così per tutti. I suoi personaggi sono così universali che ciascuno di noi può trovarci dentro qualcosa di suo: l’ipocondriaco, quello con le manie di controllo, l’introverso, lo sbruffone…
Mi fa strano sapere che ha compiuto sessant’anni. Mi accorgo che il tempo per me passa anche da queste piccole cose: a diciotto anni, in vacanza con un’amica, parlavamo dei suoi film sdraiate sul letto. Era l’anno di Gallo Cedrone, o giù di lì, l’unico suo film che davvero non mi è piaciuto poi tanto. E adesso sono passati dodici anni, tra una settimana avrò trent’anni, una figlia, un marito e una vita.
Auguri, Carlo, e grazie di tutto.
In questi giorni sto leggendo Il Corpo delle Donne di Lorella Zanardo. È il libro connesso al progetto dell’omonimo documentario, che, per quanto ne sappia, al momento è visibile solo online: vi ho già caldamente consigliato di vederlo, lo rifaccio perché repetita iuvant e il progetto è davvero importante.
Ho incontrato la Zanardo per cinque minuti cinque a Matera; io, intabarrata nella giacca del marito, stanca e assediata dal raffreddore, stavo tornando in albergo, e lei invece si stava avviando alla zona in cui c’era lo spettacolo pirotecnico e musicale. La cosa che mi ha colpito di più del nostro breve incontro – ed è la ragione per cui parlo qui e ora di questo libro – è stato il fatto che si vedeva che era animata da una forte voglia di fare, e che in quel che stava facendo ci credeva assolutamente. Non diceva “dovremmo cambiare le cose”. Diceva “cambieremo le cose”. Non diceva “bisognerebbe ricominciare coi giovani”, diceva “vado in giro nelle scuole a parlare di questa cosa”. C’era un abisso tra il mio atteggiamento lamentoso e il suo credere fermamente che un altro mondo è possibile, per usare un’espressione molto abusata, ma vera.
Il libro è tutto così. Il libro presenta una situazione evidentemente insostenibile – l’umiliazione sistematica nella donna in tv e sui media in generale – e propone tutta una serie di azioni da intraprendere qui e ora.
Ecco, ho pensato che questo fosse il perfetto contraltare al post di martedì. L’unico modo per salvare un popolo che non spera è metterlo in azione, chiamarlo alla resistenza civile, dargli di nuovo il senso che qualcosa si può fare. Nel piccolo? Sì, nel piccolo, pare poco? Pare poco una sola bambina che si riesce a tirare su senza che sia ossessionata dall’aspetto fisico, che non basi la sua autostima sul suo peso o sulla dimensione delle sue tette?
Siamo un popolo, siamo massa, ok, ma ogni massa è fatta da individui, ed è quelli che bisogna cambiare. La frana comincia con un sassolino che se ne tira dietro molti altri.
Ecco, il segreto è qua. Prendersi le proprie responsabilità, impegnarsi in prima persona e crederci. Non è poi così difficile. E fa sentire di sicuro meglio.
Sulla scorta del sentito consiglio del sempre ottimo Fab – a proposito, ascoltate la puntata di stasera di Fantasy On Air, c’è anche un mio minuscolo contributo – e delle recensioni viste in giro, venerdì sera sono andata a vedere Inception.
Ora, confesso che questo non è un periodo in cui ho voglia di film cervellotici. Sono nel mood da trame lineari, da film abbastanza leggeri, che fanno passare quelle due orette in spensieratezza. Per questo non ero convintissima della visione. Perché l’ultimo film di Nolan che ho visto è stato Memento. Molto bello. Originale. Con una struttura da paura. Ma adesso non potrei. No, proprio non potrei mettermi lì a vedere una cosa del genere.
Fatta la premessa, devo dire che invece mi sono ricreduta. Inception è il film d’intrattenimento perfetto. Quando uno va a vedersi un thriller, un film d’azione a cinema, si aspetta una cosa così. Peccato che una cosa così esca una volta ogni due anni se hai culo, spesso anche di me. In cambio, effetti speciali a paccate, trame con voragini paurose, sceneggiature risibili.
Intendiamoci, i suoi difetti Inception ce li ha. Ok, i personaggi non è che siano esattamente la profondità personificata. Anzi, a parte Cobb, per la maggior parte sono dei chiari stereotipi: il preciso, la fanciulla piena di grinta, il piacione, il figlio mazzolato dal padre magnate…Ok, c’è un eccesso di spiegotti. La prima mezz’ora di film è come l’enunciato di un teorema: sta lì a porre le premesse necessarie per la visione. Ok, qualcosa non torna: perché quando loro son tutti lì sballottolati nel pulmino non si svegliano? Il chimico dice esplicitamente che la droga permette di essere risvegliati se si casca di lato, o in avanti, o indietro.
