Qualche giorno fa mi lamentavo della caterva di pareri polarizzati su Masterpiece, il nuovo talent di Rai3. È che lunedì mattina non si leggeva altro, e tipicamente se ne leggeva male, con quella spocchia un po’ tipica della rete che su qualsiasi argomento si deve spaccare esattamente a metà: o si ama o si odia, nessuna via di mezzo.
Poi che è successo? È successo che mi sono vista il programma. E adesso, ve lo devo dire, sono veramente in imbarazzo. Perché, ecco, come dire…tocca parlarne male anche a me
. Sarà il karma, sarà che ho parlato troppo presto, sarà che è come se facessero un talent sulla fisica (ahahahahahahahahah! No, mi ricompong….ahahahahahahahahahah! Scusate, ora smetto…), che non ne vuoi parlare? Vabbeh. Parliamone, via.
Allora, il programma, per quel nulla che ne so di linguaggio televisivo, è fatto bene. Che belle le riprese aeree di Torino, che belli regia e montaggio, mi piace un po’ meno la voce fuoricampo, ma è una mia idiosincrasia, ma…ma. Ma c’è qualcosa di programmaticamente sbagliato nei contenuti. Nel modo in cui la scrittura viene presentata.
La parola più usata dai concorrenti è “riscatto”. Ciascuno di loro – dei finalisti, intendo, perché gli altri vengono liquidati con sufficienza in meno di un minuto, senza che si capisca chi sono e, soprattutto, cosa hanno scritto – scrive per riscuotere un debito che ritiene di possedere dalla vita. Sono in cerca della loro grande occasione, del big dream, e sto usando tutte parole pronunciate in trasmissione. Ora, capisco che questa è la narrazione preferita dai talent: la corsa al successo, il riscatto, gliela faccio vedere io. Ma era così necessario applicarla pure alla scrittura?
Ormai non c’è più nessuno che balla per il piacere di ballare, che canta per il piacere di cantare: tutti devono “arrivare”. L’obiettivo è il successo, e l’ambito artistico in cui lo si persegue è sostanzialmente intercambiabile: puoi cantare, ballare, adesso anche scrivere. Ma, al centro, non c’è mai l’espressione artistica, persino artigianale, se, giustamente, non vogliamo usare paroloni: c’è sempre e solo il successo.
Questo, secondo me, è sbagliato.
È sbagliato perché – che romantica che sono – resto convinta che scrivere sia sostanzialmente raccontare storie, e pubblicare cercare di arrivare al pubblico maggiore possibile, in modo da poter dire quel che si vuol dire. Non voglio affermare che il successo non conti e non gratifichi, ma non è la molla prima, o non dovrebbe esserlo. E non voglio neppure fare un discorso etico, che anche questi probabilmente sono paroloni: è che se scrivi per farcela, per dimostrare qualcosa a qualcuno, nove volte su dieci finisce che scrivi qualcosa di cui non frega nulla a nessuno, perché troppo autoriferito, o, al contrario, troppo prono alle mode.
Lì fuori è già pieno di gente che cerca applausi, e lo fa tramite la scrittura, perché nell’interpretazione comune tutti sanno scrivere, te lo insegnano a scuola: era proprio necessario farci un talent sopra?
Per la prima ora del programma, la scrittura è un’appendice accessoria del discorso: della maggior parte dei concorrenti è impossibile capire cosa abbiano scritto. Non basta far loro leggere dieci righe, non capisci niente da dieci righe, a meno che tu non sia editor di professione. Ci si sbrodola invece tantissimo sull’esperienza di vita dei candidati: è più il tempo trascorso a discettare della galera di uno dei concorrenti che di cosa parli il suo noir, di cui non ricordo neppure il titolo, per dire, e del quale la trama non è mai stata presentata. L’idea che passa è che se non hai sofferto, se non hai avuto una vita borderline, non puoi scrivere. Uno dei concorrenti lo dice proprio: io soffro. A guardare le biografie di tanti scrittori che ci hanno lasciato pagine indimenticabili non mi pare sia una cosa così decisiva, ma sarà un limite mio. Di sicuro, lo stereotipo dello scrittore maudit, disperato a fieramente in contemplazione del suo ombelico, aveva rotto già nell’ottocento, quando poteva ancora avere un senso. Non è sempre così. La sofferenza, per altro, è esperienza inscindibile dalla vita, quindi non vedo la necessità di questa hit parade della sfiga. Per altro trovo quanto meno offensivo che sembri che la concorrente guarita dall’anoressia sia stata fatta passare solo perché, appunto, il suo libro parla della sua malattia. Ci sono miriadi di storie che val la pena di raccontare, anche quando non nascono da esperienze di vita estreme: pensiamo al racconto di un uomo comune tipo La Coscienza di Zeno. Non val la pena? Ma meglio quello di tantissime autobiografie recenti! Ma di grandissima lunga!
