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La mia Palermo

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Trova le duecentomila macroscopiche differenze

Indovinate un po’ qual è la mia postazione…


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Senza parole

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Auguri di buon anno a tutti


Per qualche giorno è possibile che non ci si senta. Mi prendo una piccola vacanza. Vi saluto con Irene che sgambetta qui in soggiorno: a quanto pare ha deciso che il primo dell’anno fosse il momento buono per decidere di imparare a camminare.
Auguri a tutti, forse ci si sente la prossima settimana, forse dopo :)

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Basta poco a fare autunno reprise

Sgrunt…

P.S.
Ho una notizia bella bella bella in modo assurdo per voi, e per chi non ha capito la citazione, filate in videoteca e affittate Zoolander :P . Martedì 26, alle 17.30, alla fanc di Roma insieme a me ci sarà anche Paolo Barbieri. Insomma, per chi ci sarà, si beccherà due autografi al prezzo di uno. Vi aspettiamo!

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Basta poco a fare autunno

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Frammenti

Mettiamo le cose in chiaro

Scarpone…

…ma soprattutto scarpine

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Matera

Debiti
La prima cosa che bisogna fare è riconoscere i propri debiti. Io ne ho accumulato una pila altissima. Nei confronti di chi mi ha accompagnata e sta continuando a farlo in questa avventura della scrittura, a tutti i miei lettori, che si limitino a leggere le mie storie o mi cerchino, mi parlino. E mi facciano dei regali. A Matera ne ho ricevuti due, bellissimi. Uno è uno splendido draghetto per la mia collezione, l’altro è un meraviglioso portafoto che è stato realizzato a mano. Non vedo l’ora di stampare una bella foto di Irene e Giuliano e mettercela su.
Grazie, ragazzi, grazie tantissimo. Il segno tangibile di quanto le mie storie vi appassionino è in assoluto la gratificazione più forte per me.



Il premio

In genere, io cerco sempre di sminuire tutto. Il successo, gli attestati di stima, le cose che vanno bene. Forse mi serve, non lo so. Vivo come se tutte queste cose non ci fossero, cercando di sminuire tutto quello che faccio. Non è che mi ci impegni. Mi viene naturale. È il mio modo di essere. Non c’è prova che possa convincermi del mio valore, perché comunque c’è sempre chi è migliore di me, c’è sempre una ragione per cui quello che faccio non va bene.
Eppure, sotto il freddo di una serata decisamente autunnale, seduta in prima fila in attesa del premio, per qualche minuto sono stata orgogliosa. Non so come sia successo, nonostante tutti i miei tentativi di boicottarmi anche questo momento. Eppure ero contenta. Lo sono stata quando sono salita sul palco, lo sono ancora quando apro la custodia della collana e la guardo. Poi, certo, le solite paranoie sono tornate a trovarmi quasi subito: la preoccupazione per i progetti a venire, la paura che tutto questo possa finire da un momento all’altro, le miriadi di piccole ansie che avvelenano le mie giornate. Ma a volte bastano anche quei dieci minuti in cui sei soddisfatta, a farti tirare avanti per un anno intero di sessioni pianti, insicurezze e fatica.



Matera

Matera è un posto difficile da descrivere. È difficile persino da fotografare. Sfugge alle definizioni, sguscia via tra uno scatto e l’altro, tra parola e parola. Bisogna andarci. Per godere il silenzio assorto, che vibra però di continuo, agitato da una vita sotterranea, come sotterranei sono i Sassi. Una città in cui mattone e pietra si compenetrano, in cui è impossibile capire dove finisca una e dove cominci l’altro. Case che entrano l’una nell’altra, una sopra l’altra, connesse da vicoli e scale tortuose, come in quadro di Escher. E anche le zone disabitate, punteggiate dal verde della cicoria che cresce tra lastra e lastra, sull’impiantito, risuonano di un silenzio trattenuto, come se la vita non fosse davvero scomparsa, ma si fosse nascosta più a fondo, sottoterra.
È un posto unico al mondo, che va attraversato in silenzio, assorti, in modo da catturarne la bellezza selvaggia, caotica, che sfugge a ogni definizione.
Devo tornarci. Sono riuscita solo a fare una passeggiata il pomeriggio, e invece sento che ha tantissimo da darmi. Sento che uscirà fuori in quel che scriverò in futuro, in un modo o nell’altro. In fin dei conti, Matera è un po’ come Minas Tirith.