Ma sapete una cosa? Chissenefrega. Tutti questi difetti non inficiano il piacere della visione. E questo è il punto di qualsiasi opera che faccia della trama il veicolo principe della sua poetica. La coerenza, la verosimiglianza non potranno mai essere assolute: dio è quello che crea un mondo in cui tutto torna perfettamente dal punto di vista logico, o non staremmo qui a indagarlo con la matematica e la fisica. Un regista, uno sceneggiatore, uno scrittore una cosa del genere non sarà mai in grado di farla. Ma se è bravo, se è davvero un affabulatore, riuscirà a farti sospendere l’incredulità quel tanto che basta a passare sopra alle inevitabili incongruenze. Se stai a chiederti come fa un professore di Harvard a buttarsi da 3000 m usando come paracadute un telone tenuto su con le mani, beh, evidentemente lo scrittore non è stato abbastanza bravo a coinvolgerti con la trama. Ma non è il caso di Nolan. Nolan ha un controllo assoluto, spaventoso della materia che tratta. I film di Nolan sono monoblocco, hanno una compattezza che fa spavento. Tutto torna. E non nel senso che non ci sono le incongruenze. Nel senso che la trama è chiusa, sa in ogni momento dove sta andando, e soprattutto c’è una corrispondenza assoluta, impressionante tra forma e contenuto. Pensateci. The Prestige parlava di magia, ed era strutturato esattamente come un numero di magia: c’è la promessa, c’è la svolta, c’è il prestigio. Memento parlava di memoria, e come la memoria è frammentato: infatti tutto viene percepito esattamente come lo vede Leonard. E così Inception è un sogno. Dopo un po’, dopo molto poco, inizi a guardare tutto cercando di capire. È un sogno? È la realtà? Sono in grado di distinguere? Questo perché la prima mezzora ti spiazza, catapultandoti in un gioco di scatole cinesi. Da allora sei catturato. Da allora sogni anche tu. E in questo senso il finale non è un semplice “non sapevo come concludere, ho finito così”, come ha detto qualcuno. No. È che il film parla dell’impossibilità di distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, e dunque lo spettatore non può capire se sta sognando o è sveglio. Fa parte del gioco.
Per il resto, ogni cosa nel film è piegata alle esigenze dello sviluppo della trama. Non c’è un elemento stilistico che non serve l’intreccio. Il rallenty. L’odioso bullett time, che in Matrix ci piaceva anche, ma dopo è diventato un must di ogni film d’azione, per cui se non c’è la scena in bullett time non à action. In Inception serve. Sta solo dove ha un senso. E non vi sto a spiegare il perché, dovete vedere il film. E non ha un senso stilistico: no no, serve proprio ai fini della trama. Gli effetti speciali. Il cancro del cinema d’intrattenimento. Li infilano ovunque, sempre più grandiosi, sempre più verosimili, sempre più francamente pallosi. Ormai ho visto tutto a cinema. Voglio dire, la scorsa settimana mi sono rivista le 12 ore delle versioni estese de Il Signore degli Anelli. Un film di quasi dieci anni fa. Da allora non è stato fatto un solo reale passo avanti negli effetti speciali. ISDA m’ha già fatto vedere tutto. Ecco, in Inception ci sono pochi effetti speciali, tutti al servizio di scene ad effetto che servono ai fini della trama. Eppure, ragazzi, siamo nel mondo dei sogni, poteva inventarsi roba assolutamente allucinatoria, lisergica. Invece no, perché l’aspetto visivo non deve distrarre dall’intreccio, che è il vero fulcro di tutto. E, intendiamoci, le scene da whoa! ci sono, per quanto quella che mi ha colpita di più – il treno, per chi ha viso il film – sia in fin dei conti la più banale. Ma non stanno lì a distrarre lo spettatore.
Anche il fatto che i personaggi siano stereotipi è una cosa completamente voluta: che c’è di male nell’archetipo? Voglio dire, saranno quattro in tutto le storie che si possono raccontare, e due sono di formazione, per cui tutto il resto è chiosa, punto di vista dell’autore, capacità di affabulazione. Nolan piglia un tema seminale (cosa è vero? Cosa non lo è? Posso fidarmi della mia percezione?), cinque personaggi stra-abusati, e ci costruisce su un piccolo gioiello, che proprio per il suo essere così archetipico, ti acchiappa dall’inizio alla fine.
