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¡Que viva Hunger Games!

Avevo in canna da un po’ di tempo un post su Hunger Games, ma ho avuto molto da fare e quindi la cosa è rimasta in sospeso.
In verità, sui libri mi sono pronunciata un sacco di volte. Innanzitutto, con uno strillo sulla primissima edizione italiana, all’epoca in cui, siccome non era ancora un fenomeno planetario, era un libro assolutamente di nicchia che leggevano in pochissimi. In seguito, ne ho parlato bene un po’ ovunque, perché è una saga che amo e alla quale riconosco tonnellate di pregi. Di recente ho anche scritto un articolo su Vanity Fair al riguardo; lo trovate qua.
Il post che avevo in canna in realtà riguarda i film, o meglio il film, Catching Fire, che è l’unico che ho visto al momento (ma sto cercando di recuperare). Chi mi segue su Twitter lo sa, sono andata a vederlo in lingua originale a Parigi circa una settimana fa. E, devo dire, mi è piaciuto parecchio. Molto aderente al libro, il che può essere un pregio o un difetto, a seconda dell’idea che si ha dell’adattamento (io in generale preferisco film che riescano in qualche modo ad essere altro rispetto al libro, ma qui la resa è ispirata e personale, per cui l’aderenza al testo l’ho molto apprezzata), ma, soprattutto, capace di essere un buon film tout court. Ed è proprio di questo che voglio parlare: perché la riduzione cinematografica di Hunger Games piace più o meno a tutti quando altre trasposizioni hanno invece deluso?
Innanzitutto, i film vengono da libri in cui di ciccia ce n’è a bizzeffe: non solo avventura, non solo trama, ma personaggi credibili e interessanti, in cui immedesimarsi è facile, e un sottotesto alto così sulla società dell’immagine, la propaganda, il potere e duecento altri miliardi di sottomessaggi. Mi si dirà: vabbeh, tutto sommato son cose dette e ridette. A parte che tutto in letteratura è stato detto e ridetto, fosse solo perché la natura umana, quella più profonda, non muta nel corso dei secoli, ma nessuno l’aveva mai detto ai giovani e con tale efficacia. È una specie di 1984 per i ragazzi, che spiega il nostro mondo in modo chiaro, impietoso e appassionante. Perché noi a Panem ci viviamo già, se ci pensate bene.
Esistono però altri libri pieni di ciccia le cui trasposizioni cinematografiche non sempre hanno incontrato il favore della critica e del pubblico (sì, sto parlando di Harry Potter): in quel caso? In quel caso i registi spesso hanno messo in mostra solo l’aspetto più “infantile” dell’opera, e, quando hanno tentato di avvicinare il lato più adulto, hanno prodotto strani ibridi a metà strada tra il film indipendente da Sundance e il blockbuster per ragazzi (e sì, sto parlando de I Doni della Morte I e II).
Il film di Hunger Games non sta lì a preoccuparsi di edulcorare gli aspetti più truci della saga, non sta lì a cercare di pompare le parti più strettamente spettacolari. Tutto è estremamente funzionale alla trama e al messaggio, compresi gli effetti speciali, che non appaiono mai gratuiti. I ragazzi impazziscono perché i film non li trattano come cretini ai quali va nascosta la verità: con la giusta dose di spettacolarizzazione, mostrano loro il sangue, la morte, la crudeltà e il tormento dei protagonisti. È un film che veramente ragazzi e adulti possono guardarsi insieme e godere, in modo magari differente, ma apprezzare pienamente. La condiscendenza è un grosso problema di tanto cinema americano, sempre preoccupato di stare equidistante da tutto e tutti e non mostrarsi troppo scioccante. Ieri, per esempio, mi è caduto l’occhio su una scena del secondo film degli X-Men, nello specifico il momento in cui Piro sbaraglia la polizia che ha fatto irruzione a casa dell’Uomo Ghiaccio. Dopo botti e fiammate come manco a capodanno, il regista si perita di mostrarci che nessun poliziotto è stato maltrattato durante la scena: sono tutti vivi. È evidentemente una scelta della produzione, ma è una di quelle cose che mi fanno incazzare. Voglio dire, Piro è un personaggio borderline sulla via della dannazione? E allora ammazza, punto. Queste vie di mezzo edulcorate non servono semplicemente a niente, se non ad ammosciare gli snodi di trama. Catching Fire questi problemi non se li pone, perché non se li pone neppure il libro. È la vita ragazzi, e la vita in un posto tremendo come Panem.
Insomma, il grandissimo successo di Hunger Games mi rallegra, secondo me è un buon segnale, e auguro al franchise di continuare così. Credo che di libri e film come questi abbiamo un gran bisogno.

