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Carnevale

Il Carnevale mi è sempre piaciuto un sacco. È che ho una passione per i travestimenti, che spiega anche perché per svariati anni ho fatto cosplay. Il Carnevale mi permette di esprimere la mia creatività in vari modi: coi costumi, ma anche coi dolci. E poi, non so, ha qualcosa di arcaico che mi attira: questa festa dei folli che precede la Quaresima, di origine antichissima, segnata da tradizioni che contano almeno mille anni…
Da bambina i miei mi portavano al Carnevale di Frascati. Ne ho ricordi apocalittici. File chilometriche per salire con la macchina, ressa stratosferica, piazze tappezzate di coriandoli, carri allegorici, e poi tutti in maschera, bambini, adulti, giovani e anziani…Era una cosa meravigliosa.
Ora, sono anni che non mi maschero. L’ultima volta avevo diciotto anni. Andai ad una festa coi miei compagni di classe, mi vestii da mafioso. Riciclai il vestito da sposo di mio padre. Però, in compenso, a partire dai venticinque ho iniziato a fare gli strufoli tutti gli anni.
Quest’anno è stato diverso. Perché c’è Irene. Così, ieri, insieme ad un’amica, siamo andati a Frascati, Irene vestita da draghetto, la sua bimba da ninja, e io truccata da gatta.
Non è più come un tempo. Nessun adulto mascherato, niente carri allegorici né ressa. Però c’era un angolo di Piazza Guglielmo Marconi tappezzata di coriandoli, con tanti bimbi, per lo più piccoli, mascherati. E mentre facevo un sacco di foto, per un istante mi è sembrato di essere tornata indietro nel tempo, a quando andavo io a Frascati mascherata. Ho ritrovato lo spirito, ecco, se non i modi di quei Carnevali di venti anni fa. Uno degli ennesimi miracoli della maternità.

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Grazie, ragazzi

Mi ero dimenticata di farveli vedere: gli splendidi fiori che mi hanno regalato i ragazzi del Liceo Scientifico Rummo di Benevento. E grazie anche al preside per i libri!

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Senza parole

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Basta poco a fare autunno

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Frammenti

Mettiamo le cose in chiaro

Scarpone…

…ma soprattutto scarpine

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Poststeig

A me il trekking piace. Se ci pensate è un’attività estremamente fantasy: sa di bei tempi andati, con questo muoversi lento, a piedi, in mezzo alla natura, come dire straniero in terra straniera. E poi c’è quest’idea della meta: esci, e lo fai con lo scopo di raggiungere un obiettivo, che sia la cima del monte, un rifugio o il paese accanto. E quando arrivi sei stranamente soddisfatto, come quando qualcosa di difficile ti riesce bene a lavoro, o hai scritto una cosa che per l’ora successiva ti soddisfa. E insomma, quando posso faccio trekking. È una delle ragioni per le quali di recente vado in vacanza in montagna invece che al mare.
Ora, un bel giorno s’è deciso di fare un trekking classico della Val Gardena: il poststeig, o sentiero della posta. Si tratta di una via che costeggia uno dei costoni della Val Gardena, e nello specifico, ad esempio, connette Ortisei a S. Pietro, un paese poco distante. Ne avevamo fatto qualche giorno prima un pezzettino, c’era sembrato molto bello, e abbiamo pensato di provare l’impresa.
Molto bello è riduttivo. Sali quei dieci gradini che dalla strada asfaltata conducono al sentiero e sei in un altro mondo. La civiltà non è molto distante: quasi sempre si percepisce il suono della statale, a valle. Ma ti sembra di essere distante milioni di chilometri, di trovarti in un posto primordiale, nel quale ti muovi come un invitato a malapena tollerato. Intendiamoci, i boschi della Val Gardena non mi hanno mai comunicato quel senso di selvaggio, di ostile del Lago di Albano, per dire, o del Parco Nazionale d’Abruzzo. C’è sempre qualcosa di accondiscendente, di materno nei boschi della Val Gardena. Ma resta il fatto che si tratta di foresta fitta, in cui la luce penetra piano, filtrando tra ramo e ramo, in cui ti sembra sempre ci sia qualcosa in attesa che ti scruta. Un bosco benevolo, ma pur sempre un bosco, una dimensione nella quale l’uomo mette piede a suo rischio e pericolo.
Il sentiero è abbastanza confortevole, i punti più impervi sono recintati da ringhiere di legno, eppure non mancano le emozioni. Innanzitutto c’è l’acqua, tanta. Filtra dal terreno, scende a valle in torrenti gagliardi, che guadi grazie a malferme passerelle di legno o una lastra di pietra messa lì a bella posta. Poi ci sono le frane. Parecchie. Pendii aspri che interrompono il bosco, aprendo squarci di sole nel regno della penombra perenne, cicatrici bianche di pietroni che tagliano in due il verde del sottobosco. Il sentiero scompare sotto le pietre, e ti tocca intuirne il percorso. Sotto di te, una fuga di alberi sradicati e pietrisco conduce a valle, sopra, la vertigine della roccia franata. Io, che sono imbranata, ho usato anche le mani per avanzare.
Ci sono frane recenti, bianche, apparentemente più malferme, e altre antiche, coperte di muschio verdissimo, le pietre ormai incistate nella terra, parte integrante del panorama. Per esempio, c’era un masso enorme bloccato da un albero, completamente coperto di muschio: la tana di Totoro. Mancava un pezzo, che probabilmente s’era staccato durante l’apocalittica caduta, e che giaceva una decina di metri più a valle.
Poi, qua e là, lo strapiombo si apre alla tua sinistra, il richiamo del vuoto appena trattenuto da parapetti di legno. Sotto, un precipizio verdissimo, gli alberi letteralmente aggrappati ai lembi di terra. Davanti, i dirupi scoscesi e verdissimi dell’altro versante della valle.
Nonostante la pendenza sia bassissima, e il sentiero tutto sommato confortevole, in alcuni punti sono stata inquieta, e mi sono stancata, come è giusto che sia. Fa parte dell’esperienza. La natura è questo, è altro da noi, è qualcosa che c’era prima di noi, ci sarà dopo: resta generazione dopo generazione, contende all’uomo ogni spazio libero, riconquistando terreno non appena si abbassa la guardia. Non è più qualcosa che ci riguardi. Piuttosto è qualcosa che si ammira in silenzio.
Ok, confesso che a S.Pietro non ci siamo arrivati. Dopo un’ora e mezza di cammino e con la prospettiva di altrettanta strada ancora da fare, siamo scesi a valle a Pontives. Da lì, l’autobus fino a Ortisei. Ma tutto sommato non ha avuto davvero importanza. Ha contato piuttosto la fatica, lo stupore, la bellezza.
Qui sotto, un paio di fotone esplicative. Io questo sentiero ve lo consiglio: noi l’abbiamo fatto con Irene al seguito, quindi non è straordinariamente impegnativo, ed è meraviglioso.