Poi possiamo parlare di tematiche più profonde. Nolan parla sempre di ossessioni. Il Leonard di Memento è ossessionato dalla vendetta, Batman è ossessionato da un distorto senso di giustizia, Angier e Borden sono ossessionati dall’illusione perfetta, e dalla loro rivalità. E Cobb è ossessionato da Mal. Il gioco è scoperto, ce lo dice Cobb stesso, nella frase più famosa del film: “Qual’è il parassita più resistente? Un’idea. Una singola idea della mente umana può costruire città. Un’idea può trasformare il mondo e riscrivere tutte le idee”.
E poi possiamo anche dire che Nolan ha la straordinaria capacità di costruire una mitologia: crea mondi pieni di elementi in qualche modo seminali, simbolici, che restano nella mente dello spettatore. I tatuaggi sul corpo di Leonard, la trottolina di Cobb. I nomi stessi dei personaggi richiamano questa dimensione archetipica (l’archietto, il chimico, il falsario).
Insomma, un gran bel film. Ok, non un capolavoro. Ma una cosa dalla quale ogni scrittore di genere ha un sacco da imparare.
Avrei voluto fare un post di sole foto, oggi. Foto di Matera, e di quel che da Matera ho riportato indietro. Magari con giusto due righe di spiegazione. Invece iPhoto oggi ha deciso diversamente, per me, scegliendo di non scaricarmi le foto della Canon causa disco rigido troppo pieno di roba. Bon, risolverò presto la cosa. Nel frattempo mi tocca parlare di argomenti molto, molto tristi. Desolanti, direi.
Non so voi, ma io ho la netta impressione che questo paese stia affondando. Non c’è evidentemente nessuno in grado di guidarlo, anneghiamo tra discussioni da bar, insulti di bassa lega, e intanto, come ricordava Gaber in una canzone recentemente linkata su Lipperatura, “E l’Italia giocava alle carte / e parlava di calcio nei bar / e l’Italia rideva e cantava”.
Ecco, mentre ce la ridevamo e ce la cantavamo, la scuola italiana ha raggiunto un nuovo picco negativo, con questa iniziativa. Vi linko direttamente il documento di presentazione del progetto perché quando una collega mi ha segnalato la notizia pensavo si trattasse di uno scherzo o qualcosa del genere. Voglio dire, le notizie che leggiamo in giro non sempre sono attendibili, in genere vado sempre a cercarmi le fonti originali. Beh, stavolta è tutto vero. Tra le attività collaterali allo studio che i ragazzi Lombardi possono fare a scuola c’è anche un bel corso con l’esercito.
Gli scopi?
[...]far vivere ai giovani delle Scuole superiori esperienze di sport e giochi di squadra, ma anche introdurre corsi specifici e prove tecnico/pratiche, per avvicinare la realtà scolastica alle Forze Armate, ai Corpi dello Stato e alla Protezione Civile e Gruppi Volontari di Soccorso.
A quanto pare questa cosa non poteva essere realizzata durante l’ora di educazione fisica, oppure con l’incontro, che ne so, con le associazioni di volontariato. Non capisco poi esattamente cosa c’entri lo sport con l’esercito. O meglio, lo so, ma l’esercito non esiste per dare uno stipendio ai nostri migliori atleti. Ma continuiamo
Vivere questo momento come stimolo per toccare con mano i valori della lealtà, dello spirito di corpo e di squadra, oltre ad acquisire senso di responsabilità e rispetto delle regole e dei principali valori della vita.
Come l’esercito educhi al rispetto della vita, mi sfugge. In linea di massima un esercito serve ad ammazzare altra gente, e questo dovremmo dircelo con franchezza; le missioni di pace – cosiddette – sono compiti incidentali. In effetti quando ti addestrano ti insegnano a sparare, non a mettere fiori nei cannoni.
Cosa si fa negli incontri?
