Entro a gamba tesissima nella polemica letteraria del momento, un po’ perché non mi par vero di poter dire la mia su una polemica letteraria
, un po’ perché la cosa sarà spunto per la prossima puntata di Terza Pagina. Innanzitutto, per inquadrare per bene la questione, vi invito a leggere questo articolo de Il Post che riassume tutto per bene. Per i pigri, sintetizzo io in modo non esaustivo: negli Stati Uniti una scrittrice bianca ha scritto un romanzo, da noi tradotto Il Sale della Terra, con protagonisti migranti messicani che cercano di arrivare negli USA. Il libro è stato lanciato con gran battage pubblicitario, opzionato per il cinema, e a quanto pare pagato con un anticipo a sei cifre. Peccato che il mondo letterario latinoamericano sia insorto, portandosi dietro anche una fetta di opinione pubblica, accusando il libro di essere superficiale e di rappresentare il Messico e il dramma dei migranti in modo stereotipato.
La polemica tocca numerosi nervi scoperti: la questione dell’appropriazione culturale, che negli States è molto sentita, l’influenza che i movimenti dal basso possono avere sulla creatività e il mondo letterario, infine il problema della rappresentazione della diversità nell’industria culturale. Di tutte queste cose proveremo a parlare a Terza Pagina. Io qui cercherò invece a dare il mio punto di vista strettamente letterario sul testo. Perché l’ho letto, in lingua originale per altro, per avere meno schermi possibili in mezzo, e poter capire più a fondo di cosa si sta parlando. Quindi, sorpresa delle sorprese, questo post alla fine è una recensione
.
Confesso che la mia conoscenza dell’America Centrale è pressoché nulla. Mai stata in Messico, e anche le mie nozioni su quella specifica via migratoria sono piuttosto carenti; so quel che sappiamo tutti sulle politiche di Trump al riguardo, ma per ovvie ragioni geografiche mi sono sempre più interessata ai fenomeni migratori del Mediterraneo. Non sono quindi la persona più adeguata a giudicare la plausibilità del Messico e del fenomeno migratorio per come raccontati nel libro, e non sarà su questo punto che mi concentrerò. Però leggo e scrivo, e quindi credo di poter esprimere, come tutti i lettori, un giudizio di valore sull’opera.
In uno degli articoli che ho letto in questi giorni per documentarmi sulla faccenda, un editor statunitense che ha voluto rimanere anonimo diceva che il vero problema de Il Sale della Terra è il modo in cui è stato promosso dalla casa editrice che l’ha pubblicato – quella statunitense, ovviamente -. La campagna pubblicitaria è stata tutta puntata sul fatto che è un libro che spiega tramite la fiction l’immigrazione dal centro America verso gli USA. Cummins stessa, nelle note al libro, ne parla in questi termini: una fiction che però ha al centro il dramma di chi attraversa tutto il Messico per andare a stabilirsi negli States. Peccato, diceva l’editor, che il libro sia invece sostanzialmente un thriller, una specie de Il Fuggitivo in salsa Messicana (paragone mio). Ecco, io credo sia vero.
Se Il Sale della Terra fosse stato presentato per quel che davvero è, un polpettone più prossimo alle parodie di telenovelas sudamericane de il Trio che a una docufiction degna di questo nome, ci sarebbe stata un decimo della polemica, ma anche, ovviamente, un decimo delle vendite.
Scendiamo un po’ nel dettaglio. La storia in breve: Lydia ha una una cotta ricambiata per un tizio di cui ignora il vero impiego, ossia il boss dei narcos. Suo marito invece fa il giornalista. Due più due fa quattro, e quando il consorte scrive l’articolo sbagliato sul tipo, quest’ultimo fa sterminare tutta la famiglia di Lydia. Lei e il figlio si salvano per miracolo; a questo punto, Lydia decide che l’unica cosa da fare per salvare la pelle a sé e alla prole è andare negli Stati Uniti. A parte che non mi è ben chiaro come fuggire lungo una strada, quella percorsa dai migranti, controllata dai narcos, per ammissione stessa di Cummins, possa essere il modo migliore per sfuggire a un boss dei narcos che ti vuole morta, il primo problema del libro è una drammatica mancanza di localizzazione della storia.