Vabbeh. Diciamo che poi si arriva alla parte in cui si scrive. I concorrenti vengono portati a fare “esperienza di vita” (aridaje…) in una comunità tirata su da un prete e in una balera. Dovranno poi scrivere rispettivamente la lettera di un ospite e il racconto dei loro genitori che ballano.
In teoria, la scrittura dovrebbe farla da protagonista, ora. Peccato che, al solito, la lettura di trenta righe così, fatta per di più da chi non sa – giustamente – leggere, perché non è il suo mestiere, non renda per niente. Per esempio, io non avevo colto neppure una delle sgrammaticature di uno dei concorrenti, mentre, sulla pagina scritta, mi sarebbero immediatamente saltate all’occhio. Non mi pronuncio sulla qualità degli scritti, lo fanno i giudici; non si capisce però perché siano stati accettati nella fase finale autori che poi producono testi ritenuti dai giurati stessi così scarsi. Mi dilungo invece sul profluvio di banalità con cui alcune delle esperienze sono state descritte da chi le ha vissute: se non hai niente da dire, perché una cosa non ti tocca, forse è meglio tacere, piuttosto che dire quel che dicono al riguardo i contenitori del pomeriggio di un canale5 o una rai1. Da questo punto di vista, meglio il commento del coach alla vista dei ballerini nella balera: “Forse sono così contenti perché si avvicina la morte”.
Dopo questo exploit, la scrittura torna nello scantinato: la prova successiva è cercare di convincere in un minuto una editor Bompiani che il proprio libro è il migliore. E, di nuovo, protagonista è lo scrittore col suo vissuto e la sua “presenza scenica”.
Vabbeh, comunque, scelta del vincitore, sipario, fine. Dopo un’ora e venti. Che sono decisamente troppe. Io più di una volta ho iniziato a fare altro. Questa è probabilmente l’unica pecca “tecnica” che attribuisco al programma. Il resto, ripeto, è una questione di opportunità, di mostrare il mestiere della scrittura con un minimo di verosimiglianza, e magari anche con un po’ di rispetto.
Serve tutto ciò alla lettura, alla scrittura? Aiuta ad avvicinare il pubblico alla cultura? Secondo me, banalmente, no. Reitera una serie di stereotipi abbastanza radicati presso il pubblico (lo scrittore maledetto, tutti possono farcela, la scrittura come qualcosa che ti nobilita) ma non spiega cos’è uno scrittore (che poi vallo a sape’, ce ne sono di tanti tipi diversi…) né insegna a qualcuno a scrivere, se questo è un mestiere che si può insegnare da zero. Non so, credo che ci possano essere altri modi, più rispettosi, se vogliamo, di raccontare la scrittura e gli scrittori, pur non essendo seriosi, perché la scrittura è anche un mestiere, e gli scrittori persone normali. Io invece ho trovato in Masterpiece un’ovvia spettacolarizzazione, nel senso però deteriore del termine, e anche una certa spocchia nel modo di rapportarsi a molti concorrenti.
Non lo so, a me torna in mente, per dire, l’esperimento di Xwriting che feci in quel di Pietrasanta, con due squadre di ragazzi che si scontravano scrivendo brevi brani a tema: declinare una storia in rosa, fantasy e noir, ad esempio. Era un modo divertente e carino di parlare di scrittura, persino di tecnica, senza tirare fuori per forza le esperienze esistenziali degli scrittori (per poi lamentarsi che sono troppo ombelicali, per altro…).
Resta il fatto che secondo me la scrittura non è televisiva. Quando cucini, dipingi, balli o canti c’è un effetto immediato, che tutti possono osservare, anche quando si prepara l’esibizione. Quando scrivi no. Il 99% del tempo sei tu, la pagina bianca e il silenzio (o la musica, per chi la preferisce). Una cosa di una noia mortale da mostrare. E anche il godimento dell’opera avviene in solitudine, in un rapporto uno ad uno: tu, il libro, e il silenzio (o la musica per chi la preferisce). Cosa c’è di televisivo in tutto ciò? Una gara di scrittura, invece, può magari funzionare meglio; non per un’ora e venti, ma per una mezz’ora, magari…
Insomma, io sono rimasta delusa. Non vorrei usare parole forti, ma non credo che una cosa del genere faccia bene all’editoria o alla scrittura. Non credo ce ne fosse bisogno, e faccia più male che bene.
E adesso datemi dell’ipocrita
P.S.
Per chi è riuscito ad arrivare fino in fondo a questo papiellone, vi ricordo che da domani parte la prima porzione del tour di Nashira3. Le tappe sono
Venerdì 22 Novembre 2013 – Napoli
Libreria Feltrinelli
Piazza dei Martiri
ore 18.00
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio
Sabato 23 Novembre 2013 – Bassano del Grappa (VI)
Librearia Palazzo Roberti
ore 17.30
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio.
Domenica 24 Novembre 2013 – Milano
Bookcity
Palazzo Morando
Via Sant’Andrea 6
ore 17.00
Presentazione de I Regni di Nashira 3 – Il Sacrificio
Chi vuole/può venga a vedermi, che mi fa contenta
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