1. CULTURA MILITARE
che già chiamarla cultura mi fa specie… 2. TOPOGRAFIA ED ORIENTAMENTO
che si può fare anche col CAI, senza tirare in ballo l’esercito 3. DIRITTO COSTITUZIONALE
che dovrebbe far parte della normale educazione civica, che, nonostante faccia parte dei curricula, praticamente non esiste come materia scolastica e viene lasciata alla buona volontà di docenti illuminati 4. DIFESA NUCLEARE, BATTERIOLOGICA E CHIMICA
un evergreen di questi difficili tempi post 11/09 5. TRASMISSIONI
6. ARMI E TIRO
e questa, davvero, mi sembra una brillante idea. Prendiamo dei quidicenni e insegnamogli a sparare. Del resto, qui in Italia ancora non abbiamo quei casi à la Columbine che invece allietano i tg dei network americani, mi sembra il caso di colmare questa gap e dare anche ai nostri ragazzi i mezzi per sfogare la loro rabbia adolescenziale. 7. BLS E PRIMO SOCCORSO
e anche questa non è materia esclusiva dell’esercito, anzi 8. MEZZI DELL’ESERCITO
9. SUPERAMENTO OSTACOLI
10. SOPRAVVIVENZA IN AMBIENTI OSTILI
Alla fine del corso, una competizione “sportiva” in cui i cadetti – la parola è esattamente quella usata nel documento – vengono divisi in pattuglie – ancora parola usata nel testo – invitate a svolgere missioni in cui
si mettono in atto tutte le tematiche che vengono trattate durante il corso di formazione.
Suppongo quindi ci si spari anche vicendevolmente. Insomma si gioca alla guerra, mostrando che non è una cosa poi così brutta, che, ok, ammazzi e vieni ammazzato, ma lo fai per un fine superiore, e poi c’è lo spirito di corpo, tanti sani valori, e fai movimento all’aria aperta.
Io mi immagino la gioia di questi ragazzi, che nel giro di sei incontri da studenti diventano “cadetti” organizzati in “battaglioni”. Un’attività del genere non può che divertire un quindicenne. È tutto sommato un gioco che fa leva su tutta una serie di spunti molto forti: l’attività fisica, i “valori” forti in cui credere, la componente ludica, il gusto del proibito con la storia delle armi. Le armi. Avoja a dire Non sono attività paragonabili a tecniche militari, bensì sono le stesse che si svolgono a livello olimpionico. In ogni caso stai insegnando ad un ragazzino, uno che è in una fase delicata della sua esistenza, in cui sta costruendo la sua personalità, la sua etica, a sparare. E non lo fai affatto in un contesto sportivo. Lo fai con gente cui è stato insegnato a sparare alla gente, che nella sua vita alla gente ha dovuto sparare.
È proprio il fatto che sia una cosa evidentemente divertente che la rende assolutamente subdola. Si fa passare per gioco quel che gioco non è. E non serve dire che le nostre truppe sono impegnate prevalentemente in operazioni di pace. Innanzitutto perché i confini di queste operazioni sono messe in discussione da molti, che non tutti sono d’accordo nel dire che si tratta di pace. In ogni caso, un esercito nasce con altri scopi. Ed è una cosa subdola perché la si fa con dei ragazzi, proponendo loro dei disvalori, presentando loro una faccia della medaglia, facendo, diciamocelo, proselitismo. Non è altro che questo. L’esercito non è più di leva, è composto da professionisti. Bisognerà pure trovare il modo di far arruolare i giovani. Ed ecco fatto. Li si fa giocare alla guerra, così, magari, appena escono dalle superiori si arruolano.
Ma quel che più ancora mi sconvolge è che nessuno si lamenta, nessuno protesta. Che vuoi che sia. Almeno ci levano di torno i nostri figli per qualche ora. Il problema è la totale atonia dell’opinione pubblica italiana. Tutto è uguale a tutto, nessuno si interessa di nulla, non esiste più una coscienza civica. Il presente viene subito, più che vissuto, in una visione nichilistica dell’esistenza per cui “adda passà a nuttata”. Ma almeno nella commedia di Eduardo c’era un dolente senso di resistenza, un disperato desiderio di sopravvivenza. All’opinione pubblica italiana questo desiderio manca del tutto. Si lascia vivere, senza più alcuna speranza. Ma io non mi voglio rassegnare a vivere e a far vivere mia figlia in una società in cui non c’è più alcuna tensione ideale, in cui ogni torto, ogni ingiustizia viene vissuta come un male necessario. Ma la forza la fa la massa, e se la massa non c’è, io da sola cosa faccio?
Non lo so. Ma oggi sono stanca e nauseata.
P.S.
A proposito di cosa succede a insegnare ai giovani i “sani valori” e lo “spirito di corpo” vi consiglio un film tedesco particolare, L’Onda
P.P.S.
Guardate un po’ cosa ho trovato tramite June Ross…
Sicché domenica sera sono andata a vedere il film tratto da La Solitudine dei Numeri Primi. Forse ve lo ricordate (o forse no), ma il libro in questione lo lessi quando ancora non era fenomeno editoriale, ed è uno dei libri più belli che abbia letto negli ultimi anni. Lo Strega, il Campiello e tutto l’ambaradan che si è andato montando intorno al libro nei mesi non mi hanno fatto cambiare idea di una virgola. Resta uno dei miei libri preferiti. Per cui il passaggio a cinema è stato quasi obbligato, nonostante l’agghiacciante trailer con cui il film mi si è presentato qualche settimana fa.