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Finzioni

Sono diventata una spettatrice di Realtime. Non so se debba vergognarmene o meno. La tv mi serve sostanzialmente per mettere a riposo il cervello quando sono troppo stanca per fare qualsiasi altra cosa, e guardare torte monumentali e vestiti da sposa in genere è in grado di sortire l’effetto desiderato. Comunque, il punto non è questo.
Qualche settimana fa girava il promo di una nuova trasmissione. Prima ti facevano vedere uno studio televisivo, poi interrompevano la trasmissione e dicevano qualcosa: “basta con gli studi televisivi, va in onda la verità”. Il programma pubblicizzato era un qualche reality estremo americano, in cui la gente andava a raccontare segreti di famiglia e ci faceva i conti.
Come mio solito, la cosa ha indotto la mia testa a fare voli pindarici.
La tendenza si sta un po’ invertendo, ma per molti anni la tv è stata invasa dai reality di vario genere. Ha iniziato il Grande Fratello, poi se ne sono aggiunti tonnellate e tonnellate di altri, sugli argomenti più impensabili. Adesso va più il docu-reality, ma siamo sempre lì: la gente vuole la “verità”. E come si arrabbia se viene fuori, che so, che quelli di Forum sono tutti attori, e quel caso umano così commovente in realtà non è mai esistito!
Io tutta questa fissazione per la “verità” non l’ho mai capita. Diciamocelo, vivere la vita in prima persona è interessante, ma guardare dall’esterno le vite degli altri è mediamente palloso. Lo capivano quelli che avevano Mediaset Premium e si guardavano Il Grande Fratello 24/7: per lo più era noia pura, perché la vita è anche noia, poco da fare. Non credo trovereste granché interessante guardarmi adesso, mentre passo la mattinata a scrivere. Poteste stare nella mia testa, ci sarebbe da divertirsi, ma guardarmi da fuori non ha alcun interesse.
Personalmente, preferisco d gran lunga la finzione. Il che è abbastanza ovvio, considerato il lavoro che faccio. Non so, non trovo nulla di realmente interessante in un privato esibito così, senza filtri e senza alcun tipo di stimolo alla riflessione, sbattuto in tv in varie forme e con pretese di realtà che sono semplicemente ridicole. C’è sempre una telecamera, da qualche parte, e le persone in scena lo sanno; per questo non saranno mai realmente e davvero se stesse, anche se non ci fosse dietro comunque un team di autori e una sceneggiatura. La letteratura, invece, è tutto un discorso intorno alla finzione. Le storie non sono “vere”, almeno nella maggior parte dei casi, sono frutto dell’invenzione dell’autore. Spesso, anche quando il sostrato è reale, c’è di mezzo la sensibilità dell’autore che filtra, dà un’impronta piuttosto che un’altra ai fatti. Eppure, io trovo molta più verità in un libro qualsiasi che nell’ennesimo reality in cui c’è qualcuno che confessa i suoi terribili segreti.
Lo dicevo anche l’altro giorno a Pordenone. Ciò che più mi attira del fantasy – e dell’inventare storie in generale – è la possibilità di piegare il reale ai tuoi scopi. Nel fantasy questo avviene all’ennesima potenza: non sei solo padrone dei tuoi personaggi, ma anche del mondo nel quale si muovono. Sei tu che fai le regole e decidi cosa esaltare e cose invece mettere in ombra.
La realtà è multiforme, cangiante, immensa. Quando ti ci imbatti, quando la guardi senza filtri, è difficile comprenderla, perché è irriducibile in unità. Grandi tragedie sono venute fuori da interpretazioni semplicistiche della realtà. La letteratura invece è sempre un discorso sulla realtà: l’autore ne prende un pezzo, lo illumina col faro personale della propria sensibilità, della propria poetica, e te lo porge. Senza pretese di assoluto. È il suo punto di vista. Ma è comunque una riflessione. È un po’ come se i libri prendessero il meglio dalla vita, via le parti noiose, e ne distillassero solo quel che può interessare nell’ottica di una certa riflessione. È la ragione per cui un libro arricchisce la nostra esperienza di vita – se è un buon libro, certo – e un reality lascia un po’ il tempo che trova.
Ogni tanto, comunque, ficcanasare nelle vita degli altri produce un certo grado di soddisfazione. Il pettegolezzo nasce per questo. Ma è cosa meschina e di breve durata. Per questo, negli ultimi tempi, sto segando sempre più tempo a internet e a quel po’ di televisione che guardo: meglio un buon libro e una buona storia.

