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Il mare, il niente, la vita

L’incidente alla Costa Concordia mi ha particolarmente colpita. Penso abbia colpito un po’ tutti noi, ma in particolare chiunque sia mai andato per mare, magari proprio in crociera. Io l’ho fatto due volte, la prima in viaggio di nozze, nel Mar Baltico, la seconda nel Mar Glaciale Artico, e, sì, ho viaggiato anche con la Costa.
È che da molti anni viaggiare non viene più percepito come una reale avventura, come qualcosa in cui è insito un seme di pericolo, come è stato per secoli, fino a tempo tutto sommato recenti. Partivi, e non sapevi se saresti mai tornato, a maggior ragione quando andavi per mare. Eri in balia di forze che non non potevi controllare, ti inoltravi in territorio sconosciuto. Col tempo, la tecnologia ci ha dato l’illusione che l’imponderabile fosse sempre sotto controllo. La strumentazione sofisticata, i mille sistemi di rilevazione, le comunicazioni continue. Non sei mai solo in viaggio. Eppure…Eppure l’imponderabile esiste, che si chiami errore umano – come pare sia il caso della Concordia – o una forza della natura contro la quale non hai difese.
In crociera, chi vuole può illudersi di stare in albergo. La nave è così grossa che il rollio è consistente solo in caso di mare grosso. Per il resto, hai tutte le comodità della terra ferma, e mille motivi di distrazione e divertimento. Puoi scordati di star per mare, tanto più che in molti casi si viaggia solo di notte. Ma a volte basta soltanto uscire sul ponte, e quell’illusione di certezza, di tranquillità, scompare di fronte alla vista della solitudine immensa e schiacciante del mare aperto. Un posto che urla ostilità, un posto che palesemente non è fatto per l’uomo. Troppo immenso, troppo desolato, troppo intollerabilmente grande. Nella mia ultima crociera, abbiamo navigato per due giorni sopra il Circolo Polare Artico. Era luglio, e dunque la notte non esisteva. Appena ti allontanavi di qualche miglio dalla riva, una nebbia densa avvolgeva ogni cosa. La luce era sempre la stessa, a tutte le ore del giorno e della notte. Il cielo a malapena si distingueva dal mare, e il confine tra i due era impossibile da tracciare. Tutto era identico a se stesso, immutabile, appuntare lo sguardo su qualcosa, qualsiasi cosa era impossibile. Eravamo tremila persone in mezzo al niente, impegnate a distrarsi da quella solitudine più spaventosa di qualsiasi deserto. Niente distillato. E non aveva granché importanza che ad un prezzo spropositato potevi collegarti per un’ora via Internet e sentirti vagamente connesso alla civiltà. Se fosse successo qualcosa lì, su quel mare ghiacciato, in mezzo alla nebbia, chi ci avrebbe salvati?
Quando il mare s’è fatto grosso, tipo al secondo giorno, ho capito quanto spaventosamente potente fosse quel regno in cui ci stavamo inoltrando. Una nave da crociera, quando la vedi ormeggiata nel porto, sembra mastodontica, inamovibile. Ti sembra che niente possa smuoverla. E invece. E invece la nave beccheggiava, la prua che andava su e giù di svariati metri. Mentre camminavi, sentivi il pavimento che ti mancava sotto i piedi, mentre l’acqua delle piscine coperte sbatteva impazzita contro le pareti. E non era neppure tempesta. E bastava a farci sentire sperduti su un guscio di noce.
Il senso di sicurezza che ci accompagna quando ci muoviamo per il mondo è pura illusione. Ci sono sono cose, in questa terra, che non sono nate per noi, e che, quando le invadiamo, ci tollerano a malapena. Una nave è sempre un guscio di noce che galleggia, un aereo un pezzo di metallo sostenuto in cielo da forze che la maggior parte della gente non conosce e non capisce. E noi, formiche che si arrampicano sulla superficie curva di questo pianeta.

“Suonavamo perché l’Oceano è grande, e fa paura, suonavamo perché la gente non sentisse passare il tempo, e si dimenticasse dov’era e chi era. Suonavamo per farli ballare, perché se balli non puoi morire, e ti senti Dio. E suonavamo il ragtime, perché è la musica su cui Dio balla, quando nessuno lo vede. Su cui Dio ballava, se solo era negro.”

P.S.
Mi rendo conto che tutto questo c’entra davvero poco con una tragedia che, se la ricostruzione che si sta delineando verrà confermata, dipende praticamente esclusivamente da una serie di errori umani e leggerezze davvero difficili da giustificare. È solo che mi ha ricordato queste vecchie riflessioni che hanno sedimentato a lungo in me, e che, per chissà quale ragione, sono venute fuori appena ho visto il relitto mezzo affondato

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Mediterraneo

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Ferie d’agosto

Qui, dopo un po’, sembra esista solo questo golfo e il mare. Il resto del mondo è tagliato fuori, e potrebbe non esistere. Lo sguardo resta incagliato tra gli scogli rossi e i mirti, nella mezzaluna di questo mare di cristallo. Le case giocano a nascondino tra oleandri e bouganville, dietro di noi il nulla, davanti il mediterraneo.
Trascorro le giornate nella stessa routine rigida che mi impongo ovunque vada, qualsiasi cosa faccia: mare, cibo e lavoro si alternano a stretto giro. Resto a mollo più che posso, perché quando sono in acqua per una volta non mi sento goffa, grassa o brutta: scivolo via lieve, muovendomi esattamente come voglio là dove gli altri annaspano, sguazzano. Mi apro il passo nel verde del mare o nel blu della piscina, e macino metri su metri, finalmente ricondotta in unità.
La rete va e viene. Ma non ha molta importanza. La uso solo per lavoro. E per lasciare qui quattro inutili righe.

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