Il primo terzo della storia potrebbe essere ambientata un po’ ovunque: nulla nella vita di Lydia ci parla del Messico. La sua libreria potrebbe essere tranquillamente quella della mia città, una vita come la sua potrebbe condurla ovunque. Javier, il cattivissimo – ma affascinante, ovvio – boss potrebbe senza problemi essere un mafioso siciliano, o un camorrista campano, oppure Al Capone. Tutti i riferimenti culturali della libraia Lydia sono inoltre inspiegabilmente anglofoni o, al massimo, cileni o colombiani, e sempre limitati a quei nomi che a un occidentale sono ben noti: del suo continente, Lydia legge solo Neruda o Marquez. Va al Wallmart, il figlio ha un berretto di una squadra di baseball statunitense, tutto l’immaginario evocato in termini di paragoni e metafore è strettamente occidentale. La patina latina è data da parole in spagnolo infilate qua e là un po’ a caso, soprattutto nei dialoghi, e compaiono ogni tanto gli avocado, che però, boh, io ne mangio anche in Italia, per cui non mi sembrano significativi. Per di più, Lydia e il figlio conoscono l’inglese e lo parlano a livello di madrelingua, per cui uno si domanda perché questa storia non sia stata ambientata in una periferia malfamata di una città statunitense random: anche là ci sono i trafficanti di droga che ti ammazzano la famiglia, con tanto di polizia corrotta.
Il problema è che lo sguardo sulla storia è prettamente occidentale. Per capirci, uno può non sapere nulla del Cile, ma legge La Casa degli Spiriti, e capisce subito che non siamo in Europa, che lo sguardo sul mondo dell’autrice è altro rispetto al nostro. Così con tutta la letteratura centro e sudamericana, che, declinata ovviamente in modo diverso in ogni specifico stato, ha un sapore inconfondibile, che il lettore coglie a volo. Qua no. Il Sale della Terra è la storia di un’occidentale, raccontata con modi e sguardi occidentali, che, senza una chiara ragione, ci dicono essere ambientata in Messico. Ma questa è una minuzia rispetto agli altri problemi del libro.
Nessuna delle psicologie è credibile. Luca, il figlio di Lydia, ha otto anni, ma fa ragionamenti e prova sentimenti prettamente adulti: il più delle volte parla anche come un adulto. La reazione sua e di Lydia al trauma è risibile, così come le motivazioni dietro i loro comportamenti: Lydia non si convince a prendere un aereo perché sennò Javier la può trovare, visto che deve dare il nome al banco del check-in, ma duecento pagine dopo racconta tutta la sua storia, con nomi e cognomi, a un’anonima funzionaria di banca. Sentimenti, reazioni, vengono quasi sempre raccontate e raramente mostrate, e, quando lo si fa, è con scarsa efficacia. Il problema è che tutto sembra raccontato da parte di chi di questi argomenti ha sentito parlare, ma che nei confronti dei quali non ha una reale adesione. E qui si entra nel vivo di cosa significhi per me scrivere una storia: è ovvio che la capacità di entrare nella pelle di qualcun altro è alla base del meccanismo stesso della letteratura. Flaubert è Madame Bovary, così come Yourcenar può essere Adriano, senza che nessuno dei due sia né una donna né un imperatore romano. Ma il punto è in quel “je suis madame Bovary”, che significa che a un livello profondo Flaubert sentiva riverberare qualcosa di sé, di seminale e vero, in un personaggio per altri versi distantissimo dalla sua personale biografia. È questa esigenza, questa necessità di raccontare una certa storia, perché parla di noi, che fa funzionare il meccanismo. Anch’io, nel mio minuscolo, ho parlato mettendomi nei panni di un uomo mezzosangue, pur essendo una donna ed essendo i miei parenti tutti nati e vissuti in Italia da che io riesca a ricostruire. E allora? E allora ho sentito il bisogno di parlare di Telkar, assumendone per di più la voce, perché volevo parlare del mio non sentirmi mai a casa in nessuna comunità, della mia difficoltà a provare un senso di appartenenza nei confronti della città in cui sono nata, perché i miei genitori invece ci sono immigrati, e tutta la mia famiglia vive altrove. In questo senso, la vicenda di Telkar mi apparteneva. Così Dubhe, Nihal e tutte le altre, in cui ho trasfuso le mie nevrosi, i miei dubbi, i miei dolori. Poi c’è Flaubert e ci sono io, ed è dunque ovvio che questo meccanismo a volte produca altissima letteratura, a volte no, ma di base deve esserci, o davvero ti stai appropriando della vita di qualcun altro senza averne diritto.