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Manzoni come King

Ho inaugurato l’anno nuovo con una rilettura de I Promessi Sposi, lettura che in questi giorni si avvia alla sua conclusione. Non è la prima volta che lo leggo; l’ho già fatto un paio di volte in passato, dopo averlo studiato a scuola. È che a me è sempre piaciuto, anche quando lo studiavo. Sarà che ho trovato professori che me l’hanno fatto apprezzare, o sarà la mia naturale propensione ad un certo modo di far narrativa che andava per la maggiore nell’800, ma non mi annoiavo a studiarlo – anzi! – e lo rileggo sempre con piacere. E devo dire che quest’ultima rilettura mi ha confermata nell’ottima opinione che ho di questo libro che la maggior parte degli italiani vede come il fumo negli occhi. E invece, ragazzi, il Manzoni dà una pista a tanti narratori moderni, e sulla gestione del ritmo e sulla capacità di commuovere e divertire. Perché, e forse questo non viene evidenziato abbastanza a scuola, I Promessi Sposi è divertente. Eh già. Altro che le solite pippe sulla Provvidenza, e la religione, e la storia…Manzoni si diverte molto a scrivere, e il lettore si diverte di conseguenza molto a leggere. Pensateci: dentro c’è veramente tutto. C’è l’amore contrastato, ovviamente, ma c’è anche la passione illecita (la monaca di Monza), il “male metafisico” (l’Innominato), la morte (la peste), il perdono (e qui l’elenco sarebbe parecchio lungo), la redenzione (da Fra’ Cristoforo all’Innominato, per dirne solo due). Il tutto raccontato con un gusto per la pura narrazione, un amore per la storia e per i personaggi che a me fa venire in mente – e mi sa che qualcuno inorridirà – Stephen King. Sì, lui. Voglio dire, siamo al capitolo IV, è appena successo il patatrac, la tensione è alta, e incontriamo Fra’ Cristoforo. Manzoni che fa? Capitolo intero di digressione sulla storia del personaggio. Roba che, se non sei bravo, il lettore chiude il libro e morta lì. E invece la digressione ci sta, appassiona, trova un suo senso compiuto e nella cornice complessiva del romanzo, e nel singolo episodio. Stessa cosa dicasi per la storia della monaca di Monza, che prende ben due capitoli. Oggi, ovviamente, non si usa più di interrompere la storia con interventi diretti dell’autore come quelli che fa Manzoni. Oggi, che so, la storia della monaca verrebbe fuori con un bel flashback. Resta però il fatto che la digressione appassiona. Io adoro la storia di Gertrude; è uno di quei racconti in cui l’acutezza di Manzoni nel raccontare l’essere umano viene fuori con una vivezza, e pure con un mestiere, che non ha eguali. O come la parte sull’Innominato. Appena si inizia a parlare di lui, il tono del racconto vira bruscamente: tutto, in quel che lo riguarda, parla di un Male superiore, di ben altra caratura rispetto a quello sciocco, capriccioso, di Don Rodrigo. La valle in cui vive è intrisa essa stessa di un’atmosfera cupa, tremenda, che il lettore coglie a volo.
Non starò a dilungarmi sulla perfezione di certi passi, sui quali in genere ci si sofferma abbondantemente a scuola. Il “La sventurata rispose”, punto e a capo, è il perfetto esempio della misura, della grandezza di una narrazione che, pur affondando a piene mani in una materia “patetica”, quasi mai scantona nel retorico spinto. Dice più quel punto e a capo di tante parole. È un vuoto significativo che il lettore riempie dei più oscuri sottintesi. Comunque, per inciso vi segnalo un passo dalla notte dell’Innominato che mi sembra veramente splendido – a me l’Innominato è sempre piaciuto un sacco –

Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva respingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e, intanto che la mente combatteva per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava”