Le attese erano basse. Dice: “Ma allora perché ci sei andata?”. Avevo voglia di andare a cinema. Ed ero curiosa. A Costanzo facevo la corte da Private, che non sono poi mai riuscita ad andare a vedere.
Lo spettacolo ero quello delle 22.30. Considerando che mi sveglio più o meno sempre alle 7.30, e che i week end sono quasi più faticosi dei giorni lavorativi, consideravo un successo già l’arrivare a fine proiezione sveglia. E in effetti non ho dormito.
Dare però un giudizio più articolato è difficile. Perché, dopo due giorni, non so dire esattamente se il film mi sia piaciuto o meno.
È innegabile che Costanzo è uno che ha una visione. Ammirevole è il fatto che abbia voluto dare la propria interpretazione del libro, un’interpretazione per altro per nulla banale, e per molti versi riuscita. La filologia nel ricostruire gli anni ’80, e riempirli di un orrore latente (l’albergo in mezzo alla neve, il corridoio che fa tantissimo Overlook Hotel, la piastrelle della cucina) è una scelta interessante, così come la musica ossessiva, martellante, inquietante. È un horror, e sfido chiunque a pensare che da un libro come La Solitudine dei Numeri Primi si potesse tirare fuori un horror. Belle anche certe inquadrature di ambienti, che non fanno altro che accrescere il senso di orrore. Tutto è straniante, alieno, senza senso. Da questo punto di vista, la sequenza di apertura è assolutamente magistrale: i bambini mascherati, la musica inquietante, Michela che urla, e poi il silenzio, i volti di Mattia e Michela pieni di paura. C’è sostanza, insomma. Guardando mi venivano in mente i periodi peggiori della mia infanzia e della mia adolescenza: il sentirsi sempre fuori posto, la difficoltà a inserirsi, quel senso cupo, angosciante, di non poter mai essere davvero felici, di dover restare in quel limbo doloroso di non appartenenza per tutta la vita. In questo Costanzo ha colto il libro, che non è la storia – che lascerebbe il tempo che trova – di un’anoressica e un matematico autolesionista, ma di quella parte di noi che si nega la serenità, che cerca senza trovare, che è sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. È per questo che leggi il libro e senti che parla di te.
Però…Però questo film non mi pare completamente riuscito. La scelta di diluire la rappresentazione dei traumi di Alice e Mattia lungo l’arco di tutta la pellicola ha un senso, ma il saltellare di continuo da un flashback all’altro frammenta eccessivamente la narrazione. Il risultato è che la trama ne esce completamente destrutturata, e, sostanzialmente, si dissolve. Il libro una trama ce l’aveva. Il film no. Il è solo atmosfera, il film sono solo Alice e Mattia che stanno male.
Anche l’anoressia di Alice resta praticamente sempre sullo sfondo. Compare solo verso la fine, appena accennata. Peccato, perché così in qualche modo Alice appare meno “damaged” di Mattia, risulta complessivamente meno risolta, meno approfondita.
Poi, è lungo. Sarà che ero stanca, ma verso metà film ho iniziato a sentirmi affaticata. Davanti alla prospettiva di un tot di altri eventi che sapevo avrebbero dovuto verificarsi mi è preso un po’ di sconforto. Nemmeno a dire si poteva tagliare. In fin dei conti tante cose sono già state tagliate.
Per il resto, grandissime interpretazioni, di tutti, da Alba Rohrwacher e Luca Marinelli ai bambini che interpretano i Nostri durante l’infanzia. Un film veramente ben recitato, ma davvero.
Insomma, non so che giudizio darne, alla fine. Apprezzo il coraggio di fare una cosa diversa, ma ho l’impressione che non tutte le ciambelle riescano sempre col buco bello tondo tondo.
P.S.
C’entra nulla, ma se volete sentire una mia intervista particolarmente folle e divertente, andate qua
Anche le scrittrici che stanno facendo la correzione dell’ultimo libro ogni tanto dedicano una serata al puro scazzo. Nello specifico, io ieri sera mi sono dedicata alla visione di 2012. Le intenzioni erano oneste e buone: vedersi un bel filmone d’azione che diverte, con quel tanto di ironia che non guasta, tanta distruzione e possibilità di spegnere il cervello per due ore o giù di lì. Del resto, Stargate a me è sempre piaciuto molto – ogni volta che lo passano in tv me lo riguardo – Indipendence Day è un filmetto divertente, quindi…Voglio dire, ero conscia che non stavo guardando Godard, anzi, parte del divertimento speravo venisse fuori dalle molteplici cazzate di fisica di cui speravo il film fosse infarcito.