P.S.
Lunedì, giuro, svelo cos’è il progetto top secret :P

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estate

Oggi il Raccordo non mostrava quel tipico aspetto postapocalittico dell’agosto romano. C’era anzi traffico. In compenso, gli scenari apocalittici mi attendevano una volta arrivata a lavoro.
In questi giorni l’università è vuota. Ma proprio vuota. Per i viali ci volano le balle di fieno. Le aule sono chiuse a chiave, e desolate. In aula dottorandi siamo in due.
Fa un effetto strano. Questo posto d’inverno è un casino. Ragazzi ovunque, file chilometriche ai bar per accaparrarsi l’ultima pizzetta, l’ultimo panino, aule che letteralmente traboccano di studenti, spesso accosciati a terra o appollaiati sulle finestre per prendere appunti.
Adesso è il setting perfetto per un film horror tardo-adolescenziale. Di quelli coi ragazzini che pomiciano nei corridoi, e vengono puniti per la loro lussuria a suon di squartamenti.

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Ieri sono andata di nuovo al lago di Albano, stavolta anche con Irene. Rispetto a quando ci andavo io (e l’ultima volta risale temo al 2001 o giù di lì), adesso ci sono gli stabilimenti e la spiaggia è larga svariati metri. All’epoca il lago arrivava praticamente alla strada.
Abbiamo preso degli ombrelloni sull’erba. Irene è rimasta a lungo perplessa coi piedini tra i trifogli. Poi ha iniziato a infilarsi in bocca fiori e erba.
Purtroppo, non è rimasto tutto proprio come lo ricordavo. Il fondo adesso è fangoso, almeno in alcun punti. Prima l’acqua era limpidissima, il fondo era di una finissima sabbia nera, che però doveva essere piuttosto pesante, visto che si alzava poco quando ci mettevi i piedi. Ho dovuto pensarci parecchio prima di farmi il bagno. Alla fine ho tagliato la testa al toro. Con la morte nel cuore, mi sono fatta la passerella di legno che porta alla zona sabbiosa e sono scesa in acqua. Ho dovuto nuotare un po’, ma alla fine ci sono arrivata. Alla sabbia. E ho iniziato a sorridere da sola come una scema. Perché era come allora. L’acqua limpida. La sensazione morbida sotto i piedi. L’odore, soprattutto. Un odore inconfondibile, che ricordo perfettamente, quello dell’acqua sporcato appena da una nota acidula, calda, come se fosse rimasta traccia del fuoco che fino a 5000 anni fa ancora dominava questa zona.
Ho nuotato un po’, mi sono goduta il panorama dei colli. E ho pensato che ci sono posti che descrivono meglio di mille parole cos’è la pace. Sebbene la zona dei Castelli sia ancora geologicamente attiva, il lago di Albano è uno di questi posti.

P.S.
Qualcuno mi ha detto che si immaginava diverso il lago, più selvaggio. Le foto che ho fatto io si riferiscono alla parte più antropizzata, coi ristoranti e gli stabilimenti. Poi c’è tutto il resto, che è completamente coperto di boschi. Lì ieri non ci sono andata perché col passeggino non è facile avventurarsi, e per scendere in acqua ci sono pendii piuttosto ripidi e impervi.

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