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A volte

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Essenza e apparenza

L’altro giorno sono uscita con una mia amica per rifare il guardaroba autunnale alle pargole; le nostre figlie sono praticamente coetanee, per cui abbiamo condiviso un po’ tutto: gravidanza, parto, prime ansie, le pupe che iniziano a fare da da e via così.
Entriamo dunque in questo negozio e lei prende un paio di cose. Andiamo a pagare e la commessa fa: “Faccio il pacco regalo?”.
Al no mette tutto in busta e insiste: “Se volete vi faccio lo scontrino senza prezzo, così la mamma in caso può cambiarlo”. E io: “Veramente la mamma è lei”.
Scuse a profusione, e morta là. Non è la prima volta che mi capita. Mi succedeva di continuo in gravidanza, almeno fino al sesto mese, quando poi la pancia s’è vista e quindi c’era poco da equivocare. Mi è successo ieri con un paio di scarpe che ho preso ad Irene.
E mi è venuto da pensare alle passeggiate che faccio con lei al parco. Guardo le altre mamme, e tipicamente sembrano tutte, chi più chi meno, ragazzine.
Ricordo che quando presi la fatale decisione il mio problema principale era che poi dopo sarei diventata adulta senza alcuna via di scampo. Prima di un figlio ero ancora una ragazza, dopo ero una signora. Chissà che mi immaginavo. Col parto ho giusto guadagnato un mal di schiena perenne e un capello bianco. Ma a volte lo penso ancora. Che non sono più una ragazza.
Vado in giro per presentazioni, e ancora mi definiscono “giovanissima autrice”, quando io alla parola “giovanissimo” associo immagini di brufolosi sedicenni. Ho trent’anni, tutto sommato. Ok, ancora ventinove – credo di essere l’unica donna al mondo ad alzarsi l’età – ma solo per due mesi. E a trent’anni non sei più una ragazza, almeno nella mia visione delle cose.
E tutto questo si salda ad un libro che ho letto di recente, Non è un Paese per Vecchie. Al di là delle riflessioni di certo più profonde che un testo del genere dovrebbe stimolarmi, mi guardo allo specchio, coi miei jeans da cui fa capolino la catena del cipollone, con le mie sneakers colorate, gli orecchini uno diverso dall’altro, e mi domando se non sto negando la verità delle cose. Che l’adolescenza è (dovrebbe) essere finita da un pezzo, che ho tonnellate di responsabilità sulle spalle e gli occhi di una figlia che incrociano i miei per capire il mondo e i suoi misteri.
Forse ci stiamo tutte negando la verità. Tutte noi giovani mamme sprint, la mattina al parco con le scarpe da ginnastica e il jeans a vita bassa. Forse non vogliamo accettare la realtà: che si invecchia, si muore.
“Sembra più giovane” mi dice il medico in vacanza, quando vado da lui per un’iniezione e gli dico che ho ventinove anni.
“Sembri una ragazzina” mi dice mia madre quando mi incrocia la mattina.
Appunto. Sembro. E inizio a domandarmi se non sia un patetico travestimento, un fingere di essere quel che non sono. Non più, almeno.
Ma poi rifletto che il mio cappello, le mie scarpe colorate, l’orecchino lungo a destra e quello piccolissimo a sinistra, fanno parte di me come le mie mani, le mie gambe, il mio naso storto e il mento grosso. Sono io. Sono io adesso, sono stata io a quindici anni, e sarò ancora io quando di anni ne avrò sessanta, settanta e via così. In fin dei conti non è una posa. È la mia seconda pelle. Per cui continuerò ad attraversare il mondo così, in sneakers, incassando i complimenti fin quando ci saranno e prendendomi gli sguardi perplessi, che a quelli sono abituata da sempre.

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