Ecco, devo dire che nonostante il mio spirito aperto, il giusto mood con cui mi ero avvicinata alla visione, e l’HD che per prodotti del genere non guasta mai, io per due ore non ho fatto altro che sbadigliare alla grande.
Capite, non sto dicendo che la storia non c’è – che poi è vero – o che i personaggi sono di carta velina – che pure questo è vero – o che la sceneggiatura è un affastellarsi di fastidiosi luoghi comuni – e anche questo è vero – ma che mi sono annoiata.
Innanzitutto, il film parte benissimo: quella scena lì dei flares solari è meravigliosa, andrebbe usata nei documentari divulgativi sul sole. Peccato che poi si impantani per quaranta minuti buoni in inutili divagazioni sui personaggi: e il padre che c’ha problemi col figlio adolescente, e la moglie che evidentemente l’ex-marito ancora le fa sangue ma sai, è un bambino, insegue i suoi sogni, io non arrivo a fine mese, per cui mi metto con l’uomo palloso ma che mi dà sicurezza, e il pazzo che ha capito tutto ma nessuno lo sta a sentire, e lo scienziato che lavora alla Casa Bianca ma c’ha il padre morto di fame…Tutto sostenuto da interpretazioni da pena capitale. John Cusack evidentemente si domanda perché abbia accettato di fare una cosa del genere, e si aggira stupito tra scene via via più ripetitive, il resto dei membri della sua famiglia sono attoniti almeno quanto lui, e sembrano chiedersi più o meno ad ogni inquadratura quale sia la faccia giusta da fare: devo urlare? Devo essere stupito? Devo sorridere? Boh? L’unico che si salva è Woody Harrelson, che fa la cosa che gli riesce meglio, certo, ma almeno sembra aderire allo spirito cazzone che si suppone un film del genere debba avere.
Poi finalmente le cose iniziano ad essere distrutte. Voglio dire, è per questo che guardo 2012, per vedere Los Angeles che esplode, il Vaticano che collassa e via così. Peccato che le scene più puramente catastrofiche siano di una ripetitività – e anche di una banalità, diciamocelo – agghiacciante. Tre volte vediamo un aereo che decolla mentre la pista dietro e davanti collassa. Se ci mettiamo anche le scene della limousine che corre in mezzo a Los Angeles che casca giù e il pulmino Volkswagen inseguito dalla lava, abbiamo cinque scene che sfruttano tutte lo stesso identico stratagemma di trama: omino su mezzo di fortuna che scappa da catastrofe/distruzione alle sue spalle. Una cosa non già vista al cinema, dde ppiù. Per un’ora non facciamo altro che vedere la strada che si fa in pezzi e i palazzi che vengono giù, che uno alla prima volta può anche fare “wow!” poi si assuefà e sbadiglia. È la distruzione del mondo, non potevamo inventarci qualcosa di più vario? Qualcosa che non sia solo la crosta terrestre che collassa? Ok, c’è Yellowstone che erutta: e capirai, anche qui c’era arrivato Dante’s Peak, niente di nuovo sotto il sole.
L’altra metà film è dedicata alla serie tsunami. Qui c’è l’unica, grossa cazzata fisica di tutto il film: la nave del babbo dello scienziato spazzata via dallo tsunami. In mare aperto lo tsunami savrà una lunghezza d’onda di centinaia di metri, ma è alto pochi centimetri; è quando arriva verso riva e tocca il fondale che diventa una cosa catastrofica. Comunque, non che questo abbia molta importanza. Le scene con l’acqua sono almeno un po’ più varie di quelle dei terremoti. Peccato però che quelle più belle siano state bruciate dai trailer: la scena dell’Himalaya allagato è d’impatto, ma è uscita col primo – per altro splendido – trailer del film.
Pregevole anche la scena della distruzione del Vaticano – anche se ammetto che fa male al cuore vedere la Cappella Sistina che va in frantumi – ma anche questa l’avevamo già vista nel trailer. Per altro, Emmerich è uno che il sottotesto lo rende sempre molto fine, di difficile comprensione: la scena della crepa tra il dito di Adamo e quello di Dio nella creazione di Michelangelo è proprio sottile sottile, eh? Una metafora appena accennata…
Comunque. Il fatto è che nonostante le prevedibili morti, le tonnellate di effetti speciali, uno si annoia. Non si affeziona a nessuno dei protagonisti, non si diverte a vedere la terra scassata, e prega solo che finisca presto. Per altro, il “cattivo” è il più saggio e coerente del cucuzzaro, mentre lo scienziato e la figlia del presidente mostrano quella classica etica del “oh, non posso tollerare la vista di una persona che muore davanti a me, ma se muore due passi più in là e non la vedo tutto ok”. Perché francamente non si capisce perché la massa di ricconi ammassati in Cina davanti all’arca che non può partire debba salvarsi e i miliardi di persone là fuori debbano invece schiattare tra atroci sofferenze. Ma vabbeh.