Ecco, lo sguardo di Cummins è perennemente esterno: il suo racconto non mette mai davvero il lettore nei panni di una migrante, ma lo conferma invece nei pregiudizi che questi già possiede sull’argomento. Nelle innumerevoli pagine del libro non ho sentito una scintilla di verità in alcuno dei personaggi: tutti fanno cose che ci si attende facciano, per come ne abbiamo sentito parlare dai tg e dai reportage. La Bestia, il treno sul quale i migranti saltano, il deserto del Sonora, il Messico dei narcos…tutto freddo e altro, raccontato non da dentro, col giusto coinvolgimento in termini di sofferenza da parte dell’autore, ma sempre da fuori, con lo stesso sguardo di chi incrocia un barbone per strada e pensa “poverino”.
Mentre lo leggevo, pensavo a Io Khaled vendo uomini e sono innocente, meraviglioso libro di Francesca Mannocchi, che invito tutti a leggere, e in cui l’autrice, giornalista esperta di questi argomenti, si mette addirittura nei panni di un trafficante di uomini. Non solo la vicenda narrata è di una profondità e di un’universalità che ti dilania, ma leggendo impari qualcosa della Libia e della sua travagliata storia contemporanea. È un libro che gronda sangue, in cui l’adesione della scrittrice, e al tempo stesso la sua conoscenza dei temi trattati, è profondissima. Cummins no. Cummins di queste cose ha sentito parlare o non le ha capite a fondo, visto che professa di essersi documentata per quattro anni per scrivere questo libro. Tutto è di superficialità somma, per cui l’identificazione coi protagonisti è davvero difficile. Èd è questo il vero problema, che va anche oltre la questione meramente etnica e l’appropriazione culturale: anche fosse stato ambientato in un contesto diverso, magari più congeniale alla sua autrice, questo è semplicemente un brutto libro, superficiale nel raccontare i problemi che si propone di descrivere e mal scritto nel descrivere le parabole dei personaggi. Che poi sono in esistenti: Lydia, Luca, non vengono modificati in alcun modo da quel che accade loro. Lo sterminio della famiglia, il perdere la loro vita precedente, veder morire i compagni di viaggio non modifica di una virgola le loro psicologie. E allora come fai a immedesimarti? Io sono stata segnata da eventi assolutamente insignificanti occorsi nella mia vita, questi vivono drammi epocali e se li scrollano di dosso come la polvere del deserto. E poi, certo, è un libro che all’imperizia autoriale aggiunge pure il fatto che tale scarsa capacità è applicata a un tema complesso e profondo. Sembra una cosa scritta sull’onda di un sentimento momentaneo, come di chi ha visto dei migranti in tv e ha provato pena. Probabilmente non è così, ma così sembra dallo stile, dal racconto, da tutto. Ti devi rivedere per davvero in quella gente, capirne l’esperienza, e in caso davvero farti strumento e dar loro la voce, come ha fatto Melania Mazzucco in Io sono con te. Storia di Brigitte, altro libro splendido, che ancora vi consiglio, in cui Mazzucco racconta la storia di una migrante. E per farlo non si è “documentata”: si è seduta davanti a lei e l’ha ascoltata per giorni, settimane, e ha messo il suo racconto su carta, prestando le sue capacità narrative alla sua storia potentissima.
Non è vero, come è scritto nelle note al libro, che in questo periodo storico abbiamo bisogno di più voci possibili che raccontino storie di immigrazione. Abbiamo bisogno delle voci giuste che ne parlino, voci che conoscano davvero l’argomento, che l’abbiano metabolizzato e fatto loro. Purtroppo Cummins non lo è; non lo è per un thriller di media qualità che riesca a tenere il lettore avvinto alla pagina, figurarsi per raccontare un fenomeno complesso come le migrazioni umane. E non è una questione etnica: è una questione di squisite qualità letterarie.