Cioè. Tutto straordinario. Il ritmo, la scelta delle parole, tutto. Una frase che per altro spiega in due righe e mezzo l’Innominato.
Un’altra cosa che ho notato specie in quest’ultima lettura è l’ironia. Noi abbiamo quest’immagine pallosissima di Manzoni, come un tizio basettone col cipiglio severo, fissato con la religione, e invece dalle pagine de I Promessi Sposi viene fuori di continuo il ritratto di un uomo ironico. L’ironia, nel libro, è ovunque. Nei continui incisi che l’autore si permette, nei commentini sui personaggi, nel riferirsi ai “venticinque lettori” – ha ragione Eco, ne vuole venticinque milioni -, nei tanti ritratti di personaggi minori. E dietro si intravede un piacere della narrazione, un divertimento del racconto che io trovo modernissimo. Per dire, ogni volta che Don Abbondio compare in scena io vedo distintamente Manzoni che sghignazza. Ci sono parti che sono evidentemente più lunghe di quanto la narrazione richiederebbe – il monologo interiore di Don Abbondio in marcia verso la casa dell’Innominato – che stanno lì solo perché Manzoni si stava divertendo troppo. A volte ti verrebbe la voglia di essere nato duecento anni fa per conoscerlo, questo autore volpone, che non si nega nessun becero trucco per ingraziarsi il lettore e divertirlo, che ha un controllo assoluto sulla trama, che tratteggia personaggi memorabili. Ed è tutto straordinariamente moderno. È questo che ho scoperto: che I Promessi Sposi si possono leggere come si legge un Murakami, un King, un autore di genere. Che non è un libro paludato e noioso come troppo spesso si crede, che è un trattato di buona scrittura da cui abbiamo tutti da imparare, che ha attraversato duecento anni e passa di storia restando fresco e godibile come il primo giorno. Per cui vorrei consigliarvi di non chiudere la mente, quando a scuola vi fanno studiare Manzoni. Rischiate solo di perdervi una gran storia e un gran libro.

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La sindrome di Lost – seconda (inattesa) parte

L’annata letteraria è iniziata molto bene, devo dire, sia perché sto leggendo molto, sia perché le cose che leggo mi piacciono. Stamattina ho finito Le Luci nelle Case degli Altri, romanzo delizioso che mi sento di sicuro di consigliarvi, e mi è tornato in mente ancora il post di ieri. Attenti che c’è qualche piccolo spoiler.
A parte la considerazione che se c’è una cosa che ad andarla a toccare si solleva un vespaio, quella è Evangelion: il post parlava di XY, o comunque portava avanti un discorso generale, e invece s’è finiti a parlare solo di quello. Ma, a parte questo, Le Luci nelle Case degli Altri mi permette di prendere ancora in mano il problema di come le trame vengano usato – o abusate – per veicolare determinati messaggi.
Il libro in questione è un puro mainstream, però è narrativa. Certo, l’importante sono le psicologie dei protagonisti, ma i loro percorsi vengono portati avanti tramite una trama, una trama che per altro ha al centro un mistero. Il mistero in qualche modo spinge tutta l’azione, ne è il motore immobile, permea le pagine.
Che succede però? Che alla fine la risoluzione del mistero non è importante. Non è importante per la protagonista, non lo è per i numerosi comprimari. È il senso del libro, il suo significato più profondo. Ma. Ma il libro termine con un’appendice, due pagine in cui i pruriti più “gossippari”, se vogliamo, del lettore vengono esauditi, e il mistero risolto. Ecco. Questo è un racconto portato avanti come si deve. Il libro sta perfettamente in piedi anche senza le due pagine finali. In questo senso il mistero è il McGuffin di cui parlava ieri un commentatore: porta avanti l’azione, in qualche modo le dà il là, ma la sua risoluzione non è indispensabili ai fini dello scioglimento e dell’intreccio e del senso del libro. Le ultime due pagine sono un surplus, una giusta chiosa che permette di aggiungere un ulteriore punto di vista alla vicenda.

Non lo so, a volte penso che forse sono troppo conservatrice, che invece di essere una scrittrice di trenta anni ne sembro una di sessanta, quanto a intolleranza sulle regole del narrare storie. Ma per me un’opera letteraria deve essere compatta: va bene Il Pasticciaccio, con un inizio ma senza fine, perché l’assenza della risoluzione al giallo trova una perfetta corrispondenza e nella filosofia del libro e nella sua lingua, in un fantastico gioco di risonanze in cui il contenuto rimanda alla forma e viceversa, ma appunto che le cose tornino, alla fine, che uno non senta di aver perso tempo in un viaggio senza scopo.

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