Per il resto, buchi di sceneggiatura più devastanti di quelli generati dai terremoti che si vedono sullo schermo: i Maya avevano previsto tutto. Ok, come? Basta mettersi tutti sulle navi e ci salveremo. Perché? Ma come, non s’è fluidificata la crosta terrestre? E ‘sto processo si ferma? E come? Perché?
Insomma, l’ultima mezzora mi stavo addormentando, pregavo finisse il prima possibile.
Eppure, ripeto, altri film di Emmerich mi erano piaciuti. Non che fosse roba da storia del cinema, ma intrattenimento di buona fattura sì. Ok, ingenuità, personaggi tagliati con l’accetta, ma ci si divertiva. Cosa gli è successo in questi anni?
Comunque. È bastato poco per tirarmi su dalla deprimente visione. È bastato alzare gli occhi sul mio angolo scrittura nel salotto, e vedere questo.
Ed eccomi servita la scusa per farvi vedere il mio regalo
Ieri sera ho visto Amadeus. Lo vidi la prima volta da bambina, ma dovevo essere piccola, perché ricordo solo due cose: Salieri insanguinato all’inizio del film e Mozart che rideva di continuo con uno scemo. Ma il film in qualche modo doveva aver colpito il mio immaginario di bimba, perché avrei sempre voluto rivederlo. Approfittando del giornatone cinema di Sky per l’inaugurazione dei nuovi canali HD, l’ho fatto.
Ora. Ci sarebbe da parlare per giorni di questo film. Che è un capolavoro. Poco importa che la ricostruzione della vicenda Salieri Mozart non sia fedele alla realtà dei fatti. Amadeus è un apologo. Una lunga, ironica, grandiosa, sofferta riflessione sulla vita. Sì, sull’invidia, sul talento, su Dio. Ma soprattutto sulla vita. Sull’ingiustizia della vita.
Già il titolo dice tutto. Amadeus. Amato da Dio. Che poi sarebbe la traduzione letterale del secondo nome di Mozart, Theophilus. In latino, appunto Amadeus. E fin dall’inizio Salieri lo vede così. Un figlio eletto di Dio, addirittura una sua incarnazione. Un fanciullo “vanaglorioso, libidinoso, sconcio, infantile”, un uomo senza qualità, che però Dio ha investito di un talento sovrumano. Ed è qui il busillis, un busillis molto umano, che tutti ci sentiamo di comprendere: perché Mozart sì e Salieri no? Perché Salieri, che ha desiderato la musica per una vita intera, prendendola come sposa in una vita di castità, che si dedica alle note con un rigore da asceta, non riesce a scrivere quella stessa musica che Mozart non fatica neppure un po’ a produrre, che gli viene fuori dalla testa già perfetta, già conclusa, già sublime? A pensarci bene, questo è il problema dell’esistenza.
Ciascuno di noi ha dei sogni, delle aspirazioni. In qualche caso sono velleità artistiche. Ma la stragrande maggioranza di noi non ce la fa. Deve scendere a patti con le proprie capacità, coi propri limiti. E succede che per quanto si ami profondamente fare qualcosa, quella sia, guarda un po’, l’unica cosa che non siamo in grado di fare. Che è una cosa che porta dolore, certo, ma si potrebbe anche sopportare. Se non fosse poi che viene fuori qualcuno che invece quella cosa la fa benissimo, senza alcun merito, senza anni di studio, di impegno, senza sacrificio. Me ne vengono in mente di casi del genere. Dov’è la giustizia in questo?
Il talento è immeritato. Sempre. È un dono che qualcuno ha, e qualcun altro no. Non c’è alcun merito nell’averlo. È come nascere con gli occhi azzurri invece che neri. Un capriccio del caso. Qualcosa che ti scende dal cielo. È incredibile quanta tragicità ci sia in una constatazione simile. Una tragicità che il film, nel suo andamento quasi farsesco, coglie in pieno. Meravigliosa in questo senso è una delle scene finali, con Mozart che detta a Salieri alcuni brani del Requiem. Salieri si affanna a star dietro alla dettatura di Mozart, ma non ci riesce, non ce la fa, non capisce. Perché il talento è incomprensibile, un mistero. Chi ce l’ha appartiene ad un’altra razza, che partecipa del futuro. Salieri è un gran compositore, ma è radicato nel presente. Mozart no. Mozart è avanti, ragiona in un modo che per i suoi contemporanei è incomprensibile (l’imperatore che si lamenta che Le Nozze di Figaro hanno “troppe note”). E così Salieri, che pure per tutto il film è stato benedetto (o meglio maledetto) da un’altra forma di dono, la capacità – unico tra i suoi contemporanei – di comprendere fino in fondo il genio di Mozart, quando entra in contatto con la sua genialità si rende conto di quanto essa sia inafferrabile, inspiegabile, irriducibile ai canoni della musica dell’epoca. Ed è in quella scena che finalmente i due si toccano per davvero: Salieri che succhia via la linfa creativa di Mozart, e non è più per rubargli la sua ultima composizione, ma per sentirsi – in un modo larvato e triste – partecipe di quel genio, e Mozart, che in tutta la sua tracotanza, in tutte le sue pose da rockstar (perché alla fine Forman così ce lo mostra, una rockstar del ’700 con tanto di vita dissoluta, alcool e debiti a palate), in fin dei conti è alla disperata ricerca dell’approvazione di qualcuno (“pensavo che di me e della mia musica non vi importasse…perdonatemi”).
Grandioso. Grandioso e tragico.
Poi, ovviamente, su questo tema portante se ne innestano una miriade di altri, proprio come in un pezzo orchestrale. Il rapporto tra un uomo e i propri miti, per dire. In fin dei conti, il vero peccato di Mozart è quello di non corrispondere all’immagine ideale che ne ha Salieri. Salieri s’immagina un uomo sul cui viso, nei cui atteggiamenti in qualche modo il talento abbia lasciato un segno. E invece si trova davanti un ragazzino che rincorre un paio di tette. Dimostrazione di un’altra grande verità: il genio non ci fa migliori. Si può essere straordinari musicisti, grandissimi scrittori, ed essere al contempo persone piccole piccole. Occorrerebbe saper accettare l’umanità dietro il mito, ma la maggior parte della gente non ne è in grado.
Oppure il tema continuo di Dio che truffa l’uomo, lo induce in tentazione per il proprio diletto, prima lo illude, e poi lo punisce. O ancora il rapporto tra vita e arte. Salieri non vive, e la sua arte è povera, sterile, ridotta al rispetto dei canoni dell’epoca, Mozart fa la vita del dissoluto, e la sua musica palpita di vita e di divino. E poi il rapporto coi padri, la follia…un sacco di cose. Messe in scena in un modo grandioso, sostenute da grandissime prove attoriali. Un film che dura tre ore, ma alla fine ti pare ne sia passata al massimo una.
Io non ho mai amato particolarmente Mozart. Qualcuno una volta mi prese in giro, chiedendomi se fosse perché c’erano troppe note. Non è quello. È che è un po’ troppo allegro per i miei gusti. Non a caso l’unica sua cosa che mi piace molto è il Requiem, che è giustamente deprimente, e tutto sommato anche poco riuscito. E nonostante io sia decisamente una Salieri, e questo senso schiacciante di mediocrità me lo porto addosso sempre, come un vestito un po’ stretto, non ho potuto fare a meno di tifare per l’enfant prodige per tutto il tempo: perché il talento ci attrae, il suo essere misterioso, indecifrabile, ci parla di una dimensione altra, ci avvicina, davvero, al divino.
Il film è stato ridoppiato. E te pareva. Ma io tanto non ricordo il doppiaggio originale. E poi devo dire che Max Alto fa veramente un lavoro bello bello bello in modo assurdo.
Sono giorni complicati e pienissimi di cose. Settimana scorsa, come avete visto, ho fatto tanti eventi. Un altro ci sarà stasera; l’appuntamento è alle ore >>>
I miei prossimi appuntamenti
Venerdì 6 Dicembre – Sabato 7 Dicembre 2019 – Più Libri Più Liberi – Roma Venerdì 6 Dicembre
h 16.00 – 17.00
Firma copie presso lo stand Comics&Science
h 17.00 – 18.00
Firma copie presso lo stand Tunué
Sabato 7 Dicembre
h 14.00 – 16.00
Firma copie presso lo stand Tunué
h 17.30
Presentazione de Il Re dei Rovi di Marcelo Figueras. Interverranno Francesco Troccoli e l’autore in collegamento da Buenos Aires.